Gli scrittori della porta accanto

The week: focus sugli eventi tra il 23 e il 29 maggio

The week: focus sugli eventi tra il 23 e il 29 maggio

The week Di Argyros Singh. Cosa è successo nel mondo tra il 23 e il 29 maggio? Focus sulla guerra ucraina, sul problema del rifornimento di grano ed energia, sulle contraddizioni degli Stati Uniti e sulle donne afghane.

Il post di oggi è scandito in tre parti: nella prima, tratto per punti la situazione ucraina e le guerre del grano e dell’energia in atto in Europa e nel mondo; nella seconda, mi occupo della incongruente situazione americana; nella terza, dedico un focus alla condizione delle donne afghane.

Processi, diplomazie e tentativi di uscita.


  1. Nell’intervento della scorsa settimana, scrivevo del processo al sergente russo Vadim Shishimarin: pochi giorni dopo (lunedì 23), il soldato è divenuto il primo condannato all’ergastolo per aver commesso crimini di guerra in Ucraina.

    L’avvocato difensore presenterà appello, utilizzando il pretesto che Shishimarin fosse stato costretto da un superiore a uccidere il civile, Oleksandr Shelypov, testimone di un furto d’auto da parte dei russi.
    In conclusione, due note. La società civile ucraina ha probabilmente bisogno di un processo in cui la giustizia possa concretizzarsi, laddove – come purtroppo spesso accade in condizioni di guerra – il rischio risulta essere quello di una giustizia sommaria, strada per strada, che ha segnato anche la nostra storia nazionale. Oltre a ciò, non è escluso che il risalto mediatico di questo processo possa convincere i vertici russi ad attuare un massiccio scambio di prigionieri: non a caso la vedova di Shelypov si sarebbe detta favorevole a tale scambio, nella prospettiva di salvare altri soldati ucraini. Su Shishimarin — Wired Italia

  2. Dall’Ucraina alla Russia, un altro processo, di più lunga data.

    Il dissidente russo Aleksej Navalny ha perso il ricorso in appello. Viene confermata dunque la condanna a nove anni di reclusione, che Navalny sconterà in una colonia penale a regime rigoroso, secondo quanto affermato da Oleg Kozlovsky, ricercatore per la Russia di Amnesty International.
    A proposito di oppositori, aveva fatto notizia, benché in forma marginale, la fuga di Igor Volobuev, ex vicepresidente di una delle divisioni di Gazprombank. Di origini ucraine, il dirigente ha sostenuto di essere fuggito a Kyïv per poter sostenere la resistenza, dopo che i suoi parenti e amici ucraini gli avevano raccontato quanto stessero subendo per mano russa.
    Come considerare questa notizia? Intanto, i dettagli forniti da Volobuev sulle motivazioni della sua fuga andrebbero approfonditi: questa però riporta l’attenzione su quei dirigenti russi che sembrerebbero in disaccordo con la linea del Cremlino. Lo stesso Volobuev ha citato Vladislav Avayev, ex primo vicepresidente di Gazprombank, morto suicida dopo aver ucciso moglie e figlia, a Mosca. Ci sono però forti dubbi su questo omicidio-suicidio. Su Navalny — RaiNews | Sull’ex vicepresidente di Gazprom – corriere.it

  3. «Bisogna essere onesti. Se si dice che l’Ucraina entrerà nell’Unione Europea in sei mesi, un anno o due anni, si mente. Non è vero: probabilmente tra quindici o vent’anni… ci vuole tanto tempo.»

    Sono queste le parole del nuovo ministro francese per gli Affari Europei, Clement Beaune, specificando che l’Ucraina potrebbe nel frattempo entrare in un progetto politico europeo, non meglio specificato, sul quale starebbe lavorando il presidente Macron.
    La linea francese si lega a quella tedesca, dopo le dichiarazioni del cancelliere Olaf Scholz sulla necessità di evitare scorciatoie, a fronte di quei Paesi balcanici che attendono da anni di poter accedere all’UE.
    Più favorevole a un’accelerazione è invece la Polonia, aspetto che ci mostra come vi siano almeno due, o tre Europe. Quella nord-occidentale è più propensa a mantenere lo status quo, che la vede in posizione dominante. A est c’è la cosiddetta giovane o nuova Europa, con speranze e aspettative nei confronti dell’Unione, con ideali forse più forti della disincantata vecchia Europa. E infine c’è il meridione, in cui rientra l’Italia: il nostro Paese è in genere scettico sull’ingresso dei Paesi dell’Est, poiché in una certa parte della popolazione, trasversale a livello politico, si è insinuata la convinzione che tale apertura possa trasformarsi in una perdita di diritti socio-economici per gli italiani.
    Eppure, a livello di governo, vi è un interesse ad allargarsi a est, una propensione che si può spiegare facilmente, dato che il meridione d’Europa è stato per lungo tempo messo all’angolo da Bruxelles. Si può dire che se non fossimo tanto ottusi e ostinati nel dire no, vedremmo nell’alleanza con gli Stati della nuova Europa un’opportunità per ristabilire un’equità nell’Unione su diversi punti. Sulle dichiarazioni francesi — RaiNews

  4. Il fermento nell’Europa orientale è giustificato da diversi fattori, tra cui l’esigenza di riscrivere i confini, forse frettolosamente determinati con la caduta dell’URSS.

    L’incontro della scorsa settimana tra i presidenti Putin e Lukašėnka è servito a ribadire l’unità ideologica, commerciale e militare. In merito all’ultimo punto, il leader bielorusso ha ordinato la creazione di un nuovo comando a ridosso del confine ucraino. Con il pretesto della presenza massiccia di truppe NATO in Polonia, Lituania e Lettonia, Lukašėnka ha voluto giustificare così il nuovo schieramento di soldati.
    Nel frattempo, sul fronte di guerra, le truppe russe sono avanzate, occupando gran parte della regione di Luhans’k e intensificando l’offensiva in decine di città, tra cui Sjevjerodonec’k. Il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ha sostenuto che l’Ucraina dovrebbe prendere coscienza della situazione di fatto; Zelensky ha però ribadito la volontà di resistere. Mentre il controllo del mar d’Azov finisce totalmente in mano russa e anche la recente chiamata di Draghi a Putin, per consentire un’apertura dei porti sul mar Nero, sembra non aver dato frutti, l’Ucraina attende tragicamente le risorse per poter avviare una controffensiva che le consentirebbe di presentarsi con alcune carte vincenti al tavolo dei negoziati. Su Lukašėnka — ANSA.it | Sull’avanzata russa – messaggero.it | Sulla chiamata Draghi-Putin – Open

  5. La scorsa settimana si è svolto a Davos, in Svizzera, il consueto incontro annuale del World Economic Forum.

    Quest’anno la presenza russa è stata azzerata, dopo che lo stesso Putin aveva partecipato più volte all’evento, in nome di un ideale, quello del fondatore Klaus Schwab, per cui il dialogo con i russi fosse fondamentale per la pace. Dopo una pandemia e una guerra, però, l’ideologia del WEF è sotto attacco: all’esterno, la Cina sta aprendo nuove strade al commercio globale, mentre altri Stati, democratici sulla carta, stanno virando verso soluzioni autoritarie; all’interno, invece, l’Occidente è attraversato da una crisi che sfiora in più punti la rassegnazione e il vero e proprio disfattismo.
    Non sorprende quindi che l’Europa stia perdendo ancora di più la sua capacità di incidere sul presente e anche nel contesto ucraino: non riuscendo a trovare un accordo condiviso per sganciarsi dal gas e dal petrolio russi, a causa di fronti interni disillusi, arrabbiati o indifferenti, i governi europei possono solo sanzionare quanto non sfiori in modo eccessivo il benessere (anche relativo) dei cittadini.

    Preparati o meno, le conseguenze della guerra colpiranno anche gli europei: secondo le Nazioni Unite, il blocco dei porti ucraini sta trattenendo almeno ventisette milioni di tonnellate di grano.

    Quello ucraino copriva ben il 50% del World Food Program, volto a combattere fame e carestie. Ora, anche ammesso che si possa trovare una soluzione per le scorte presenti (che via terra incontrano vari problemi logistici e burocratici), un problema più grave prenderà forma nei prossimi anni, in mancanza dei nuovi raccolti. E di probabili stravolgimenti politici nel continente africano.
    Una risposta? L’UE sta lavorando a una nuova strategia all’interno del programma RePowerEU, che consiste in un massiccio investimento nel fotovoltaico; nella diversificazione energetica; nell’aumento della capacità di rigassificazione; in una riduzione dei consumi, pubblici e privati, del 13% entro la fine del decennio. Uno dei fascicoli all’interno del programma prevede la proposta spagnola di un maxi-gasdotto che trasporti prima gas, e in futuro idrogeno verde, a Francia e Italia, dove potrebbe poi essere trasferito al resto del continente. Il nostro Paese si è infatti imposto in questo progetto, che la Francia in passato aveva scartato, con la possibilità di collegare Barcellona a Livorno sotto il Mediterraneo.
    Le prospettive del RePowerEU, che include autonomia energetica ed energia più pulita e condivisa, non merita forse il nostro impegno? Su Davos — corriere.it e ilpost.it | Sulla guerra del grano – AGI.it e SkyTG24 | Sulla guerra energetica – ilmattino.it e Europa Today

Stati Uniti: dall’Oriente alle questioni interne.

Gli USA hanno fatto parlare di sé per almeno due ragioni: le dichiarazioni del presidente Biden in Estremo Oriente e la strage in Texas.
  1. In visita a Tokyo, Biden ha affermato che se la Cina tenterà di conquistare Taiwan, gli Stati Uniti interverranno sul campo.

    Il portavoce del ministero degli Esteri, Wang Wenbin, ha risposto che Taiwan sia una questione interna cinese.
    Nell’ottica del contenimento della Cina, la visita di Biden in Giappone è servita a proporre il piano di investimenti noto come Indo-Pacific Economic Framework (IPEF), aperto a qualsiasi Paese dell’area interessato, che al momento conta tredici Stati.
    Il summit bilaterale con il premier nipponico Fumio Kishida era solo un’anticipazione della riunione informale dei QUAD, che include anche India e Australia. Il gruppo QUAD, nato nel 2007, ha l’obiettivo di contenere l’influenza cinese in Asia e nel Pacifico. Pur non trattandosi (ancora) di una vera e propria alleanza, il QUAD ha comunque all’attivo alcune esercitazioni militari congiunte. Posto che il legame tra USA, Giappone e Australia è solido, la sfida del gruppo consiste nel far uscire l’India dal suo storico non allineamento. Per il momento, al termine dell’incontro, i leader hanno deciso di investire ben cinquanta miliardi di dollari in infrastrutture nell’Indo-pacifico. Il prossimo incontrò avverrà nel 2023, in Australia. Suulle dichiarazioni di Biden in Giappone ANSA.it | Sui Paesi QUAD – AGI.it e ANSA.it

  2. Lo slancio nel Pacifico è stato presto smorzato dalla strage alla scuola elementare di Uvalde, in Texas, dove hanno trovato la morte diciannove bambini e due adulti, a cui si aggiunge il killer, il diciottenne Salvador Ramos.

    Il presidente Biden ha rilasciato dichiarazioni di dolore e di frustrazione: «Perché vogliamo vivere con questa carneficina? Perché continuiamo a consentire che questo accada? Per l’amor del cielo, dov’è la nostra spina dorsale?» La lobby delle armi e una larga parte dei senatori (non esclusivamente repubblicani) rende da sempre impossibile introdurre norme di buon senso sul tema.
    Per noi italiani, o europei, è naturale pensare anche solo a una legge che tenga conto dei disturbi mentali in chi desidera possedere un’arma da fuoco; molto distante è il pensiero di una parte significativa degli americani. Persino alcune persone in buonafede ritengono più sicuro armarsi, o armare gli insegnanti, anziché ridiscutere la diffusione indiscriminata delle armi. Una maggioranza silenziosa, che sarebbe invece favorevole ad alcune limitazioni sull’acquisto, si scontra con l’immobilismo politico e legislativo. Intanto, il governatore dell’Oklahoma ha firmato la legge più restrittiva degli Stati Uniti sull’aborto, vietato fin dal concepimento. Le tristi considerazioni su che fine faranno questi bambini una volta entrati alle elementari la dicono lunga su una delle ennesime incoerenze americane. Sulla sparatoria e sul problema delle armi negli USA – ANSA.it e statista.com e SkyTG2 e cnn.com | Sull’aborto in Oklahoma – adnkronos.com


In chiusura, un focus sulla condizione delle donne afghane: quella delle donne afghane è una condizione in costante peggioramento, in queste settimane, il governo dei talebani ha portato a nuove restrizioni delle libertà individuali.

Secondo Richard Bennett, relatore speciale dell’ONU sui diritti umani in Afghanistan, i provvedimenti mirano a rendere invisibili le donne. Capiamoci, in generale la società civile afghana sta precipitando in un baratro di oscurantismo e a livello tecnico l’Afghanistan è uno Stato fallito. È tuttavia sulle donne che sta ricadendo il maggior costo del ritorno dei talebani, capeggiati da Hibatullah Akhundzada. Le adolescenti sono state escluse dalle scuole secondarie; le adulte hanno dovuto lasciare i posti di lavoro governativi; nessuna può viaggiare da sola; tutte devono coprirsi integralmente il volto. Decine e decine di donne hanno manifestato contro le decisioni del governo, ma sono state disperse con la forza, come ha ricordato l’organizzatrice di una di queste proteste, Munisa Mubariz.
Pensate a una donna afghana che, negli ultimi vent’anni, aveva goduto di una relativa apertura nella società civile, potendo scegliere se indossare o meno il burqa e ottenendo un’educazione completa e un’indipendenza lavorativa. Quando critichiamo, anche a ragione, l’ingerenza statunitense nel mondo, a volte varrebbe anche la pena guardare l’altro lato della medaglia.

Leggi anche Stefania Bergo | Sotto il burqa, di Deborah Ellis

Le storie che filtrano fuori dal regime raccontano di donne a cui è proibito guidare, fare compere senza la presenza di un uomo, persino farsi curare da un medico se non completamente coperte.

La repressione si insinua anche nei dettagli, nella condanna di un foulard colorato in luogo di un più neutro nero. Quest’ultimo racconto mi ha ricordato l’ormai classica graphic novel di Marjane Satrapi, Persepolis (Lizard, 2009), che è il mio consiglio di lettura della settimana. L’Autrice ripercorre la storia della sua vita, partendo dall’infanzia e dalla rivoluzione islamica scoppiata in Iran, che portò a una progressiva perdita di diritti per le donne. Tra gli episodi raccontati, c’è anche il tentativo di attuare una resistenza civile nei piccoli gesti, nel vestirsi con i jeans "occidentali" o nel partecipare a una festa proibita. Le tre tavole di apertura si adattano fin troppo bene alla situazione afghana.
Nel 1979 c’è stata una rivoluzione che poi hanno chiamato "la rivoluzione islamica". Poi venne il 1980: il primo anno in cui nelle scuole il foulard diventò obbligatorio. Ma a noi non piaceva molto portare il foulard, soprattutto perché non ne capivamo il motivo. Anche perché soltanto un anno prima, nel 1979, frequentavo una scuola francese e laica, dove eravamo in una classe mista, maschi e femmine insieme, finché, improvvisamente, nel 1980… «Tutte le scuole bilingue devono chiudere i battenti. Esse sono il simbolo del capitalismo mondiale, della decadenza.» Questa viene chiamata "rivoluzione culturale". Ci siamo ritrovate velate, e separate dai nostri compagni. Ed eccoci qua. In tutte le strade, c’erano manifestazioni anti e pro-foulard.
Ogni ulteriore analogia con il tema iniziale di questo post, benché su princìpi reazionari differenti, è facilmente comprensibile a ciascuno di noi. Sulla situazione delle donne afghane – ANSA.it e Luce

Argyros Singh


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