
Di Davide Dotto. L'eco dello Studio Ghibli nell'era dell'Intelligenza Artificiale, un’ondata visiva e digitale sui social: implicazioni artistiche ed etiche, tra creatività e appropriazione.
Da qualche giorno, i social sono stati inondati da immagini generate da OpenAI nello stile inconfondibile dello Studio Ghibli. Un fenomeno che ha riacceso un dibattito complesso. I punti critici non mancano.Il fulcro della discussione riguarda l’appropriazione e la possibile violazione dei diritti d’autore.
Hayao Miyazaki, co-fondatore dello Studio Ghibli, si è espresso chiaramente in passato, opponendosi all’utilizzo dell’IA nella propria opera.La questione, tuttavia, è ben più ampia dell’uso di nuove tecnologie per la creazione di contenuti. Il rischio più profondo è lo svilimento della creazione artistica: si vorrebbe ‘strucar un botòn’ e bypassare riflessione, artigianato, e il tempo indispensabile alla maturazione di un’opera. È forse il lato più emblematico della pop art: non una celebrazione, ma una critica sottile alla ripetitività della cultura di massa.
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Ma questo non è il cuore del problema. Dalla stampa a caratteri mobili alla diffusione dei libri, la tecnologia ha sempre accompagnato la cultura.
Il vero nodo emerge quando ci si ferma a forma, numero, superficie, dimenticando la sostanza. Già tra XVIII e XIX secolo, l’evoluzione tecnologica ha avuto un impatto profondo sul lavoro degli artisti e sul rischio di omologazione culturale, spingendo alla definizione di nuove normative – welfare compreso.Per approfondire le sfide poste dall’Intelligenza Artificiale – non solo nell’arte – si consiglia il saggio di Dennis Yi Tenen, Teoria letteraria per robot, che offre una panoramica storica ampia e penetrante.
Non si vuole certo sminuire la complessità della questione, né gli interessi contrapposti in gioco.
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Per lo Studio Ghibli, il problema si pone fino a un certo punto: lo stile è riconoscibile e riconosciuto, senza che venga intaccato il diritto morale d’autore.
Ma la querelle attuale tocca solo la superficie: la forma. E le storie?Per comprendere appieno la portata di questa discussione, basta pensare a opere come Quando c'era Marnie, che ho visto di recente. Le immagini, pur evocando uno stile che abbiamo imparato ad amare e riconoscere, sono indissolubilmente legate a una narrazione di rara intensità emotiva e psicologica. È innegabile che la 'matita' di Hayao Miyazaki, e più in generale l'approccio creativo dello Studio Ghibli, abbiano sempre fuso un'estetica affascinante con storie di profonda umanità, capaci di lasciare un segno duraturo nello spettatore. Se questi due elementi – l'immagine e la narrazione – non coesistono in armonia, se lo stile viene estrapolato dal suo contesto narrativo ed emotivo, i disegni rischiano di perdere la loro anima, il loro significato più intrinseco.
Viene davvero voglia di rivedere i film dello Studio Ghibli. I meme e le riproduzioni possono rappresentare - senza esagerare, però - un’occasione per scoprire o riscoprire un mondo che merita attenzione.

Quando c'era Marnie Studio Ghibli
La città incantata Studio Ghibli
La città incantata Studio Ghibli
Creatività e pensiero divergente: ciò che l’algoritmo non sa.
L’IA elabora statisticamente il passato, non conosce la scintilla del pensiero divergente, quella che apre nuove vie. I film Ghibli non sono prodotti “in serie” perché nascono dalla pazienza, dal tempo, dalla cura artigianale: elementi che l’IA traduce in schemi, ma non comprende.Ad esempio, per dipingere come Rembrandt un algoritmo deve scandagliare e classificare milioni di pennellate. Di certo non ne coglie l'esitazione, o l'incertezza che diventa stile. Ecco perché certe forme di “appropriazione” disturbano: l’IA guarda al già fatto, al catalogato. È sempre un passo indietro.
Se OpenAI fosse nata con la Rivoluzione Industriale, avremmo senz'altro un sapere sofisticato, una Encyclopédie di Diderot e D'Alembert cento volte più estesa. Ma forse ci saremmo fermati a Lavosier, a una conoscenza settecentesca, a un non tanto romantico steampunk. Chissà.
AI: un passo indietro, ma anche un’opportunità, tra imitazione e originalità.
Ma proprio qui sta il potenziale positivo. L’IA può essere una risorsa, se messa al servizio di una visione creativa solida, come strumento per ampliare e perfezionare un lavoro già avviato. Woody Allen stesso ha adottato le riprese digitali in 4K per migliorare la fotografia dei suoi film, senza snaturare il suo stile.Mettere tali strumenti in mano a chi improvvisa, a chi "gioca", beh, è legittimo, ma la cosa può sfuggire di mano. Di fronte alla mole crescente di contenuti che invadono il mercato, diventa sempre più difficile distinguere un'autentica ricerca artistica da un mero surrogato.
Ecco, di nuovo, lo sminuire il lavoro altrui, la banalizzazione, la volgarizzazione, l’omologazione. Un po’ è il rischio di trasformare una poesia, un incipit o una canzone d’autore in un tormentone.
Finché si tratta di meme, di un gioco collettivo, la questione resta tutto sommato accettabile.
Si potrebbe perfino dire che la viralità di queste immagini, pur sfuggita un po’ di mano, contribuisce a mantenere viva l’attenzione su uno stile narrativo e visivo unico. Ma quando quello stesso stile viene assorbito dal marketing per lanciare campagne pubblicitarie del tutto estranee allo spirito Ghibli il discorso cambia radicalmente.Qui non siamo più nel territorio della libera ispirazione o del tributo affettuoso, ma in quello dell’appropriazione sistematica a fini commerciali , dove il confine tra omaggio e sfruttamento si fa sottile, se non addirittura inesistente.
Lo stile Ghibli non è solo un’estetica, è una poetica della narrazione, un modo di guardare il mondo e le relazioni.
Trasformarlo in un marchio da utilizzare per catturare click o vendere prodotti significa disinnescarne il senso profondo.In questo scenario, la questione dei diritti d’autore va oltre la legalità: è una questione di giustizia culturale.
Lo Studio Ghibli, tuttavia, mantiene intatto il proprio immaginario. Difficilmente la IA potrà sostituirsi alla sua capacità di infondere umanità e complessità emotiva, elementi che nessun algoritmo è in grado di replicare. L’IA può tendere allo stile visivo, ma non la profondità narrativa, né il cuore delle storie.
E non è molto diverso da certi approcci alla scrittura creativa, dove si insiste eccessivamente sui segreti per padroneggiare un canone inafferrabile fino alla paranoia e all’angoscia dell’influenza di cui parla Harold Bloom.
Verso un equilibrio tra ispirazione e tutela.
Consapevole delle critiche, OpenAI sembra aver introdotto restrizioni alla generazione di immagini eccessivamente fedeli allo stile di artisti viventi. Trovare un equilibrio tra libertà creativa e tutela del diritto d’autore non sembra troppo facile, né scontato.
Davide Dotto |
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