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La danza di Medea, una selezione di liriche di Alberto Kofi

La danza di Medea, una selezione di liriche di Alberto Kofi

La Danza Di Medea, una silloge poetica di Alberto Kofi

Libri Comunicato stampa. La Danza Di Medea, una selezione di liriche di Alberto Kofi (Amazon Edizioni), vincitore di una Menzione di Merito al XVII Concorso Letterario Internazionale “Cosenza, Città Federiciana”. Una silloge poetica, figlia di un travaglio di vita, di un peregrinare senza sosta, spingendosi al punto da sentirsi tanto a disagio da voler tornare indietro.

Non c'è più acqua nelle anfore, anche il mare è bevuto dagli uomini.

[...] Ho lasciato i nidi ancora vuoti, alla finestra
E il mare senza arrivi né partenze. Alberto Kofi, La danza di Medea




La danza di Medea

di Luca Favaro
Amazon Edizioni
Poesia
ISBN 9798321235638
Brossura | 92 pag.
cartaceo 6,70€ | copertina flessibile
cartaceo 19,55€ | copertina rigida
ebook 3,50€

Quarta

«La Danza di Medea è una selezione di liriche fra più raccolte "segretissime" dell'autore, scritte a mano e conservate in sei diversi diari. La poesia non è un esercizio di stile ed il poeta qui lo chiarisce bene; la raccolta che leggiamo è figlia di un travaglio di vita, di una ricerca del sé, di un peregrinare senza sosta per comprendere fino a dove ci si possa spingere al punto da sentirsi tanto a disagio da voler tornare indietro. Ma casa è ormai lontana, non si può far altro che proseguire.»
A cura di Elisabetta Sabellico

Il Libro è risultato vincitore di una Menzione di Merito al XVII Concorso Letterario Internazionale “Cosenza, Città Federiciana”.


Leggi anche Intervista a cura di Silvia Pattarini | Alberto Kofi presenta: La follia di Aiace


Alberto Kofi

Alberto Kofi, nome d'arte di Alberto La Prova, classe 1987. Nato a Milano, a pochi anni segue la famiglia in provincia di Frosinone e a venti anni inizia a trasferirsi: Roma, Bologna, Modena, Reggio Emilia, Londra. Ora vive tra Londra e Liverpool, dopo vari viaggi in Medio Oriente e Africa. Impegnato da sempre nel sociale tra immigrazione e disagio estremo. Attualmente lavora come addetto al pronto soccorso nella capitale britannica. Questa è la sua seconda raccolta dopo La follia di Aiace (2021, Europa Edizioni).




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Identità di genere e neurodivergenze: che relazione c'è?

Identità di genere e neurodivergenze: che relazione c'è?

Identità di genere e neurodivergenze: che relazione c'è?

Di Elena Genero Santoro. Con neurodivergenza ci si riferisce a un funzionamento neurologico che si discosta da quello che viene considerato "tipico" o "normale". Identità di genere e disturbi alimentari, possono essere classificati come neurodivergenze? Così come l'autismo, secondo studi recenti non hanno nulla di psicologico ma dipendono da ereditarietà e conformazione del cervello, in particolare del lobo parietale destro, dove risiede la percezione del proprio corpo.

Anni fa scrissi questo articolo: La rivincita delle rosse, in cui raccontavo di quanto, alla facoltà di ingegneria, mezza vita fa, io mi sia sentita spesso fuori luogo, "non incarnavo il prototipo dell'ingegnere (maschio) medio".
Negli anni a venire ho avuto modo di approfondire il discorso delle neurodivergenze: autismo, ADHD, disturbi dell'apprendimento e non solo.
Inizio dicendo che io non sono neurodivergente, anzi, sono una neurotipica di una banalità sconcertante. Incarno invece lo stereotipo di donna, femminile, cisgender, eterosessuale, desiderosa di maternità, che nel sentire comune viene definita come "normale".
Sono una persona versatile, metodica e curiosa, dotata di una certa memoria, che, senza avere genialità in nulla, avrebbe potuto svolgere discretamente qualunque mestiere o quasi.
Dicevo, nel frattempo ho scoperto il mondo delle neurodivergenze. È un universo gigantesco; una volta che ci si addentra, si trova la chiave di lettura di molti comportamenti e anche la spiegazione di alcune predisposizioni e inclinazioni.

Ma cos'è la neurodivergenza o neurodiversità?

È un «funzionamento neurologico che si discosta da quello che viene considerato "tipico" o "normale"».
Raduna una serie di fattori e caratteristiche che sono meno usuali nella maggioranza della popolazione.
I neurodivergenti hanno in genere interessi specifici e intensi verso alcuni argomenti e tralasciano completamente il resto. I neurodivergenti possono avere difficoltà nelle interazioni con le altre persone. Rischiano di sembrare freddi e distaccati, mentre talvolta il loro è più un problema comunicativo che di empatia.
Altre caratteristiche possibili: hanno un'elevata sensibilità sensoriale, il fracasso dà loro fastidio, come certi rumori, certi suoni, certi odori, troppo contatto con la gente: sono stress che non riescono a sopportare.

Nei soggetti, autistici un sovraccarico sensoriale può portare al meltdown, una risposta intensa e disordinata di natura fisica o emotiva.

Essere neurodivergenti non significa avere automaticamente delle carenze cognitive, anzi. Solo una porzione di neurodivergenti ha tali difficoltà e in questo articolo non mi focalizzerò su di loro.
Un neurodivergente senza problemi cognitivi può avere competenze con picchi di genialità e altri ambiti di assoluta incapacità. Se un neurotipico si arrabatta come può tirando a campare con dignitosi risultati, senza infamia né lode, un neurodivergente può essere un genio, un inventore, un visionario e non sapere come pagare una bolletta. E poi può imparare come si paga una bolletta, perché molto intelligente, ma farlo sempre con molta fatica.

Sul web si trovano fior di articoli che menzionano neurodivergenti di grande successo.

Ad esempio Personaggi famosi con autismo e sindrome di Asperger: eccone alcuni. Quello che oggi conosciamo meglio è il controverso Elon Musk; per il passato, è stato riletto come autistico e dislessico anche Einstein. Imprenditori, attivisti, tecnici. La neurodivergenza può essere una marcia in più, ma anche un freno. La neurodivergenza dà e la neurodivergenza toglie.
Se su Google si cerca "ingegneria, neurodivergenza" la AI restituisce: "Può portare a una maggiore attitudine per la scienza e l'ingegneria. Alcune persone neurodivergenti, come quelle nello spettro autistico, possono avere un talento naturale per le materie scientifiche e matematiche, e questo può spingerle a scegliere carriere in campi come la fisica, la chimica, l'ingegneria e la tecnologia".
Come mi diceva una psicologa che somministra i test dell'autismo: «È molto più raro trovare un autistico a filosofia, perché non ce la fa». A volte gli autistici non capiscono i modi di dire perché interpretano troppo alla lettera i concetti. A filosofia impazzirebbero.
Di recente ho ipotizzato che persino una mia nonna fosse così. Brava in matematica e poco incline al contatto fisico. Più altri dettagli che conosco io. Ovviamente non ne avrò mai riscontro.

Scopro ora, dunque, a cinquant'anni suonati, che probabilmente al Politecnico ero circondata da neurodivergenti e non lo sapevo!

Anzi, trent'anni fa non lo sapeva nessuno. Una volta li chiamavamo "nerd". Si erano riversati tutti al Politecnico perché solo lì avrebbero potuto stare. Individui con alto, altissimo livello cognitivo e con altre inibizioni, per lo più relazionali. Alla luce di ciò che ho imparato in seguito, rileggendo in chiave neurodivergenza/autismo di livello 1 – quello che una volta si chiamava sindrome di Asperger – senza compromissioni cognitive, posso spiegare molte cose che mi sono capitate nella mia permanenza al Politecnico e il fatto che, per quanto io capissi bene la matematica, c'erano "quegli altri" che per la matematica vivevano proprio. Ma non avrebbero mai scritto una poesia. Ero un pesce fuor d'acqua, non tanto perché ero donna, ma perché ero neurotipica.

Un breve focus sull'autismo
Oltre al livello 1, esistono i livelli 2 e 3 che identificano persone che hanno bisogno di un supporto parziale o totale per le azioni quotidiane. Meriterebbero un articolo a parte. I livelli non indicano i “gradi di autismo”, perché l’autismo è uno spettro.

Col senno di poi, quella compagna di corso con l'aria sempre scontenta e annoiata, che pareva infastidita da tutto, forse era autistica – lo dico a fronte anche di altre evidenze che ho avuto in seguito.

Non sembrava infastidita da tutto: probabilmente lo era. La luce le dava disagio, gli odori, il rumore. Non ce l'aveva con me, era un suo problema sensoriale. Un problema sensoriale, che non riusciva a comunicare in modo efficace e il risultato era che noi altri neurotipici ci domandavamo cosa le avessimo fatto che non andava.
Credo di aver avuto anche un fidanzato nello spettro dell'autismo, ripensandoci adesso. Chissà se lui ne è diventato consapevole nel frattempo, o se, parlandone, cadrebbe dalle nuvole o addirittura si offenderebbe all'idea.
Loro due e molti altri. Ovviamente non sono nella posizione di poter fare diagnosi certe, ma la neurodivergenza è una spiegazione coerente ed efficace per i loro comportamenti.

Insomma, Sheldon di The Big Bang theory non ha inventato nulla.

E credo che alla fine, se le mie stime sono realistiche, sono stata una dei pochi neurotipici laureatisi al Politecnico nei tempi e con un bel voto. Dunque, doppio merito per me – lasciatemi lodare e imbrodare per due secondi, grazie!
Ora, la domanda che si fanno i più, è: ma com'è che ci sono tutti questi autistici/ADHD/neurodivergenti adesso che prima non c'erano? Non sarà una moda? Non saremo tutti un po' autistici?
Diciamo che adesso si sanno più strumenti. Che, parlando per esempio di ADHD, la procrastinazione non è pigrizia o sciatteria. E che rapportandosi con un ADHD, bisogna tenerne conto.
Che, nello specifico dell'autismo, la definizione dello spettro autistico e delle neurodivergenze è più strutturata, che si è capito di più.
E che non tutti gli autistici fanno clamore.

Inizialmente, nella definizione di autismo ricadevano per lo più i ragazzi e gli adulti con compromissioni cognitive, con comordibità, con difficoltà nel pensiero e nella parola.

La prima ipotesi che si era fatta, un po' di decenni or sono, era che questi ragazzi crescevano così per colpa delle madri. Le cosiddette "madri frigorifero". Anaffettive. Egoiste.
Alla luce delle nuove scoperte, queste "madri frigorifero" potrebbero semplicemente essere state autistiche a loro volta.

Un altro focus
Le donne autistiche di livello 1, ex Asperger, sono più difficili da diagnosticare perché hanno una più elevata capacità di masking e si mimetizzano meglio nel mondo dei neurotipici. Un maschio autistico ha meno filtri nel parlare e risulta talvolta fin troppo diretto ed esplicito, fino alla maleducazione – pensate sempre a Sheldon.

Conosco persone che hanno avuto diagnosi di autismo in età adulta.

Persone che «non sembravano autistiche» – «Autistico, tu? Allora siamo autistici tutti!». Persone che magari hanno speso anni di poco proficua psicanalisi da terapisti impreparati sulla neurodivergenza e che quando hanno capito qual era il nocciolo della questione, in pochi minuti hanno trovato la chiave di lettura di tutta la loro vita. Perché si erano sempre sentiti inadeguati, diversi, esclusi? Perché facevano fatica a fare cose che per gli altri erano normali? Perché avevano difficoltà a interagire con gli altri, come se fossero legati? Perché erano stati curati per depressione? Risposta: perché erano autistici e vivevano i loro meltdown.

L'autismo – la neurodivergenza – non ha nulla di psicologico, ma dipenderebbe dall'ereditarietà e dalla conformazione del cervello, in particolare dal lobo parietale destro, che controlla le attività visuo-spaziali, la cui connettività è alterata.

In generale, la scienza sta attribuendo sempre più spesso a cause organiche delle caratteristiche che erano percepite come "psicologiche": le persone neurodivergenti hanno il lobo parietale destro diverso da quello della maggioranza della popolazione.
E dalle scoperte più recenti sappiamo che anche i transessuali e chi ha disturbi del comportamento alimentare (DCA) hanno lo stesso lobo parietale destro morfologicamente differente dalla maggioranza delle persone.
Tra l'altro, la maggior parte dei transessuali sono anche autistici. Come anche molti asessuali.

Nel lobo parietale destro risiede la percezione del proprio corpo che, in forme diverse, si manifesta sia nei disturbi del comportamento alimentare sia nella transessualità.

In pratica, anche transessualità e DCA potrebbero ricadere nella grande famiglia delle neurodivergenze o avere con essa delle affinità.
Di certo la transessualità non è una devianza, non è dovuta a una malattia psichiatrica, non è un vizio, non è una carenza morale. Semplicemente è un modo di essere meno usuale e diffuso. Oggi queste cose si sanno e aggrapparsi a una visione netta della realtà è limitativo e anacronistico. Chi, per motivi religiosi o per disinformazione, si àncora a un mondo binario – uomo/donna, maschio/femmina Dio li creò, bianco/nero, giusto/sbagliato – non ha colto quanto l'essere umano sia molto più variegato di così. Perché una struttura duale, semplicistica – fascista? – netta delle cose – e dei poteri – è molto rassicurante, tanto quanto lo è una divisione dei ruoli: l'uomo lavora, la donna sta a casa. I figli crescono, vanno a lavorare e poi si sposano e fanno figli a loro volta. C'è un sentiero tracciato da percorrere e quello è. Chi lo segue è buono, chi sgarra è cattivo. Non bisogna nemmeno sforzarsi di ragionare o di avere un pensiero critico.

Nei decenni passati i genitori, in questo senso, avevano vita più semplice. Non era nemmeno richiesto loro di capire i figli.

Se un ragazzo era omosessuale/transessuale, un genitore timorato di Dio e dello stato non avrebbe tentato di comprenderlo o di assecondarlo. Lo avrebbe bollato come moralmente corrotto o psichiatricamente compromesso. Al limite avrebbe cercato di guarirlo in manicomio o con altre procedure ascientifiche. Magari lo avrebbe allontanato.
Cito qui l'omosessualità come pietra dello scandalo familiare, ma in realtà gli studi sulle neurodivergenze che ho avuto modo di conoscere menzionano solo la transessualità in quanto correlata a una diversa percezione del proprio corpo e non dell'orientamento sessuale. Al momento il funzionamento del lobo parietale è stato collegato a neurodivergenze e transessualità, stabilendo quindi una sorta di parentela tra esse; ovviamente nuovi studi e nuove evidenze potranno associare i modi di essere umani ad altre zone del cervello o fornire un quadro più completo.

Oggi, noi genitori abbiamo molti più mezzi, molte più risorse e conoscenze, ma anche più responsabilità e più timore di sbagliare.

Accogliere l'eventuale variegatura di un figlio è molto più faticoso che respingerla. Ma la realtà è molto diversa, è a colori anziché in bianco e nero, ha mille sfumature e qualcuno inizia ad accorgersene.
Mentre scrivevo mi è comparso un post di Facebook, che menziona un certo numero di personaggi più o meno famosi che si definiscono non-binary. Ho letto i commenti e sono inorridita. Altro che la Bibbia a scuola. Ci vorrebbero ben altre materie aggiuntive. Psichiatria, per esempio. Non per curare quelli che si identificano come non-binary, ma per curare quelli che commentano a sproposito. Da ignoranti – nel senso che ignorano. Ignorano, cioè, che la transessualità/fluidità di genere non è un “problema psicologico”, non riguarda la mancanza di identificazione con un genitore, non è frutto della “cultura woke”.
Quindi, a scuola, che materie dovremmo inserire? Basi di psicologia, ad esempio, per imparare a conoscere e riconoscere la grande varietà di personalità umane.
Ed educazione affettiva, per imparare a non essere abusanti, a rispettare il consenso, a tenere a distanza gli abusanti e a essere empatici con chi, non per scelta, semplicemente si discosta dalla maggioranza.


Elena Genero Santoro
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Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Cinema Di Elena Genero Santoro. Dove osano le cicogne e Joy, due film sulla fecondazione assistita disponibili su Netflix: una commedia sulla maternità surrogata e un biopic sulla sperimentazione pionieristica che ha portato alla prima bambina concepita in vitro.

Angelo Pintus e la moglie Michela hanno penato a lungo per mettere al mondo il figlio Rafael con l’aiuto della fecondazione assistita. Da questa esperienza complessa e impegnativa, senz’altro dolorosa anche se conclusasi con un lieto fine, è nato il film Dove osano le cicognedisponibile in abbonamento su Netflix – in cui Angelo Pintus, che non si è neppure cambiato il nome, porta in scena una storia di procreazione difficile. Lui e la moglie "fittizia" Marta non riescono a concepire per vie naturali, in parte per l’età, ma soprattutto perché lei soffre di una forma invasiva di endometriosi. Così, consigliati dall’amico Andrea, si rivolgono a una clinica privata spagnola dove viene proposta loro la maternità surrogata.

Dove osano le cicogne
Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Dove osano le cicogne

REGIA Fausto Brizzi
SCENEGGIATURA Gianluca Belardi, Fausto Brizzi, Herbert Simone Paragnani, Angelo Pintus
PRODUZIONE | PRODUTTORE PiperFilm, Lovit, Netflix Studios, Tramp Ltd.
DISTRIBUZIONE PiperFilm
MUSICHE Andrea Bonini
FOTOGRAFIA Marcello Montarsi
ANNO 2025
CAST Angelo Pintus, Marta Zoboli, Beatrice Arnera, Andrea Perroni, Tullio Solenghi, Maria Amelia Monti, Imma Piro, Antonio Catania


C’è una volontaria, Luz, che, pur di trasferirsi in Italia, metterà al mondo, “in forma gratuita”, l’embrione concepito in vitro e biologicamente figlio di Angelo e Marta.

Pur sapendo di violare la legge (la maternità surrogata in Italia è un reato universale), Angelo e Marta accettano. Il concepimento va a buon fine e la coppia torna a casa portandosi dietro Luz. Da quel momento Angelo e Marta devono mettere in atto mille strategie per garantire il parto senza destare sospetti; fingono la gravidanza di Marta comprando protesi di silicone, mentono a tutti, anche al padre di Marta, un carabiniere in pensione sospettoso e pignolo che ricorda Robert De Niro quando si accanisce con Ben Stiller in Ti presento i miei.

La commedia ha un ritmo serrato, tante gag e un tono leggero.

Si ride molto mentre un paio di concetti traspaiono in controluce: avere un figlio per vie non naturali (e in questo caso pure illegali) è un affare costosissimo, infatti i Pintus iniziano a tirare fuori migliaia di euro da quando Luz sale in aereo e pretende la prima classe e continuano fino a corrompere la Doula (Maria Amelia Monti) incaricata di seguire il parto.
E poi, che avere un figlio è un desiderio talmente potente e doloroso da far passare sopra ogni scrupolo morale e legale.
Si arriva a un finale molto più politicamente corretto di quanto atteso, ma balzando tra mille situazioni contorte, battute al vetriolo e qualche colpo di scena. Alla fine il ritmo del film la fa da padrone e l’ora e mezza di pellicola si fa bere come gazzosa.

Rimane la domanda: cosa sareste disposti a fare per avere un figlio? Anche a violare la legge?

I Pintus del film non prendono nemmeno in considerazione altre forme di genitorialità, l’adozione, l’affido; il desiderio struggente che li consuma è quello di avere un bambino tutto loro.
Oggi ci domandiamo se la gestazione per altri sia moralmente accettabile o meno, se sia il reato universale che lo stato italiano cerca di combattere in ogni modo o se, sotto certe condizioni, possa essere anche un gesto di solidarietà o di amore. Siamo tutti d’accordo che se parliamo di posti come l’India, dove le donne partoriscono figli per altri nove volte in nove anni per morire di consunzione prima di arrivare ai trent’anni, stiamo parlando di sfruttamento, abominio e messa al mondo di neonati a fini di lucro. Ma le situazioni intermedie sono tantissime. La prima volta che ho letto, tanti anni fa e in tempi non sospetti, di una nonna che partoriva il nipote per la figlia e il genero, forse in America, ho pensato che fosse una cosa bella. Che io per mia sorella un figlio lo avrei fatto, se fossi stata nelle condizioni fisiche adeguate.

Quindi il dibattito è tutto meno che chiuso.

Più la scienza va avanti, più si aprono possibilità e più le domande di cosa sia lecito fare si infittiscono.
In realtà, forme di maternità surrogata ante litteram sono sempre esistite. È sempre accaduto che, se la “signora” di casa non riusciva a concepire, il padrone mettesse incinta una servetta e si tenesse il bambino. E chissà se la servetta era consenziente.
Poi però è stata inventata la fecondazione in vitro e anche le modalità di concepimento si sono evolute.



Il secondo film che mi è capitato di guardare di recente è Joy, che a dispetto del nome, gioia, ha un tono tristissimo.

Louise Joy Brown, nata nel 1978, è la prima bambina concepita in provetta nel Regno Unito. Prima di arrivare a lei, due medici e un’infermiera hanno sperimentato per almeno tre lustri, con errori, speranze infrante, pochi finanziamenti, opinione pubblica contraria, chiesa ostile.
Loro erano Robert Geoffrey Edwards, Patrick Steptoe e Jean Purdy e Joy racconta la loro storia, specialmente quella di Jean Purdy, che come infermiera non aveva titoli ufficiali per ricevere dei riconoscimenti accademici, ma che ha avuto dei tributi postumi.
Joydisponibile in abbonamento su Netflix – inizia negli anni sessanta, con un giovane ed entusiasta Edwards che assume Jean Purdy come assistente e coinvolge l’anziano Steptoe, ginecologo pioniere della laparoscopia, nella sua sperimentazione. Sappiamo che la storia finisce in gloria, che Edwards ricevette il nobel nel 2010 per il suo contributo alla medicina, e solo lui perché era l’unico ancora in vita, e che grazie al lavoro dei tre sperimentatori sono nati milioni di bambini che diversamente non avrebbero mai visto la luce, ma il film Joy narra gli anni precedenti, quelli in cui non vi era certezza del risultato, quelli fatti di cadute, di sogni infranti, di fallimenti, di voglia di arrendersi.

Joy
Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Joy

REGIA Ben Taylor
SOGGETTO Rachel Mason, Jack Thorne, Emma Gordon, Shaun Topp
PRODUZIONE | PRODUTTORE Pathé, Pathe UK, Wildgaze Films
DISTRIBUZIONE Netflix
MUSICHE Steven Price
FOTOGRAFIA Jamie Cairney
ANNO 2024
CAST Thomasin McKenzie, James Norton e Bill Nighy


Joy narra soprattutto la storia di Jean Purdy, dei suoi scrupoli morali.

Lei era cristiana, appartiene alla comunità che ruota intorno alla chiesa, sua madre è molto devota e la allontana quando lei inizia a sperimentare sugli embrioni. Gli amici le voltano le spalle, il prete le dice che può tornare se si pente. Ma lei non vuole pentirsi. Jean Purdy rimane sola, prosegue la sua attività anche se alcune cose non le piacciono: i suoi colleghi praticano pure gli aborti e per lei, cristiana, non è una bella cosa, il dubbio di coscienza la attanaglia, ma va avanti. Rimane, con una missione: aiutare le donne che desiderano un figlio e che non possono averlo. Lo fa anche perché sa di non poter diventare madre: soffre di una grave forma di endometriosi e non concepirà mai.

Jean Purdy si impegna per le altre, perché quelle come lei possano realizzare il loro sogno.

Non solo svolge il lavoro pratico con gli embrioni, ma anche quello umano con le aspiranti mamme. Le accompagna, rende il loro percorso meno gravoso, le sorregge mentre deve distruggere le loro speranze perché gli esiti delle terapie non sono quelli attesi o perché il bambino che portano in grembo non nascerà.
Jean Purdy, la cui storia è diventata nota solo di recente, si è immolata per le donne, per la fecondazione in vitro, per la scienza. Ha donato la sua vita, con molto amore. Morirà a soli trentanove anni per un cancro, dopo aver lasciato un segno indelebile nella storia della maternità assistita.




Elena Genero Santoro
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