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Le recensioni di Argyros Singh
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Recensione: Oro puro, di Fabio Genovesi

Recensione: Oro puro, di Fabio Genovesi

Recensione: Oro puro, di Fabio Genovesi

Libri Recensione di Argyros Singh. Oro puro di Fabio Genovesi (Mondadori). Imprese, amori, violenze e malintesi dietro la scoperta dell'America, una narrazione emozionale a metà tra romanzo storico e diario di bordo.

Cantava De André: Ma voi che siete uomini,
sotto il vento e le vele,
non regalate terre promesse
a chi non le mantiene» Fabrizio De André, Rimini (1978)

3 agosto 1492: si parte. La storia la conosciamo tutti; possiamo così concentrarci su altre vicende, quasi insignificanti, ma ben più universali di un qualsiasi atto notarile.

Quindici anni fa, Fabio Genovesi leggeva, nei diari di Cristoforo Colombo, un passaggio che attribuiva a un giovane mozzo inesperto l’incagliamento e la distruzione della Santa Maria. Con i resti della nave, venne costruita la fortezza nota come La Navidad, primo insediamento europeo nell’odierna Haiti.
Ufficiali, re ed esploratori costituiscono però lo sfondo del romanzo, incentrato sul sedicenne Nuno, abitante di Palos e figlio di una prostituta ebrea, chiamata la Vedova, o la Gallega. La donna è una figura indipendente e, insieme al signor Nuno, dal quale il giovane prende il nome, insegna al figlio i fondamenti della lettura e della scrittura.

Nuno, il ragazzo, cresce nella Spagna da poco riunificata, dopo secoli di Reconquista, e subisce gli effetti del Decreto dell’Alhambra, con cui il re Ferdinando il Cattolico sanciva l’espulsione dai territori del regno di tutti gli ebrei che rifiutavano di convertirsi al cristianesimo.

Un evento storico che, per molti spagnoli di origini ebraiche, fu molto più rilevante dell’imminente scoperta delle Americhe.
Nuno però è fortunato. Per una serie di coincidenze, viene imbarcato su una nave che lo porta prima alle Canarie e poi in mare aperto, da dove nessuno – così si diceva – era mai tornato. Fortunato, sì, ma fino a un certo punto.
Lo scalo alle Canarie è un momento significativo. È quel passaggio intermedio, prima del grande salto, dove molti tendono a fare un passo indietro. L’arcipelago è il primo ostacolo, nelle vesti seducenti di un’isola paradisiaca, in cui abitano nativi che guardano soltanto il mare, «e sono contenti così».
E Nuno è tentato di fermarsi tra quelle genti, magari per assistere il frate eremita che ha conosciuto, ma – ancora una volta – un vento invisibile lo sospinge contro la sua volontà, un po’ come Giona in fuga, riportato alla sua dimensione.

«La nave è una persona» è la frase che apre il quarto capitolo.

Lo è per analogia, perché le sue componenti ricordano alcune parti del corpo umano, ma lo è soprattutto per ciò che rappresenta. Un’isola in mezzo al mare, che si lancia da una costa all’altra in cerca di connessioni e di significato. E al suo interno si svolge la vita, l’agire quotidiano espresso da Alonso, dal balbuziente Domenico, dallo Scimmione e dal Biondo. Ciascuno di loro ha qualcosa da raccontare, una missione da compiere, un significato da esprimere in forma individuale e come equipaggio della nave.
E poi ci sono gli ufficiali.

A Nuno viene insegnato che a scoprire nuove terre non sono i religiosi, ma i mercanti.

Marco Polo, sulla cui scia giunsero i predicatori, quasi inviati contro la loro volontà. Il giovane resta affascinato dalla prospettiva di poter vedere i tesori d’Oriente, ma non può non domandarsi perché uomini adulti si diano tanto da fare per il pepe e le altre spezie. A Nuno, chiamato il Granchio, ultimo degli ultimi ancora prima di imbarcarsi, quelle merci che definiscono lo status symbol restano estranee.
Il protagonista è più ammaliato dal sapere. Come anime affini che si cercano in segreto, il capitano, Cristoforo Colombo, chiama quel giovane nella sua cabina. Nuno l’aveva idealizzato, fin troppo, e, dopo un dialogo superficiale, sta per andarsene con una certa delusione. Il capitano lo ferma, perché ha scoperto che il ragazzo sa scrivere e da quel momento lo impiega come scrivano.

Colombo continuerà fino alla fine ad affascinarlo: «Perché anche se non volevo, quando il Capitano parlava di anime nobili e sensibili, meno grette e più aperte alla meraviglia del mondo, mi sentivo tra quelle».

Allo stesso tempo, però, quel granduomo viene descritto come una persona incapace di provare empatia, di porsi a livello umano, e Nuno otterrà soltanto di essere chiamato per nome, ma quello di un altro: Diego.
Oro puro di Fabio Genovesi racconta tanto la parte positiva della civiltà occidentale, quella sete di conoscenza che ha spinto l’umanità verso nuovi orizzonti, quanto la parte oscura, caratterizzata dalla tracotanza e dal senso di superiorità per le conquiste raggiunte.
In tal senso, Colombo accoglie in sé questi due aspetti: è un visionario, che basa le sue convinzioni nella fede e – diremmo oggi – nell’analisi dei dati, ma al contempo è incapace di cogliere la piena umanità dei popoli che incontra, parlando subito di loro in termini di sottomissione.

Nuno è abbastanza sveglio da capire le due dimensioni e ne trae un doppio insegnamento.

Per esempio, si ispira alle parole del capitano, che affida la spedizione a Dio, e le rielabora a modo proprio.
Aver paura non serve a nulla nella vita, perché non sappiamo nemmeno di cosa dovremmo aver paura veramente. E lo stesso con la speranza: non abbiamo idea di cosa temere né di cosa sperare. Eppure tremiamo e speriamo, tremiamo e speriamo, senza mira, senza scelta, senza senso. Non sappiamo da cosa fuggiamo né dove correre, ma sempre e per sempre fuggiamo e corriamo. A testa bassa e senza capire nulla. Fabio Genovesi, Oro puro

Colombo nutre una cieca fede in Dio, ma Nuno prende consapevolezza che la natura non operi in funzione dell’essere umano e che il sole e le stelle brillino nei nostri occhi, ma non per noi.

Il protagonista ascolta il capitano, che lo ammonisce contro coloro che credono di sapere tutto, pur non ascoltando mai gli altri, o lasciando spazio al silenzio. Forse intuisce che quel discorso costituisca una sorta di autoconfessione non voluta. Il capitano si è riempito di teorie, è euforico per il recente successo della fedelissima corona spagnola sugli arabi, e non vede altro che quel trionfo.
Appena sbarcati dall’altra parte dell’oceano, il suo primo pensiero è di reclamare quella terra in nome di Dio e della corona: un atto notarile scritto ignorando il paradiso intorno, come si fa notare con ironia al termine del diciannovesimo capitolo.

Dopo la conquista, c’è la razzia, di uomini e di merci.

Gli equipaggi delle tre navi cercano soprattutto l’oro, ed è la prima parola che imparano nella lingua dei nativi. Nei suoi diari, Colombo li descrive come non-umani e parla di loro in termini aberranti.
Nuno trascrive quelle parole, ma non è costretto a condividerle. In cuor suo le respinge, non comprende come una persona tanto grande non riesca a provare quell’empatia e quell’amore che lui ha provato. Perché Nuno conosce un’abitante dell’isola e si innamora, perdutamente. Alle Canarie, la ciurma era andata in cerca di prostitute, mentre Nuno aiutava Alonso a cercare legna da ardere. Oltreoceano, mentre tutti cercano oro, pappagalli e nativi da rapire, il ragazzo trova l’oro puro, «senza lo sporco delle mani che lo afferrano, lo rubano, lo vendono.»: l’amore immateriale.

Il viaggio di ritorno è doloroso, perché la donna è stata presa dall’equipaggio, ma è su un’altra nave.

Inoltre, Nuno è responsabile dell’affondamento della Santa Maria, momento storico che Genovesi aveva letto in un fugace passaggio dei diari di Colombo, ispirandogli il romanzo.
A ogni modo, gli equipaggi tornano a casa. Inizia un nuovo capitolo della vita di Nuno. Per alcuni mesi, aveva vissuto nel solco della grande storia guidata da Colombo, cercando comunque di ritagliarsi una propria autonomia. Ora, mentre monarchie e mercanti disputano come suddividersi quell’enorme ricchezza, l’esistenza di Nuno ritorna nell’oblio.

Nuno, o si potrebbe dire Niuno, Nessuno.

Continua però a scrivere, perché – come gli aveva insegnato il suo vecchio maestro – la scrittura «è un lavoro del cuore», ma anche «del respiro» e, se possiedi quell’ispirazione, non puoi tirarti indietro.
Dopo sessant’anni, un ragazzo innamorato gli porta una lettera che aveva trovato in una botte. Il vecchio riconosce la sua grafia: l’aveva scritta durante il viaggio, quando c’era il rischio di non fare ritorno. Era un ammonimento rivolto alle future spedizioni: «Che nessuno provi mai a ripetere la nostra impresa sventurata, o incontrerà solo acqua salata e tenebre, un mare di tenebre come un enorme specchio scuro in cui trovarci riflessi, e riconoscerci».

Oro puro non è una cronaca o un romanzo storico, né un diario di bordo: quello esiste già e l’ha scritto Colombo.

La geografia proposta da Genovesi è di tipo emozionale. Si basa sul lasciarsi andare alle correnti e al cambiamento, non in maniera passiva, ma riflessiva.
È vero che l’appello finale è a non cercare nuove terre, ma a tentare «di fare cose nuove» in quelle solite, eppure è proprio Nuno a insegnarci che, con la giusta disposizione d’animo, sia possibile superare i propri limiti, caratteriali e culturali, tornando a casa più umani di prima.


Oro puro

di Fabio Genovesi
Mondadori
Narrativa
ISBN 978-8804773566
Cartaceo 19,00€
Ebook 10,99€

Quarta

Palos, Spagna, agosto 1492. Nuno ha sedici anni, ed è un granchio. O almeno questo è il soprannome che gli ha dato sua madre, morta pochi mesi prima, di cui Nuno conserva un ricordo che è dolore e luce insieme. Pur vivendo sul mare, Nuno non ha mai desiderato solcarlo, e preferisce guardarlo restando aggrappato alla terra, proprio come fanno i granchi. Finché, per una serie di circostanze tanto sfortunate quanto casuali, deve imbarcarsi su una nave di cui ignora la destinazione. Si tratta della Santa María, a bordo della quale Cristoforo Colombo scoprirà – per caso e per sbaglio – il Nuovo Mondo. Mentre Nuno si renderà conto, lui che di navigazione non sa nulla, di condividere lo smarrimento coi suoi compagni molto più esperti: tutti spaventati da quell'impresa folle e mai tentata prima. Avendo imparato dalla madre a leggere e scrivere, Nuno diventa lo scrivano di Colombo, e trascorrendo ore ad ascoltarlo sente crescere l'entusiasmo per i grandi sogni di questo imprevedibile esploratore visionario. Attraverso lo sguardo di Nuno, percorriamo il viaggio più importante della storia dell'umanità: i giorni infiniti prima di avvistare terra, fino alla scoperta di un mondo nuovo, una nuova umanità, una nuova, diversa possibilità di intendere la vita. In questo Paradiso Terrestre, Nuno imparerà quanta ferocia, quanta avidità possa motivare le scelte degli uomini, ma anche la forza irresistibile dell'amore, che lo travolgerà fino a sconvolgere i suoi giorni e le sue notti. In questo romanzo, Fabio Genovesi non solo ci racconta la navigazione di Colombo come mai è stato fatto prima, ma ci cala dentro una grande avventura umana, esistenziale e sentimentale, che si snoda attraverso imprese, amori, crudeltà spaventose e improvvise tenerezze, svelandoci come dietro la scoperta occidentale delle Americhe si nascondano violenze, soprusi e malintesi, ma soprattutto l'insopprimibile, eterno istinto degli uomini a prendere, consumare e distruggere tutto, persino se stessi.

Argyros Singh
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Recensione: Gli incredibili eventi della cella femminile n°3, di Kira Jarmyš

Recensione: Gli incredibili eventi della cella femminile n°3, di Kira Jarmyš

Recensione: Gli incredibili eventi della cella femminile n°3, di Kira Jarmyš

Libri Recensione di Argyros Singh. Gli incredibili eventi della cella femminile n°3 di Kira Jarmys (Mondadori). Un romanzo percorso da un’ironia di fondo ma anche una denuncia a uno Stato repressivo che incide non solo nella politica, ma anche negli affetti, nella sessualità e nel ruolo della donna.

Per mettere a fuoco Gli incredibili eventi della cella femminile n. 3 (Mondadori, 2022) è utile un breve approfondimento sull’autrice, Kira Jarmyš. Due date significative coinvolgono la sua vita: il 1989, anno in cui nacque, a Rostov sul Don, a poche settimane dalla caduta del Muro di Berlino, e il 2014, quando divenne addetta stampa e assistente del più noto oppositore russo, Aleksej Naval’nyj, in quell’anno segnato dall’invasione russa dell’Ucraina.

Kira Jarmyš, laureatasi alla Facoltà di giornalismo internazionale dell’Mgimo di Mosca, lavorò nei servizi stampa del Museo Pushkin e della compagnia aerea Utair.

Nel 2013, la svolta, con la decisione di prendere parte alla campagna elettorale di Naval’nyj, candidato a sindaco della capitale. Negli anni, ha contribuito alla lotta anticorruzione all’interno della Federazione, in qualità di addetta stampa della Fondazione anticorruzione (FBK).
Arrestata due volte nel 2018, per aver espresso opinioni negative su un candidato alle elezioni presidenziali russe e poi contro Vladimir Putin, nel 2021 è stata incarcerata per nove giorni, dopo aver organizzato raduni a sostegno di Naval’nyj senza aver avvisato le autorità. Posta poi agli arresti domiciliari, a febbraio dello stesso anno, l’organizzazione a difesa dei diritti umani Memorial le ha riconosciuto lo status di prigioniera politica. Dopo sette mesi di domiciliari, la giornalista è riuscita a fuggire dalla Federazione.

Gli incredibili eventi della cella femminile n°3 edito da Mondadori era stato pubblicato nel 2020 dalla casa editrice Corpus.

La protagonista, Anja Romanova, si trova in un centro di detenzione speciale per aver partecipato a una manifestazione contro la corruzione. Il soggetto presenta quindi diversi collegamenti autobiografici e – secondo l’Autrice – sarebbe stato Naval’nyj a chiederle di raccontare quella storia.
Anja conosce in cella altre donne, che rappresentano diverse anime della Russia odierna: quella nostalgica dell’Urss, quella che idolatra Putin, quella disinteressata alla politica e ossessionata dall’estetica. Infine, l’anima democratica, soffocata dal regime. In un’intervista realizzata dal Corriere della Sera, Jarmyš non rinnega la sua identità russa; anzi, è proprio questa a dare forza alla sua rabbia.
Noi sappiamo di appartenere a una storia che ha segnato il mondo, ne siamo orgogliosi e complessati al tempo stesso. La Russia è anche la ragione della mia rabbia e del mio lavoro. La vorrei prosperosa e felice, ma adesso non può esserlo. Putin ci sta rubando il futuro. Kira Jarmyš, Gli incredibili eventi della cella femminile n°3
Le compagne di cella di Anja sono persone incontrate davvero da Jarmyš, per quanto elaborate in modo pittoresco. Dare voce alla prospettiva femminile è un modo per raccontare la realtà di persone che, nella politica russa, non hanno voce in capitolo e subiscono il controllo da parte delle figure maschili, con un alto tasso di violenza domestica. Nell’intervista, Jarmyš afferma che non si tratti soltanto di una nefasta eredità storica, ma che il regime di Putin abbia contribuito attivamente a rinforzare la visione della donna tradizionale, relegata al focolare domestico e incapace di esprimere scelte politiche consapevoli.


Ora, è bene sgombrare il campo da certe aspettative: il romanzo non è una corrosiva critica politica sul modello classico dei vari Solženicyn di sovietica memoria.

La critica sociale c’è, ed è evidente, ma il libro è percorso da un’ironia di fondo, persino da una nota di innocente incoscienza, quando le sei donne della cella si confrontano ed emergono, nella loro versione quotidiana, le grandi contraddizioni della macchina statale russa, in grado di reprimere non solo con la forza fisica, ma anche con quella che il filosofo Byung Chul-han chiama psicopolitica.
Proprio con essa lo Stato-padrone si insinua nei pensieri, nelle opinioni, persino nell’inconscio, trasformando la relazione tra cittadini in un incontro babelico, in cui tutti hanno l’illusione di conoscere la verità.
Tutto ciò è ben chiaro guardando alla vita della protagonista: Anja è una ventottenne che vive un’esistenza ordinaria, con piccole-grandi preoccupazioni, come il triangolo amoroso in cui è finita, o le difficoltà di inserimento al lavoro, al Ministero degli Esteri, popolato da personaggi ambigui, cinici e forti bevitori.

Condannata a dieci giorni, conosce persone molto diverse da lei.

Per esempio, Maja è ossessionata dal proprio corpo e investe tutti i soldi nel tuning del seno e del sedere; il suo obiettivo è compiacere gli uomini d’affari, ottenendone in cambio regali e favori. Irka è invece una madre in forti difficoltà economiche, incapace di pagare gli alimenti per la figlia, e che finisce così per sabotarsi, in un circolo vizioso di autodistruzione che include alcoolismo e prostituzione. Infine, Nataša è quella che ha subìto più sofferenze delle altre, avendo conosciuto il carcere duro.
Eppure, quella cella dedicata ai reati minori e a persone all’apparenza ordinarie sembra nascondere altro. Anja vive momenti tranquilli, gioiosi o noiosi, ma presto i suoi sogni assumono il contorno delle visioni, e queste si mescolano alla realtà, confondendo i piani. Allora la donna inizia a dubitare di sé, delle sue compagne (che siano Suženicy, spiriti che tessono i fili del destino?) e della concretezza di quelle quattro pareti, dentro le quali sembra esserci un labirinto invisibile, che condiziona le persone passo dopo passo.

Nel romanzo si affrontano temi diversi, molto sentiti da chi ha vissuto in uno Stato repressivo: così il regime incide non solo nella politica, ma anche negli affetti, nella sessualità, nel ruolo della donna.

In un primo momento, le donne sono solidali tra loro, e si confidano da grandi amiche, come quando Irka racconta di soffrire di epilessia o quando emergono condizioni di povertà e frustrazioni. Si scherza sui piatti tradizionali messi a disposizione dei detenuti, dal plov (piatto con riso e frutta secca) alla kaša (una zuppa dolce o salata), ai bicchieri di čifir (un tè molto forte): alimenti della tradizione domestica, ma anche di quella carceraria, un aspetto che salta all’occhio del lettore.
Un altro elemento importante è il valore dato alla doccia, raro momento in cui potersi rilassare, o quantomeno purificare da quell’ambiente che entra sottopelle, portando in superficie il malessere. Concetti come pulizia e igiene personale sono ricorrenti e si mescolano anch’essi alla politica. E poi c’è l’ora d’aria e il contatto con gli altri detenuti, che spezzano la monotonia di quei giorni.

La solidarietà femminile è un fattore importante del romanzo, che fatica però ad arrivare integro al finale.

Già nelle prime pagine, con una battuta, una delle compagne di cella accusa Anja di essere stata pagata per manifestare. Più avanti, la protagonista risponde di non voler fare la rivoluzione, ma di voler soltanto vivere bene. Sa che votare non ha più alcun senso, ma sa anche quanto a fondo il regime abbia manipolato i concittadini.
Un esempio emblematico è dato da Maja, che parte da una “negazione affermativa” («Putin non mi dispiace») e finisce con il dire che il presidente russo abbia fatto temere la Russia al mondo, considerandola una cosa di cui andare fieri. Inoltre, Maja – come altre nella cella – ritiene normale che l’uomo capitalizzi la propria donna in nome dello status symbol, e per questo considera altrettanto giusto che una compagna si faccia mantenere.
Dialoghi del genere (e il continuo ritorno ai ricordi tristi o traumatici) convincono Anja che vi sia un nesso tra la causa della Russia libera e la sua coscienza femminile. Quel continuo rimuginare sui ricordi, sulle relazioni personali andate male, sul lavoro da diplomatica sfumato infittiscono la trama tra realtà e visione, fino a un colpo di scena finale, in cui Anja viene come trascinata incoscientemente. Una sorpresa forse meno stupefacente se si pensa alla fama della malaburocrazia russa.


Gli incredibili eventi della cella femminile n°3

di Kira Jarmys
Mondadori

ISBN: 978-8804760658
Cartaceo 19,00€
Ebook 10,99€

Quarta

Dieci giorni di vacanza potrebbero essere proprio ciò di cui Anja Romanova ha bisogno per sistemare alcune cose nella sua incasinata vita di ventottenne. Cose come, per esempio, il confuso triangolo amoroso nel quale è invischiata o come il suo inizio di carriera abbastanza fallimentare al Ministero degli Esteri russo, popolato di bevitori pieni di cinismo. Anja invece finisce per trascorrere questo lasso di tempo contro la sua volontà a stretto contatto con altre cinque giovani donne come Maja, che investe i suoi soldi nel "tuning" del seno e del sedere per compiacere ricchi uomini d'affari, o Nataša, che ha conosciuto il carcere quello vero, o Irka, che non ha pagato gli alimenti per la figlia. Le donne condividono una cella in una prigione di Mosca per reati minori, dove la stessa Anja sta scontando una pena di dieci giorni per aver indetto una manifestazione contro la corruzione del governo. Dentro la cella le nostre protagoniste, che rispecchiano diversi volti della Russia di oggi, si incontrano e si scontrano in modo ora esplosivo ora comico. Sono un miscuglio unico di povertà e ricchezza, spirito di libertà e fede in Putin, ruoli tradizionali e identità fluide: una sogna il grano saraceno, l'altra sente la mancanza di Bali. Ma ben presto il ritmo tranquillo della vita quotidiana inizia a incrinarsi e Anja si ritrova a essere perseguitata da eventi inspiegabili che la spingono a chiedersi se le sue compagne di cella siano le persone ordinarie che le erano sembrate a prima vista…


Ringrazio Mondadori per avermi gentilmente inviato una copia del romanzo.


Argyros Singh
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Recensione: Il mago del Cremlino, di Giuliano da Empoli

Recensione: Il mago del Cremlino, di Giuliano da Empoli

Recensione: Il mago del Cremlino, di Giuliano da Empoli

Libri Recensione di Argyros Singh. Il mago del Cremlino di Giuliano da Empoli (Mondadori). Il monologo di Vadim Baranov, immaginario consigliere di Putin, testimone della caotica imprevedibilità del presidente russo che si trasforma in uno strumento di potere.

Il mago del Cremlino è l’ultimo libro di Giuliano da Empoli, già pubblicato in Francia per Gallimard e ora giunto in Italia. Al centro del romanzo, il personaggio immaginario di Vadim Baranov, consigliere del presidente russo Vladimir Putin, ispirato allo spin doctor Vladislav Surkov. Questi racconta al narratore la sua vita, in quella che appare una lunga intervista, o meglio un monologo, scaturito dall’incontro tra due appassionati di Evgenij Zamjatin, scrittore russo autore del romanzo distopico Noi.

Il protagonista finisce non solo per raccontare se stesso, ma i cambiamenti che hanno interessato la Russia dagli anni Novanta fino alla sua rimozione quale consigliere.

A Surkov è accaduto nel 2020, dopo essersi occupato, tra gli altri incarichi, anche dei rapporti con l’Ucraina.
La forma del romanzo consente a Giuliano da Empoli di rendere più accessibile una materia intricata, fatta di nomi non sempre noti a chi non si occupa di attualità politica o di geopolitica. I dialoghi si inseriscono nel monologo aprendo nuovi varchi al lettore, che può così uscire dalla casa di Baranov per entrare nella storia russa recente, come nei fotogrammi di un film accordati a una voce fuori campo.

Prima di interpretare i panni di un novello Rasputin, Baranov proveniva dal mondo dell’arte e dello spettacolo, ed è per questo che gli è più facile interpretare i personaggi della storia come attori su un palcoscenico.

Egli stesso, nel suo piccolo, vive il dramma dell’ascesa e della caduta, pur portando con sé un bagaglio di mistero e di segreti, appena sussurrati.
Nei primi capitoli, egli cita una lettera di Zamjatin rivolta a Stalin, in cui lo scrittore afferma di anteporre la verità alla convenienza.
Nell’interpretazione di Baranov, Zamjatin e Stalin si confrontano su due progetti creativi, in nome di una supremazia che è il secondo a ottenere «con la carne e il sangue degli uomini.» Ciò nonostante Zamjatin non rinuncia a esprimere la sua opinione eretica a ogni costo, che nel suo caso si traduce nell’esilio.
Nelle pagine successive, il campo si allarga rispetto al singolo e, in realtà, tutta la prima metà del Novecento è per Baranov uno «scontro titanico tra artisti» d’avanguardia – i leader di Stato e i dittatori – che mirano a plasmare una realtà, non solo a descriverla o ad accompagnarla.

Nella prima parte del romanzo, molto importante è la figura del nonno del protagonista, un aristocratico sopravvissuto alle purghe staliniane, che addomestica persino i comunisti, addolcendoli con la vodka e i ricordi nostalgici di un passato semi-mitizzato.

Baranov stesso, raccontando la storia della sua vita, si lascia andare alla nostalgia. Egli idealizza la vecchia generazione del nonno, convinta che fosse indispensabile trasmettere un savoir-vivre a figli e nipoti: con la generazione di suo padre, invece, sembrava che tutti fossero divenuti esperti, moderni, e nessuno voleva correre il rischio di essere considerato vecchio. Eppure, il nonno era già moderno nel suo tempo: leggeva Kafka e Mann, e non aveva paura di apparire ridicolo, purché ognuno potesse scegliere il senso da «dare alle cose che accadono».
Il nonno odiava invece il parere di scrittori come Adolphe de Custine, che nel Voyage en Russie aveva interpretato fin troppo bene la Russia, dove la corte zarista rappresentava l’unico modo per ottenere potere e ricchezza. Un luogo in cui l’adulazione e il silenzio scalzavano il talento e la passione popolare. In fondo, tutto promanava dalla corte e alla corte doveva rendere conto.

Per analogia, Baranov ricorda gli anni Novanta del Novecento, un momento in cui in Russia circolarono tanti soldi, molti finanziamenti, ma questi finirono nelle mani di politici spregiudicati e di mafiosi.

Perché a contare, in Russia, non è mai stato il denaro, ma la “vicinanza al potere”. E l’esempio dell’URSS lo testimonia. Quella stessa vicinanza, però, risulta pericolosa. Stalin abitava le stesse stanze dei suoi consiglieri e ministri; i figli e i nipoti condividevano le giornate, ma tutto questo non impedì al leader sovietico di ucciderli. Anzi, fu favorito dalla prossimità. Così gli uomini più vicini a Putin hanno conosciuto sorti alterne e non pochi sono caduti in rovina, sono stati esiliati o sono morti in circostanze quantomeno sospette.
Gli anni Novanta hanno costituito un folle decennio per la Russia. Nel mondo della cultura e dei media, personaggi incarnati da Baranov sono passati da un’esistenza fatta di restrizioni a un successo economico che li ha catapultati nelle grandi capitali occidentali. Dietro al processo di liberalizzazione continuava comunque a sopravvivere l’anima russa, l’orgoglio patriottico: Baranov racconta di un sondaggio televisivo che avevano dovuto falsificare, perché gli spettatori, dovendo indicare i propri eroi, avevano votato in massa per Ivan il Terribile, Pietro il Grande e Stalin.

Come coniugare gli aspetti utili dell’occidentalizzazione senza negare la propria storia imperialista?

Per il protagonista, tra gli anni Novanta e Duemila, con l’ascesa al potere di Putin, ha cominciato a consolidarsi l’idea che l’unità dei russi dovesse prevalere su ogni divisione politica. C’era davvero spazio per tutti, fino all’assurda intesa tra nazionalisti e bolscevichi, i Nazbol di Ėduard Limonov. Questi viene descritto con tratti patetici e quasi macchiettistici, mentre addenta un cheeseburger e beve litri di vodka, criticando l’America e i suoi alleati, solleticando idee che sembrano più provocazioni artistiche (o di un disperato) che compiute ideologie. Nel Partito nazional-bolscevico si trovano quindi zaristi e stalinisti, skinheads e fanatici religiosi, uniti non da un programma, ma dalla volontà di sfuggire alla banalità delle loro vite.

Putin ha interpretato il sentimento di sconfitta dei russi e ha dato al popolo nuovi motivi d’orgoglio, reintroducendo un discorso neo-imperialista a maglie larghe, che potesse includere (quasi) tutti.

E ha cominciato dalla lotta spietata al terrorismo ceceno, con tanto di presidente ritratto negli accampamenti militari, tra aneddoti e frasi a effetto (dal brinderemo dopo la vittoria all’andremo a prendere i terroristi «fin dentro la tazza del cesso»). Secondo Baranov, l’affermazione di Putin si è basata su questo: non la politica dei numeri e dell’“amministrazione condominiale”, ma la politica come «risposta ai terrori dell’uomo».
Di fronte a un attore tanto carismatico, il ruolo stesso di Baranov – come egli riconosce – è stato solo quello di accompagnare. Al resto, ci ha pensato Putin, in solitudine. Per un uomo che era addetto al controspionaggio, tuttavia, quella solitudine al vertice era destinata a tradursi in paranoia e in una violenza impassibile. Figure come Borís Berezovskij, che lo avevano accompagnato al potere, magari pensando di manipolarlo, sono rimasti scottati. Alcuni più duramente di altri.

Le persone che hanno circondato Putin non sono mai state essenziali, ma solo strumenti per arrivare a una nuova definizione del potere, a una difficile coerenza tra le componenti attive della millenaria storia russa.

Tra i vari manichini, nel romanzo di Giuliano da Empoli trova un significativo spazio Alexander Zaldastanov, motociclista e attivista filoputiniano insignito della medaglia “Per la Liberazione della Crimea”.
Il tema del potere e della manipolazione che esso realizza sono il nucleo di Il mago del Cremlino. Non a caso Zamjatin ritorna nelle pagine successive e viene trasposto nel mondo contemporaneo, in cui il controllo socio-politico è delegato alle nuove tecnologie. Se per alcuni leader la politica è davvero una risposta ai terrori dell’uomo, le generazioni a venire avranno altri problemi, altre paure, e la risposta politica a quell’ansia potrebbe tradursi in una violenza inaudita alla libertà del singolo. La ripresa di Zamjatin è quindi un modo per rivendicare il ruolo della letteratura, in particolare nella storia russa, nell’affermare un fatto di fronte al controllo centralizzato della verità.

Giuliano da Empoli narra in forma di romanzo una realtà del tutto plausibile, con dialoghi che ripropongono contenuti veramente espressi da Putin e dai vertici russi.

Nel suo stile si rintraccia la cura documentaria per i retroscena tipica di scrittori come John Le Carré. Vi è poi un’ispirazione che rimanda al romanzo storico russo e a certi racconti lunghi di Nabokov o alla natura episodica dei rapporti umani ne Le notti bianche di Dostoevskij. Anche le descrizioni delle città, pur contenute, raccontano di questa influenza.
Inoltre, includendo Limonov, Giuliano da Empoli permette un confronto con il famoso romanzo di Emmanuel Carrère. In quel caso, il testo aveva le sembianze di una biografia, unita però a un taglio giornalistico inframezzato da aneddoti storici o personali, in un pot-pourri davvero eterogeneo. Ne risultava una lettura lenta, aritmica, divisa in capitoli meccanici. Questo al netto dell’indiscutibile successo commerciale.

Ne Il mago del Cremlino, invece, vengono meno gli elementi auto-biografici dell’autore e del narratore e il protagonista ha la possibilità di raccontarsi con maggiore trasparenza.

Manca quella artificialità che in Carrère sfiora spesso la presunzione; al contrario, egli lascia al lettore il compito di formarsi un’idea senza interferire con la sua intelligenza.
Infine, un ultimo elemento. Ne Il mago del Cremlino, è presente una violenza machiavellica tra le righe, nonostante il piglio stoico di Baranov nel raccontarsi. Eppure, ancora più forte è la componente pasionaria del potere, coperta dalla maschera di ghiaccio del capo del Cremlino. È così che la caotica imprevedibilità di Putin si trasforma in uno strumento di potere, che è flessibile per se stesso e una spada di Damocle sulla testa di ogni fedelissimo.


Il mago del Cremlino

di Giuliano da Empoli
Mondadori
Narrativa
ISBN 978-8804765400
Ebook 10,99€
Cartaceo 18,05€

Sinossi

La Russia è "la macchina degli incubi dell'Occidente" e questo romanzo, che è un viaggio alla scoperta della mente genialmente tortuosa di uno stratega del Cremlino, ci porta al cuore di quella macchina e di quegli incubi. Nel corso di una lunga notte, Vadim Baranov, l'uomo conosciuto come "il mago del Cremlino", racconta gli uomini e le vicende che hanno accompagnato la trasformazione di un anonimo funzionario del Kgb nell'inesorabile Zar di oggi. Ispirato a una figura realmente esistente, Baranov è un personaggio di straordinaria originalità, lontano da come ci immaginiamo possa essere un consigliere di Putin: proviene dall'avanguardia artistica, ha prodotto dei reality tv, scrive romanzi sotto falso nome. È un uomo colto ma è anche un manipolatore senza scrupoli, capace di trasformare un paese intero nella scena di un teatro dove non esiste altra realtà che il compimento della volontà dello Zar. Un negromante che si nutre delle forze del caos per costruire il potere senza limiti del quale finirà col rimanere lui stesso prigioniero. Queste pagine si leggono come quelle di una tragedia antica animata da personaggi reali, piena di vendette, inganni e crimini. Ma al di là della radiografia implacabile del sistema con i suoi cortigiani, i suoi oligarchi, i suoi esuli braccati, le sue escort, i suoi killer, Il mago del Cremlino ci racconta la favola più tremenda di tutte: quella di un potere spietato, per il quale la violenza - come l'attualità ci ricorda tragicamente - costituisce l'unico orizzonte di sopravvivenza possibile. Al centro di questo sinistro palcoscenico si aggira un uomo imbalsamato in vita, solitario, paranoico, che lavora di notte: questo è diventato lo Zar, o forse è sempre stato così e "l'unico trono che gli porterà la pace è la morte". Questo libro intenso, visionario, ha la grazia senza tempo di un classico pur nella sua bruciante attualità. L'erudizione, lo stile e l'arte di raccontare di Giuliano da Empoli conferiscono a questa storia cruda e brutale un livello di purezza quasi metafisica. È Il Principe di Machiavelli attraversato dalle nebbie di John le Carré, narrato con le cadenze della grande letteratura russa.



Argyros Singh
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