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Ted Bundy: una biografia e due documentari sul serial killer manipolatore

Ted Bundy: una biografia e due documentari sul serial killer manipolatore

Di Elena Genero Santoro. Ted Bundy, il serial killer manipolatore: una biografia e due documentari sulla vita di uno dei criminali più noti e controversi d'America. Ted Bundy era intelligente o no? Era consapevole di ciò che faceva? Come si diventa psicopatici?

La scorsa estate ho speso molte settimane per leggere un unico corposo libro: l'autobiografia di Michelle Obama.


Quest'anno mi sono dedicata con altrettanto interesse a un'altra biografia, solo assai meno edificante: quella di Ted Bundy, uno dei criminali più noti e controversi d'America. Un serial killer sul quale sono stati girati numerosi film e documentari.
E infatti mi sono documentata su di lui attraverso tre fonti: il libro di Ann Rule, Un estraneo al mio fianco, e quasi dieci ore di documentari, su Netflix (Conversazioni con un killer: il caso Bundy), e su Prime Video (Ted Bundy: Falling for a killer, raccontato in prima persona dalla fidanzata storica di Bundy, Elizabeth - Liz - Kendall, e dalla figlia Molly).

Ted Bundy: Falling for a killer

Potrei dire di conoscere tutto su Ted Bundy, ma la verità è che nessuno conosce davvero ciò che Ted Bundy è stato, nemmeno coloro che gli sono rimasti vicini fino all’ultimo.

Com'è nata la mia curiosità: ero reduce dalla lettura di La psicopatia di Robert D. Hare e Ted Bundy veniva menzionato già nell'introduzione in un lungo elenco di assassini a sangue freddo che avevano attirato l'attenzione della cronaca.
Il libro di Robert D. Hare, che ha trascorso la vita a studiare la psicopatia, soprattutto tra la popolazione criminale, mettendo a punto una checklist per diagnosticarla, non è incentrato su Ted Bundy. Hare dedica un breve capitolo a Ted Bundy, relativamente alla sua capacità manipolativa.

Ted Bundy tolse la vita a un numero davvero elevato di ragazze adescandole in un modo assai singolare: si muniva di stampelle o si metteva un braccio al collo, o si travestiva da poliziotto, e in questa posa in apparenza innocua chiedeva alle sue vittime di aiutarlo o di seguirlo. 

In questo modo ha ucciso almeno ventuno ragazze, ma forse molte di più, forse trenta, forse cento, forse trecento, dopo averle violentate e avere infierito sul loro corpo con estrema crudeltà. Si è persino macchiato di necrofilia.
Una annotazione: il libro di Ann Rule e i documentari televisivi descrivono con dovizia di particolari le sparizioni delle vittime di Bundy e i loro agghiaccianti ritrovamenti. Rendono anche omaggio alle vittime raccontando qualcosa della loro vita e dando voce alle loro famiglie.
Io invece non scenderò in alcun particolare del genere. I nomi delle ragazze sono noti alle cronache. Erano tutte giovani donne speciali, vitali, nel fiore degli anni. Sappiate solo che Bundy ha privato decine di genitori dei loro splendidi fiori. Ha causato molto dolore. Come madre fa male persino pensarci.

Netflix (Conversazioni con un killer: il caso Bundy)

I fatti: Theodore Robert Bundy nacque a Tacoma il 24 novembre 1946. Era un figlio illegittimo e sua madre Louise inizialmente voleva darlo in adozione. 

Ma poi ci ripensò e per salvare le apparenze gli fece credere di essere sua sorella. Tuttavia, quando quattro anni dopo Louise si sposò con Johnny Bundy, portò suo figlio con sé.
L'infanzia di Ted Bundy è meno nota, ma Julia, la sorella minore di Louise, affermò che Ted fosse inquietante e violento già a tre anni, mentre una testimone (docu-film di Netflix) racconta che il Ted Bundy bambino fosse diverso dagli altri: non faceva ciò che gli veniva richiesto nemmeno al campo scout, ma preparava trappole scavando buche nel terreno, dentro le quali inseriva bastoni appuntiti, e poi ricopriva tutto con foglie. Una bambina si era squarciata una gamba grazie alle sue prodezze.

Ted Bundy mieté le sue vittime in Colorado, nello Utah, nell’Oregon e infine in Florida. Forse non solo lì.

Fuggì di galera ben due volte, la prima dalla prigione di Aspen, saltando dalla finestra del secondo piano, la seconda alla fine del 1977, scappando dalla propria cella come un novello Houdini, dopo essersi infilato nei condotti dell’aria. Era già sospettato di essere il responsabile della sparizione di diverse donne e dell’aggressione ai danni di Carol DaRonch, una delle poche vittime riuscite a sfuggirli, ma anche se i primi processi erano già conclusi a suo sfavore, su di lui l’opinione pubblica era alquanto divisa. Lui continuava a proclamarsi innocente e i suoi modi gentili, controllati, garbati inducevano molte persone a credere che lo fosse.
Se dopo la seconda fuga fosse stato in grado di reprimere i suoi istinti omicidi e avesse cambiato vita, probabilmente sarebbe ancora libero da qualche parte. Ma la sua compulsione, la sua dipendenza dalle uccisioni seriali era talmente radicata che Bundy, rifugiatosi in Florida sotto falso nome, durò meno di due settimane. Entrò in un collegio universitario, nella casa delle confraternita delle Chi Omega, uccise brutalmente due studentesse nel sonno e ne ferì altre a bastonate. Venne poi fermato dalla polizia per un motivo assolutamente futile – come la prima volta che era stato arrestato – ma una volta nelle mani dei tutori della legge venne riconosciuto.

Ted Bundy, laureato in psicologia e con l'aspirazione di diventare avvocato, aveva un QI pari a 124. 

Non era un genio, ma di sicuro un uomo intelligente e ambizioso che si era anche cimentato con la politica. La sua famiglia era religiosa e anche lui frequentava la chiesa metodista. A vent'anni si era innamorato di una ragazza di buona famiglia, Dianne (che nel libro di Ann Rule viene chiamata Stephanie), ma dopo un anno di relazione lei lo aveva lasciato. Tutte le giovani donne che avrebbero attirato l'attenzione di Ted Bundy successivamente sarebbero state simili a questa Dianne: belle, studiose, coi capelli lunghi e la riga in mezzo. Le ragazze che Ted riteneva inarrivabili.


Ted Bundy era un bel giovanotto: aveva due occhi azzurri magnetici, un sorriso simpatico, una parlantina loquace e un gran senso dell'umorismo.

Quando Ann Rule lo incontrò, lui era uno studente di ventiquattro anni e lei una donna di mezza età con quattro figli e un divorzio avviato. Non avrebbe mai provato attrazione per lui, però lo avrebbe considerato un amico.
Ann Rule, ex poliziotta divenuta giornalista e scrittrice di cronaca nera, lavorava con Ted Bundy come centralinista in un'unità di crisi. Loro erano quelli che ricevevano le telefonate degli aspiranti suicidi e tentavano di salvarli. E, come afferma Ann Rule nel suo libro, «Ted Bundy ha ucciso molte persone, ma ha anche salvato molte vite».
Quando tempo dopo si trovò a dover indagare sugli inquietanti casi di omicidio che si erano verificati, il cui sospettato era un certo Ted, non riusciva nemmeno a credere che quel Ted fosse proprio il suo amico.

Il libro di Ann Rule, Un estraneo al mio fianco, parecchio corposo e con capitoli finali aggiunti nel corso degli anni, cerca di essere obiettivo e di fare parlare i fatti prima dei sentimenti. 

Quella di Ann Rule è una lotta interiore perché Ted Bundy per lei era stato un amico e continuerà a considerarlo tale finché la sua condanna a morte non sarà posta in essere il 24 gennaio 1989. Ann Rule faticherà a credere che le doti di Ted, la sua generosità, il suo altruismo, fossero solo un sottile strato di vernice sopra un’anima nera.
È capitato anche a me di considerare amico un ragazzo che non rientrava nei miei canoni. Era un collega, mio coetaneo: non aveva commesso azioni estreme come quelle di Bundy, ma era maschilista – neanche troppo velatamente. Per lui le donne in ufficio potevano essere solo segretarie, non ingegneri, e affermava che i suoi amici dovessero essere principalmente belli. Non belli dentro, belli di bella presenza. In una circostanza normale non lo avrei degnato di uno sguardo. Ma stavo divorziando, ero depressa, e lui mi trattò da amica. Mi invitava quando si usciva al cinema. Mi stava ad ascoltare. Non aveva mire su di me, anche la sua vita sentimentale era abbastanza complicata, eppure, benché sotto certi aspetti fosse pessimo, io ancora lo annovero tra gli amici e non mi scordo del tempo che mi ha dedicato quando ne avevo bisogno.
Credo che qualcosa del genere, molto più intenso, sia capitato ad Ann Rule, che fino al processo di Miami non si era voluta convincere del tutto della colpevolezza di Ted, eppure anche quando l’evidenza era ormai schiacciante, non lo ha mai abbandonato del tutto.

Killer psicopatici

Ann Rule, deceduta nel 2015, non era un’ingenua. Era ben conscia delle abilità manipolatorie di Ted, anche nei suoi confronti. Eppure a suo modo gli voleva bene.

Ma qual era esattamente il problema di Ted Bundy, annoverato come psicopatico? Era l’odio per le donne?
In parte, probabilmente, perché le ragazze intelligenti e di buona famiglia alimentavano la sua frustrazione. Rappresentavano tutto ciò che lui non avrebbe mai potuto possedere.
Il documentario di Prime Video, quello in cui in buona parte si ascoltano le parole di Liz Kendall e della figlia Molly, viene raccontato anche il contesto socio culturale dei primi anni Settanta: la rivoluzione sessuale, la presa di coscienza femminile, i diritti acquisiti. Non saprei se lo squilibrio di Ted Bundy possa avere una connotazione socio politica. Si sospetta addirittura che la sua prima vittima sia stata una bambina di otto anni nel 1961, una vicina di casa sparita nel nulla quando Ted aveva solo quattordici anni. Se così fosse, il contesto culturale non rappresenterebbe proprio nulla.

Peraltro, per quanto certe donne fossero per lui inarrivabili, aveva molta facilità a fare conquiste. Liz Kendall era la sua ragazza storica, con lei e la figlia Molly ebbe quanto di più simile a una famiglia.

Liz, nel documentario video, racconta che i primi anni con Ted erano stati fantastici: divertenti, allegri. Molly lo considerava come un padre, lui le aveva persino insegnato ad andare in bicicletta. Ma poi il rapporto si era raffreddato. Lui era diventato più scostante. E a un certo punto proprio Liz aveva avuto dei sospetti su Ted, l’ansia che potesse essere il responsabile delle misteriose sparizioni di ragazze, perché queste erano avvenute in momenti in cui Ted non era a casa. Ted inoltre possedeva oggetti strani: chiavi inglesi, piedi di porco, calzamaglie bucate, ingessature e stampelle. E assomigliava all’uomo di cui era stato diffuso un identikit. Poteva il suo Ted essere il responsabile di azioni così terribili?
Era stata Liz a denunciare il suo fidanzato, a un certo punto.  All’inizio i poliziotti nemmeno l’avevano presa sul serio, subissati com’erano dalle chiamate dei mitomani. Ma questo non le aveva permesso di affrancarsi del tutto da lui, nonostante i dubbi. Evidentemente la manipolazione nei suoi confronti era stata importante. Oppure pensare di avere vissuto per anni con un mostro era qualcosa di inaccettabile per qualunque psiche. Comunque Liz Kendall ci avrebbe messo anni a perdonarsi di non aver capito, di aver trascurato la figlia per lui, di avere ceduto all’alcol per via delle situazione che era diventata insostenibile.

Per contro, Ted teneva a Liz, a suo modo. Nonostante le storie parallele che intratteneva. Nonostante una volta (o forse più d’una) avesse cercato persino di ucciderla. 

Liz assomigliava per certi versi a sua madre Louise: era una donna minuta e fragile. In quella che Robert D. Hare chiama “affettività superficiale” degli psicopatici, Ted ci metteva di sicuro Liz e la sua famiglia d’origine.
Dopo Liz Ted sposò Carole Ann Boone, in modo plateale durante un processo in Florida, mentre Ted, avvocato di se stesso, la stava interrogando al banco dei testimoni. La Boone, descritta da Ann Rule tanto altera quanto riservata, era convinta dell’innocenza di Ted in modo radicato. Riuscì ad avere da lui persino una figlia, concepita clandestinamente in carcere. Lo chiamava Bunny, coniglietto. Era completamente cieca nei suoi confronti. Eppure nel 1986 lo lasciò. Se ne andò, senza clamori. Non si fece più vedere.



Senz’altro uno dei fattori che causò più problemi a Ted Bundy fu il suo enorme narcisismo, talmente grande che lo portò ad atti di autolesionismo inutili. 

Questo emerge molto bene nel documentario di Netflix.
A un certo punto i suoi avvocati difensori volevano patteggiare e ottenere il carcere a vita, a fronte di una dichiarazione di colpevolezza, per evitargli la pena di morte. Pareva che Bundy si fosse convinto, invece, con un colpo di teatro, ricusò gli avvocati e da quel momento iniziò a difendersi da solo. Con il suo anno scarso di studi di giurisprudenza, divenne l’avvocato di se stesso.
Contro interrogò i testimoni e qui, a detta del documentario di Netflix, indugiò in modo autocelebrativo su tutti i dettagli macabri (peraltro descritti da Ann Rule nel libro e in tutti i documentari) di cui evidentemente andava orgoglioso; così agendo, non si fece un favore.

Bundy era sempre favorevole a far parlare di sé. Era felice se i giornalisti lo notavano. Ci teneva a dare di se stesso un’immagine splendida, di uomo onesto, controllato. 

E' forse il narcisismo l'unica ragione per cui ha compiuto anche azioni meritevoli?
In aula era un vero istrione, un intrattenitore. Scherzava col giudice. Insomma, manipolava. I suoi processi erano eventi mediatici e lui ne era bene felice. Era persino convinto che lo avrebbero assolto.
Aveva un sacco di fan e donne che erano affascinate da lui, che assistevano ai suoi processi, che gli scrivevano in carcere.
Eppure certe scelte non erano state così intelligenti. Il suo identikit era stato diffuso dopo le sparizioni del 14 luglio al Lake Sammamish State Park. Quel giorno Bundy rapì e uccise due ragazze in poche ore, ma qualcuno lo notò, per come era vestito, e udì mentre si presentava come Ted. Insomma, non proprio un basso profilo.
E la scelta di rifugiarsi in Florida dopo l’evasione? La Florida, la “fibbia del braccio della morte”, uno degli stati più forcaioli d’America. Non fu una strategia vincente, ma alquanto stupida e forse supponente. Bundy si sentiva il più furbo, si credeva sopra le parti. E comunque, l’importante per lui era eccellere in qualcosa e farsi notare. Riuscì appieno nel suo intento e ciò gli costò la vita, a riprova che era lui “il peggior nemico di se stesso”. D'altronde era uno sconsiderato, benché a volte si deprimesse, raramente provava paura. (L'assenza di paura, come di empatia, è un altro tratto tipico della psicopatia).

Dunque Ted Bundy era intelligente o no? Di certo era pieno di contraddizioni. Era consapevole?

A livello giuridico lo era quanto bastava per essere incriminato per le sue orribili azioni: ricordava ciò che aveva fatto, aveva agito lucidamente. Non era uno psicotico, anche se una psicologa, prima che fosse giustiziato (era riuscito a fare rimandare l’appuntamento con la sedia elettrica per tre volte) gli aveva diagnosticato il disturbo bipolare, asserendo che commettesse gli omicidi in fase down.
Di sicuro c’era qualcosa di anormale nelle sue pulsioni, di cui lui stesso pareva rendersi conto, sebbene non capisse perché le avesse. Quelle fantasie, quelle compulsioni che doveva per forza soddisfare uccidendo, e che non si placavano mai.
Anche gli avvocati che avevano cercato di salvargli la pelle in extremis, gli ultimi che erano subentrati dopo che lui li aveva cacciati tutti, quelli che avevano meno preclusioni nei suoi confronti, erano rimasti impressionati quando quell’uomo dall’aria mansueta e dagli occhi limpidi si era incupito al punto da trasfigurarsi, mentre parlava. Ted Bundy sapeva fare paura, quando perdeva il controllo.



Ted Bundy aveva due effetti sulle persone: c’erano quelli che ne rimanevano incantati e quelli che restavano turbati dall’abisso nero del suo sguardo.

Bundy non espresse mai pentimento per le sue vittime. La sua mancanza di empatia, caratteristica del suo essere psicopatico, gli permetteva di infierire su donne innocenti senza alcuna pietà e di non provare mai rimorso. Soltanto verso la fine, quando iniziò a confessare gli omicidi (ma solo nel tentativo di salvarsi dalla sedia elettrica), sì mostrò dispiaciuto mentre asseriva di essere diventato così perché traviato dalla pornografia. Era l’ennesima manovra, per avere visibilità e apparire migliore; ad Ann Rule, anni prima, aveva scritto di non aver mai visto riviste pornografiche in gioventù. Quindi in un caso o nell’altro mentiva.
Manipolava gli altri, ma non riusciva a controllare se stesso. Le sue pulsioni prendevano sempre più spesso il sopravvento.

Verso la fine del libro Ann Rule, nella biografia, lo descrive così, in piena armonia con il pensiero di Hare sugli psicopatici.

Lo psicopatico non ha regole innate di comportamento cui ispirarsi, e somiglia al visitatore di un altro pianeta, che si sforza d’imitare le persone che incontra. […] Il soggetto è sempre molto intelligente e ha imparato da tempo le risposte giuste, i trucchi e le tecniche che compiaceranno le persone da cui vuole ottenere qualcosa. È furbo, calcolatore, acuto e pericoloso. Ed è senza speranza.
Ann Rule, Un estraneo al mio fianco
Nel libro di Hare vengono in effetti citate le parole di un altro psicopatico, Jack Abbott: «Ci sono emozioni, un intero spettro di emozioni, che conosco solo attraverso le parole, attraverso la lettura e la mia immaginazione immatura. Posso immaginare di provare queste emozioni (so, quindi, che cosa sono), ma non le provo. A trentasette anni sono appena un bambino precoce. Le mie passioni sono quelle di un bambino».
La personalità antisociale non rivela i disturbi del pensiero più facilmente individuabili: sono pochi i segni di ansia, fobia o di delirio. In pratica, si tratta di un robot emotivo che si è autoprogrammato per reagire nel modo che la società si aspetta. E poiché tale programmazione è spesso eseguita abilmente, tale personalità è assai difficile da smascherare. Ed è impossibile da curare.
Ann Rule, Un estraneo al mio fianco
Un estraneo al mio fianco di Ann Rule

Un estraneo al mio fianco

di Ann Rule
TEA
Biografia
ISBN 978-8850243884
Ebook 7,99€
Cartaceo 12,00€

Ma come si diventa psicopatici?

Ann Rule afferma una cosa che alcuni studiosi ritengono vera.
È quasi impossibile individuare il momento preciso in cui si manifestano per la prima volta i sentimenti antisociali, anche se la maggioranza degli esperti concorda nell’affermare che, in simili individui, lo sviluppo emotivo si è arrestato nella prima parte dell’infanzia, talvolta già a tre anni. In genere il blocco delle emozioni è causato da un bisogno d’amore o di accettazione non soddisfatto, dalla privazione e dall’umiliazione. Una volta che questo processo si è innescato, il bambino può crescere, ma non maturare emotivamente.
Ann Rule, Un estraneo al mio fianco
In effetti Ted Bundy era stato abbandonato alla nascita e poi cresciuto con un nonno che, nonostante lui lo mitizzasse, era un uomo razzista, antisemita, anticattolico, molto collerico con la famiglia e sadico verso gli animali.
Robert D. Hare non sembra sempre concorde su questo punto. Anche se afferma la necessità di diagnosi e cura precoci della psicopatia, in più punti del suo libro sembra propendere per cause genetiche della psicopatia stessa, riscontrabili in certe modificazioni cerebrali. (Forse Ted era geneticamente simile al nonno? mi domando). Il dibattito è ancora aperto.

Ciò che mi chiedo è se un serial killer, che è pure cosciente delle sue azioni, possa essere ritenuto del tutto colpevole. 

La sua mancanza di empatia e la sua carenza di sentimenti non sono colpa sua. Che uno ci nasca o che ci diventi nella prima infanzia, essere psicopatico è un handicap. Un handicap che però devasta tutti quelli che hanno a che fare con lui. Si può avere pietà di lui che non ne ha avuta di nessuno?
Ad Ann Rule Ted faceva pena, per certi versi.
Ted Bundy morì sulla sedia elettrica quando ormai era diventato un mito, nel bene e soprattutto nel male. Quando ormai era la caricatura di se stesso, quando in molti lo sfottevano, bramavano la sua morte, inventavano gadget, canzoncine e magliette che alludevano alla sua “frittura” elettrica. La sua esecuzione fu accolta con soddisfazione e celebrata da gran parte della popolazione della Florida.
Se fosse stato libero avrebbe continuato a uccidere.
Se fosse stato ricoverato in un istituto psichiatrico, sarebbe diventato un oggetto di studio d’eccellenza.

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Forse avrebbe provato a fuggire ancora. Di certo non sarebbe mai guarito.

Comunque la giuria della Florida aveva scelto per lui un destino diverso, quella giuria che lui stesso aveva selezionato, composta da molte donne di colore o ispaniche, religiose e timorose di Dio.
Eppure non tutti gioirono per la sua esecuzione. Non gioì sua madre, che fino all’ultimo non si capacitava dell’efferatezza di suo figlio. Non gioirono nemmeno le famiglie di alcune vittime, che anzi, entrate in contatto con Louise, accolsero e condivisero il suo dolore di donna a cui un figlio era stato strappato e ammazzato. E capirono che la pena di morte distrugge, inutilmente, anche la famiglia del colpevole.
Elena Genero Santoro

Elena Genero Santoro
Ama viaggiare e conoscere persone che vivono in altri Paesi. Lettrice feroce e onnivora, scrive da quando aveva quattordici anni.
Perché ne sono innamorata, Montag.
L’occasione di una vita, Lettere Animate.
Un errore di gioventù, PubMe - Collana Gli Scrittori della Porta Accanto (seconda edizione).
Gli Angeli del Bar di Fronte, Gli Scrittori della Porta Accanto Edizioni (seconda edizione).
Il tesoro dentro, PubMe - Collana Gli Scrittori della Porta Accanto Edizioni (terza edizione).
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Claire nella tempesta, Leucotea.


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