Gli scrittori della porta accanto

Intervista a Elena Genero Santoro, a cura di Samantha Terrasi

Intervista a Elena Genero Santoro - Foto scrittrice

Un caffè con Elena Genero Santoro, in tutti gli store online con il suo romanzo Gli angeli del bar di fronte, una storia di donne, una favola moderna, che parla anche di integrazione e violenza di genere.

Benvenuta Elena, grazie per essere qui con noi. Tu sei nata e cresciuta in una città che io reputo una tra le più eleganti d’Italia. Torino. Ho vissuto lì un anno per lavoro e ho passeggiato per i portici, gustato la golosità della gianduia. Tu che sei nata e cresciuta nella Torino magica, cosa ami di questa città?
Ciao Samantha e grazie per questa intervista. Sono nata a Torino, ma abito in provincia, proprio a pochi chilometri. Durante la mia infanzia Torino l’ho frequentata poco, il mio ricordo più angosciante riguarda le visite da una pediatra tanto snob quanto odiosa da cui mia madre mi portava per dei controlli periodici in via Valperga Caluso. Poi però, crescendo, da via Valperga Caluso ho cominciato a passarci tutti i giorni perché frequentavo il Politecnico ed è dunque da quando avevo diciannove anni che a Torino ci vado quotidianamente.

Il tuo luogo preferito?
I luoghi a cui sono affezionata sono tanti e non necessariamente turistici o appartenenti alla Torino magica. Ne cito solo alcuni: i giardini del Fante davanti al Politecnico, dove ho trascorso numerose pause pranzo e ore buche tra una lezione e l’altra in compagnia dei miei compagni. Palazzo Bricherasio e Palazzo Cavour dove in passato venivano organizzate interessanti mostre di pittura, ora dirottate su altre location (per esempio su GAM, la Galleria di Arte Moderna). La stazione di Porta Nuova che è un crocevia importante e ora anche un centro commerciale. L’8 Gallery, dentro il Lingotto, (che è un edificio storico di interesse notevole), che ospita il cinema e tanti negozi: l’ideale per un’uscita tra amiche. E ovviamente in Quadrilatero Romano, la parte più antica di Torino, che è anche il centro della Movida e ricco di locali interessanti.

Elena Genero Santoro
La crisi ha messo a dura prova molte città, come ha risposto Torino, secondo te? Cosa è cambiato?
Torino negli ultimi anni, crisi o non crisi, è cambiata molto. Dopo le Olimpiadi Invernali del 2006, che hanno dato una grossa spinta verso il rinnovamento, la città è stata riqualificata e si è riconvertita sotto una veste turistica che prima non aveva. In molti dall’estero l’hanno riscoperta e pare che ora sia una delle mete più ambite. Mi domando perché ci abbiano messo così tanto, perché le cose da vedere da noi sono tante. Io poi ho avuto la fortuna di conoscere e apprezzare i molti angoli di Torino inclusi nei programmi dei vari esami di storia dell’architettura e dell’urbanistica che ho avuto all’università. Non sto parlando solo della Mole Antonelliana e del Museo Egizio, tanto per fare due nomi illustri. Torino è interessante da scoprire per l’aria che si respira, per la struttura degli ampi viali di impostazione sabauda, per i palazzi dalle facciate regolari e i portici. Torino era una città operaia e adesso è una città culturale, con vari eventi e opportunità. Molti quartieri sono stati riqualificati: San Salvario era il centro della criminalità e dello spaccio, ora è un nuovo polo di locali e movida. Porta Nuova è stata rinnovata e ammodernata. Ora abbiamo finalmente una linea della metropolitana, la costruzione della quale per decenni era stata rimandata, cosa anomala per una città delle dimensioni di Torino. Certo il lavoro è ancora lungo. Per esempio trovo tremendo che la terza città italiana abbia un aeroporto così piccolo e poco collegato. Purtroppo Torino risente del confronto con Milano, come si è visto con la recente polemica per il Salone del Libro. Il problema nel caso del Salone del Libro è che si trattano i libri come una qualunque altra merce, dimenticando che i libri sono molto di più, sono cultura, sono tradizione. E che Milano poteva potenziare i suoi saloni del libro (ne aveva già un paio, mi pare) senza rubare il marchio a Torino. Milano e Torino sono due città molto diverse per tante ragioni, ognuna dovrebbe coltivare i suoi punti di forza, non rivaleggiare con l’altra.

La crisi si dice abbia colpito anche il mondo dell’editoria. Troppi emergenti, troppi romanzi, troppa scelta. Secondo te esiste davvero la crisi in questo campo?

La crisi c’è. Siamo in tanti a scrivere. Non voglio dire in troppi, ma quasi. Il self-publishing ha reso la pubblicazione più democratica e meno elitaria, ha aperto la strada a chiunque pensasse di aver qualcosa da dire (anche alla sottoscritta, che dal self-publishing ha iniziato). Questo è stato un bene, da un certo punto di vista, ma adesso non c’è più selezione e il mercato è decisamente saturo.

Cosa rappresenta per te scrivere?
Scrivere per me è analizzare la realtà che mi circonda e alla fine cambiarla in modo da renderla migliore. Quando scrivo dipano i pensieri, do un senso alle cose e trovo le soluzioni che mi mancavano. E naturalmente per crearmi un mondo in cui evadere quando la realtà diventa troppo pesante.

Il tesoro dentro, Gli angeli del bar di fronte, Un errore di gioventù. Tre romanzi. Quale ti rappresenta di più?
Faccio una doverosa premessa: “Un errore di gioventù” è il nono libro di una serie di dieci romanzi di cui sono stati pubblicati anche i primi due: “Perché ne sono innamorata” (Montag Edizioni) e “L’occasione di una vita” (Lettere Animate). Prima o poi pubblicherò anche i sei romanzi in mezzo e l’ultimo. Ma ho deciso di dare la priorità a “Un errore di gioventù” per un motivo personale: il libro parla della pena di morte ed è dedicato a Martin Eddie Grossman, mio penfriend dal 2002 fino al 2010, quando è stato giustiziato nel carcere della Florida in cui era detenuto. La storia che ho raccontato io, intrecciata ad altre trame, non è reale, ma ovviamente è ispirata alla sua.
Invece in “Il tesoro dentro” c’è uno scrittore danese poliglotta che sceglie di vivere a Torino. Ovviamente la storia che gli ho attribuito è completamente di fantasia, ma lo scrittore danese poliglotta che sceglie di vivere a Torino esiste davvero e io l’ho conosciuto, la qual cosa mi riempie di orgoglio campanilista.



A quale dei tre sei più affezionata?
Non c’è un romanzo a cui sono più affezionata. Sarebbe come dover scegliere tra i miei figli.

Se dovessi andare a un ballo e presentarli che vestito sceglieresti per ognuno di loro?
Questi miei tre libri affrontano tutti dei temi sociali, quini credo che potrei presentarli tutti con lo stesso vestito: magari un bell’abito blu di organza, con la gonna ampia che prenda sotto di sé e ripari tutti i miei protagonisti dalle ingiustizie alle quali sono soggetti.

Gli Angeli del bar di fronte, una favola moderna, è un romanzo corale a due voci. Chiara, una ragazza italiana torinese e Paula, rumena. Entrambe si alternano in una Torino che fa da cornice. Come sono nati i tuoi personaggi?

Sono nati per contrapposizione. Volevo alternare le due voci. Due ragazze che non si conoscono, simili per età, per lavoro e per ambizioni, ma molto diverse per background. Chiara, proveniente da una famiglia in origine benestante, abituata agli agi, alle vacanze in località di grido. Paula fuggita alla povertà e alle superstizioni della Romania più desolata. Eppure hanno in comune più di quanto possano immaginare.

Nel romanzo si parla spesso di integrazione e immigrazione. Due concetti che alla luce dei fatti moderni, spaventano ancora. L’immigrazione è un flusso costante che attraversa il nostro paese, pensi che le nostre città siano preparate?
L’immigrazione è antica come il mondo, c’è sempre stata in varie forme. Solo chi si adatta sopravvive, a questo come ad altri fenomeni. Ovviamente le città italiane dovranno adattarsi, ma anche gli immigrati dovranno metterci del loro. Voglio dire, le città sono preparate nella misura in cui chi arriva lo fa pacificamente. L’integrazione – lo dice la parola stessa – deve essere completamento, arricchimento. Se chi arriva da fuori lo fa con una disposizione di scambio reciproco (economico, culturale), i vantaggi non possono essere che molteplici. Se lo straniero che arriva ci considera solo dei dannati infedeli da sterminare tutti, allora è chiaro che le città dovranno ristrutturarsi completamente perché sì, abbiamo un problema, e in questo senso no, le città non sono proprio preparate. Ovviamente mi riferisco agli ultimi eventi drammatici che riguardano il terrorismo e mi rammarico per come le schegge impazzite che perseguono il fondamentalismo e l’estremismo (religioso e non) rischiano di fomentare l’odio e la diffidenza di noi europei verso tutti gli immigrati pacifici, che sono la maggior parte.

La nostra cultura è così aperta quando si parla di integrazione o è solo una parola come tante? C’è integrazione a scuola, nel mondo del lavoro, nelle strade?
Bella domanda. L’integrazione è un’aspirazione alla quale voglio credere, ma che purtroppo a volte riserva brutte sorprese. Ho scritto diversi articoli in un recente passato sull’integrazione nei paesi del Nord Europa in cui andavo spesso per lavoro, in particolare il Belgio e la Germania. Lassù mi sono sempre sembrati più avanti di noi nel processo di integrazione. Un esempio: vicino a Francoforte ho visto negozi di moda per donne musulmane integrati nel tessuti urbano, insieme a tutti gli altri e non ghettizzati in qualche borgo specifico. Gli stranieri sono tanti, in percentuale molto più che da noi, vivono lì da più tempo e provengono da ogni parte del globo. E che dire di Londra che ha eletto un sindaco di origini pakistane? È meraviglioso! Bruxelles, Londra, sono città cosmopolite e affascinanti in cui mi sarebbe sempre piaciuto abitare. Camminare per strada e avere tutto il mondo a propria disposizione. Ma posti del genere si rivelano sempre realtà più complicate, frammentate e controverse di quanto si possa immaginare. E quando l’autore di un atto terroristico si scopre essere un immigrato di seconda generazione, nato e cresciuto lì in una famiglia ordinaria e devota al lavoro, rimane sempre l’amara sensazione di aver allevato una serpe in seno. In momenti come quelli l’integrazione appare un concetto molto più fragile e superficiale di quanto si pensasse. Che peccato. Perché poi chiedo a mia figlia, che ha finito la seconda elementare: “Tu hai una compagna rumena e un altro compagno nordafricano, vero?” E lei mi risponde: “Boh, che ne so?” E questo è un buon segno, perché significa che non ha percepito alcuna differenza. Così come non percepisce la differenza quando al parco giochi trova una famiglia di nordafricani con tre bambini che si esprimono correntemente in arabo con la madre e in perfetto italiano con vago accento piemontese con tutti gli altri.

Gli Angeli del Bar di Fronte si sofferma più volte su questo concetto, sollevando molte domande, come mai hai voluto porre l’accento su questa condizione? C’è un episodio che ha fatto scattare la molla?

Per scrivere “Gli Angeli del Bar di Fronte” mi è bastato guardarmi intorno. Non c’è un episodio che abbia fatto scattare la molla, piuttosto tanti frammenti che messi tutti insieme mi hanno permesso di raccontare una storia organica. Aggiungo che nel libro parlo sì di immigrazione, ma considero solo la comunità rumena che è quella che conosco meglio. Un episodio che ha un’ispirazione reale è quello del matrimonio tra un italiano e una rumena, che nel libro è sfondo per altri eventi. Mi è capitato di assistere a un matrimonio del genere. C’erano due tavolate, quella italiana e quella rumena, che festeggiavano ognuna a modo suo. Non fu un grande esempio di integrazione e il matrimonio, peraltro, finì molto male dopo pochi mesi. E che dire delle badanti e delle colf rumene? Chi di noi non ne ha una che accudisce un anziano o che ci fa i lavori di casa?
(Hai ragione anche mia nonna ne ha una)
Ci tolgono dai guai e molte volte fanno un gran lavoro. Abbiamo bisogno di loro, perché noi facciamo una vita infame, chiusi in ufficio per dodici ore al giorno. Ci accudiscono bisnonni e figli piccoli, perché nemmeno i nonni, che non riescono più ad andare in pensione, possono badare ai nipoti, ormai. Per quanto riguarda le badanti (rumene e non): tutti abbiamo bisogno di loro, molti le odiano e preferirebbero assumere un’italiana (a trovarla). Le trovano ambiziose, attaccate al denaro. Magari quelle poverette nel loro paese erano ingegneri nucleari, invece sono qua costrette a disinfettare piaghe da decubito o a pulire il sedere a qualche vecchio sporcaccione. Insomma, tutto è relativo e il gioco di equilibri è assolutamente precario. Nel libro cerco di dare voce a tutti.

Il romanzo parla anche di donne. Due, le protagoniste. Esistono nella realtà Chiara e Paula? E soprattutto esiste il Bar di Fronte?
Paula e Chiara non esistono, così come non esiste il Bar di Fronte. Il Bar di Fronte è un luogo più emblematico che reale, collocato in una zona degradata di Torino dove c’è ricchezza di un certo tipo di immigrazione. Ha nome alquanto bislacco per essere un bar. La domanda sorge spontanea: Bar di Fronte a che? Già nelle prime pagine viene spiegata la scelta di tale nome da parte del suo criptico gestore Armando: lui intende il Bar di Fronte al tiglio più bello della città, a suo dire. Ovviamente nessuno può intuire il suo complicato retro-pensiero, ma “Bar di Fronte” suona anche come il nome di un luogo che ciascuno può immaginare molto vicino a sé. Dunque, è il bar ordinario, modesto e un po’ spoglio che tutti potremmo avere sotto casa.



Tutti possiamo avere il nostro Bar di fronte così.
Sì, mentre Chiara e Paula sono due donne che vivono storie di donne e in cui qualche lettrice potrà immedesimarsi. Ma non dimentichiamo che tutto nel libro ruota intorno al misterioso Vic, il vero protagonista del romanzo. È il perno, anche se non è uno dei narratori e il suo punto di vista si scopre solo alla fine.


Nei ringraziamenti del tuo libro ho letto che hai due figli. Con quali favole sono cresciuti? Sono le stesse che ti leggevano da bambina?

No, i miei figli hanno a disposizione miriadi di libri e di storie. L’offerta al giorno d’oggi è vastissima anche per i bambini. Accanto alla fiabe classiche ci sono mille libri più moderni, studiati apposta per la loro formazione. Per loro, quando erano più piccolini, ho comprato diversi volumi di Babalibri, uno dei quali, per esempio, aiuta il piccolo lettore a prendere coscienza della propria rabbia (e a domarla). E vogliamo parlare dei romanzi brevi scritti appositamente per loro? Solo ieri ho acquistato a mia figlia due libri per bambini dai sette anni in su: uno mirato all’accettazione del diverso, l’altro alla realizzazione dei propri sogni. Con questo non voglio denigrare tutte le letture della mia infanzia, anzi. Proprio qualche sera fa mia madre ha ritrovato in cantina il mio libro preferito: Ranuncolina. È una delle varie trasposizioni di Riccioli d’Oro e i Tre orsi. Non mi piaceva solo la trama, di quel libro amavo pazzescamente le illustrazioni colorate. Comunque, lo conoscevo a memoria. L’ho letto ai miei figli e ancora ricordavo le parole e le espressioni. La trama, a grandi linee, i miei figli l’avevano già sentita.

Elena preferisce l’inverno e la neve o l’estate e il mare?
Assolutamente l’estate e il mare. Detesto la neve per molte ragioni e pur abitando ai piedi delle montagne non ho mai provato a sciare in vita mia.

I sogni sono sempre stati la parte più eterea di una persona che si concretizzano fino a diventare realtà tangibili. Qual è il sogno di Elena?
Il mio rapporto coi sogni è cambiato negli anni. A vent’anni vedevo i sogni come un mondo a parte, contrapposto alla realtà e li rifiutavo. Mi sembravano una perdita di tempo. Ora penso che i sogni siano l’unico modo per realizzare qualcosa, anche di impensato e improbabile. Ma da buona piemontese scaramantica, li tengo tutti per me, altrimenti non si realizzano.

Siamo curiosi e non possiamo non chiedertelo, quali sono i tuoi progetti futuri? Ci sarà un nuovo romanzo?
Sto lavorando su due manoscritti. Il primo è una storia drammatica, in linea con quello che ho pubblicato finora. Il secondo è una cosa completamente diversa, umoristica, con personaggi vagamente caricaturali. La protagonista è una specie di Bridget Jones all’italiana, forse un po’ più trash, ma mai volgare. Non so se potrà piacere, ma nella vita bisogna sperimentare.

Nella vita bisogna sperimentare e io ti faccio un grosso in bocca al lupo. In gamba, neh!



Samantha Terrasi

Samantha Terrasi
Vivo tra Torino e Roma, dove sono nata. Mia nonna avrebbe voluto che mi chiamassi Maria Concetta, ma per fortuna mio padre di ritorno da un viaggio negli States mi ha chiamato Samantha, rigorosamente con la h. Formazione scientifica, una laurea in biologia molecolare per poi scegliere di tramandare il mio sapere agli studenti. Sono una professoressa di matematica e scienze senza occhiali e quando non mi trovo tra equazioni e studenti, scrivo.
Parole nel vento, Aletti Editore, 2012.
Ti aspetto, Lupo Editore.


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