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Le recensioni di Elena Genero Santoro
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Recensione: L’altra faccia della Russia, di Stefano Tiozzo

Recensione: L’altra faccia della Russia, di Stefano Tiozzo

Recensione: L’altra faccia della Russia, di Stefano Tiozzo

Libri Recensione di Elena Genero Santoro. L’altra faccia della Russia di Stefano Tiozzo (TS - Terra Santa): dalla storia personale alla mentalità russa, dalla natura estrema ai problemi con la burocrazia. Un libro corposo, dettagliato, ben scritto, che tuttavia è talmente ricco di contenuti che non si può bere in poche ore.

Io e mio figlio siamo sempre stati attratti da posti come la Jacuzia, freddi, gelidi oltre misura. Quest’anno, durante le vacanze di Natale, in uno di quei giorni in cui non saremmo usciti da sotto il piumone, io e mio figlio, accoccolati vicini, abbiamo cercato su YouTube qualche documentario che ci mostrasse il luogo più gelido della terra mentre noi, al calduccio di una lenta giornata invernale, lo potessimo assaporare con distacco.
Ci siamo imbattuti nel Moscow Diaries di Stefano Tiozzo, un italiano, un dentista di Torino come noi, che dopo aver sposato Sati Kazanova, una cantante famosa in Russia quanto le Spice Girl da noi, si è trasferito a Mosca dove vive dal 2017.

Stefano Tiozzo, una volta in Russia, ha abbandonato la professione odontoiatrica e si è dedicato alla fotografia e ai documentari di viaggio.

Non si è limitato però a una serie di puntate su un canale YouTube. Stefano Tiozzo ha raccolto le sue memorie di viaggio anche in un libro: L’altra faccia della Russia, che copre un lasso di tempo tra il 2017 e il 2022, passando per il periodo della pandemia di Covid 19 che in Russia è stato vissuto in modo molto diverso rispetto a noi, in Europa, con meno restrizioni interne, ma con più blocchi per chi voleva uscire dai confini e recarsi in altri paesi. Questo ha dato modo a Stefano Tiozzo di esplorare, in quegli anni, parecchie zone della Russia, che si sono rivelate una diversa dalle altre.
Il libro di Stefano Tiozzo è corposo, sono quattrocentoventi pagine divise in quindici capitoli ognuno dei quali è talmente denso di informazioni che costituirebbe un libro già da solo.

Stefano Tiozzo spazia dalla sua storia personale alla mentalità russa, dalla natura estrema ai problemi con la burocrazia.

Non è la prima volta che leggo un saggio su un paese che presumibilmente non visiterò mai, per farmi un’idea della cultura del luogo.
Il libro di Tiozzo parla dei russi solo in una certa percentuale, molto riguarda le avventure di viaggio e anche la situazione politica e i rapporti con l’Ucraina.
Ne emerge, casomai ci fosse un dubbio, che la Russia è un paese terribilmente complicato e dall’impostazione imperiale, composto da popolazioni anche di cultura molto diversa.

Territorio immenso è composto da stati interni e da regioni con un regime governativo più autonomo, quello che resta della vecchia Unione Sovietica.

Semplificando in modo esagerato, in Italia abbiamo le regioni a statuto speciale, ma lì la faccenda è ancora più complessa.
La moglie di Tiozzo, nonostante il suo passaporto russo, è di origine caucasica, la sua lingua madre è il circasso, composto da tre vocali e quarantasette consonanti, talmente gutturale che o si impara nella primissima infanzia o in età adulta non si sarà mai in grado di pronunciarlo.
Il Caucaso è una regione relativamente piccola ma abitatissima da numerosi e diversi gruppi etnici, ognuno con la sua lingua e amico o rivale del popolo vicino.
Viene menzionato anche il ruolo della donna nella società russa, che è subalterno in un galateo univocamente accettato, ma in realtà lo è più nella forma che nella sostanza. Le donne russe, nei fatti, sono molto più indipendenti e tutelate di quelle europee quando si parla di stipendio e di diritti.
Poi ci sono altri stati dal territorio più ampio ma dalla cultura più omogenea e meno densamente popolati. Stefano Tiozzo li descrive con puntualità, dopo esserne venuto in contatto.

Vi sono poi i cenni storici, la questione in Crimea, quella in Ucraina.

Riassumerli sarebbe arduo, perché si tratta di una faccenda davvero ingarbugliata che affonda le radici nella notte dei tempi, dalla creazione dell’Ucraina in poi. Tuttavia, se si procede a ritroso nei secoli, ciò che Alessandro Orsini diceva in televisione nel 2022 mentre teneva una posizione che pareva sminuire l’attacco subito dal’Ucraina, stato sovrano, da parte di Putin, potrebbe acquisire un nuovo significato.

Stefano Tiozzo inizia il suo libro spiegando che "la Russia chiama".

Quelli che, come lui, si sono trasferiti lì, per varie vicissitudini della vita, sono stati richiamati, risucchiati dal destino, perché è la Russia che sceglie chi fare avvicinare a sé.
I russi amano la Russia come territorio, come una madre e non la tradirebbero mai.
I russi hanno una doppia anima europea e asiatica e, secondo l’autore, capiscono meglio l’Europa di quanto noi capiamo loro.
Per questo hanno una passione sfrenata per l’Italia e per gli artisti italiani. Tiozzo, in alcune situazioni di burocrazia critica se l’è cavata rispondendo alla domanda: canta ancora Celentano? Esistono addirittura dei cantanti italiani famosissimi in Russia e completamente sconosciuti in patria.

Il rovescio della medaglia è che i russi patiscono quando si sentono non capiti e discriminati in quanto russi.

Dopo l’attacco all’Ucraina in Europa e nel mondo si è attivata una russofobia che si è trasferta persino sugli atleti olimpionici.
Ma i russi, dopo l’inizio della guerra, si sono ripresi. Dopo le prime proteste, sono rimasti fedeli alla madre patria. Non a Putin, sottolinea Tiozzo, ma alla Russia stessa.
E anche Stefano Tiozzo, che nel febbraio 2022 si trovava all’estero, ha vissuto l’attacco all’Ucraina con dolore e disincanto. Nonostante tutto, una volta rientrato a casa, ha capito che non potrà mai smettere di amare il suo paese di adozione.
Un libro corposo, dettagliato, ben scritto, che tuttavia è talmente ricco di contenuti che non si può bere in poche ore.



L’altra faccia della Russia

di Stefano Tiozzo
TS - Terra Santa
Saggio
EAN 9791254710753
Cartaceo 18,05€
Ebook 12,99€

Quarta

«Era da molto tempo che avevo immaginato di raccontare la Russia dal di dentro, in tutte le sue mille sfumature e contraddizioni. Mi piace pensare che sia il momento più giusto – in senso morale – per farlo. Con la speranza che i miei racconti e la mia umile esperienza di viaggiatore e ricercatore umano possano essere un’arma non violenta contro la cecità e il razzismo che dominano l’attuale controverso rapporto tra questo immenso Paese e l’Occidente».

Dai Monti Altai alla Kamčatka, da Murmansk al Daghestan, da San Pietroburgo a Mosca fino alle tende dei nomadi Nenet.
Nell’avvincente varietà delle sue pagine questo libro si offre come autobiografia e reportage, cronaca di costume e racconto d’avventura. Dopo il successo di Moscow Diaries su YouTube – con oltre tre milioni di visualizzazioni – il celebre fotografo e blogger, che da anni vive in Russia, invita a prestare ascolto alla polifonica voce di un Paese dall’innegabile fascino e dalle molteplici antinomie.



Elena Genero Santoro
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Recensione: La città autistica, di Alberto Vanolo

Recensione: La città autistica, di Alberto Vanolo

Recensione: La città autistica, di Alberto Vanolo

Libri Recensione di Elena Genero Santoro. La città autistica di Alberto Vanolo (Einaudi). Un saggio breve che non impone soluzioni definitive ma propone sfide ai progettisti di oggi e domani, per ripensare spazi e ambienti accoglienti e stimolanti anche per persone neurodivergenti, dando vita a città che tengano conto anche della salute mentale e non solo dei vincoli fisici.

Quando alla facoltà di Ingegneria Edile del Politecnico di Torino seguivo i corsi di architettura e urbanistica, ci veniva spiegato che, per la gestione della disabilità, bisognava rispettare dei criteri progettuali, peraltro normati rigidamente dai regolamenti italiani, al pari delle norme antincendio con cui andavano a braccetto.
E così ci trovavamo a disegnare porte mai più strette di ottanta centimetri e bagni in cui una carrozzina potesse fare un giro completo. Il bagno largo con lavandino basso e la tazza alta era un obbligo nei locali pubblici e in certi tipi di alloggi, se di nuova progettazione o nel momento in cui venivano ristrutturati. Per strada non so se qualcuno di voi ha mai notato che a volte, sui marciapiedi, ci sono delle piastrelle rigate da grosse scanalature o con dei punti in rilievo: queste servono per gli ipovedenti e i non vedenti, che possono percorrere le strade della città con l’ausilio di un bastone. E che dire delle rampe dei raccordi delle discese dei marciapiedi? Ancora una volta la normativa prevede determinate pendenze e un numero massimo di centimetri di dislivello per le carrozzine.

In realtà, già quando studiavo, trovavo che fossero soluzioni più teoriche che pratiche.

Spesso, su quei marciapiedi, era difficile persino spingere un passeggino, figuriamoci se un paraplegico poteva percorrere le stesse strade in modo indipendente.
Le leggi esistono, ma i lavori non sempre sono realizzati a regola d’arte.
Tuttavia, queste misure a favore della disabilità, sacrosante peraltro, considerano solo un tipo di disabilità: quella fisica. La persona che non può camminare, la persona che non può vedere.
Non viene tenuto conto in nessun modo quanto un ambiente possa essere penalizzante per chi ha una neurodivergenza o una disabilità intellettiva.

Alberto Vanolo è un professore di geografia economico politica con un figlio di nove anni autistico.

Teo, il bambino, è un autistico di quelli che venivano non troppo tempo fa definiti "gravi", “a basso funzionamento”, oggi di “livello due o tre". Insomma, Teo è un bambino non autosufficiente, con comportamenti “strani“.
Alberto Vanolo, scrive La città autistica, parlando di autismo non dal punto di vista delle neuroscienze, a cui concede solo un breve excursus, ma da un punto di vista paterno e soprattutto geografico, spaziale e ambientale, attingendo alla propria formazione. Vanolo tocca diversi punti raccontando l’autismo, e se da un lato non ama particolarmente le definizioni, le etichette diagnostiche, anzi, abbraccia un approccio "queer", in cui la diversità dovrebbe essere il più possibile normalizzata, dall’altro offre alcuni spunti di riflessione su come ambiente e geografia potrebbero in effetti rendere la disabilità meno gravosa.

Approccio queer: la causa dell'inclusione delle neurodivergenze è accostata, per alcuni versi, a quella LGBTQI+.

Un mero inciso, che anche la disforia di genere è stata di recente inclusa nel grande insieme delle neurodivergenze, ne parlo nel mio precedente articolo.
L’autismo, dunque, non è qualcosa da curare, da guarire, da contenere, ma è un modo di essere che in certi ambienti può costituire un limite, mentre in altri ambienti assolutamente no.


Alberto Vanolo parte a raccontare delle "esplorazioni psico geografiche" o "passeggiate situazioniste" che compie con suo figlio Teo.

Vivendo in una città di una certa dimensione, gli stimoli per un autistico sono tanti, talvolta eccessivi, e possono costituire sia qualcosa di costruttivo, sia un vero disturbo. Vivere in una grande città per una persona autistica presenta pro e contro, ma l’isolamento della pacifica campagna non costituisce sempre la soluzione migliore. Vanolo ipotizza una città non voglio dire utopica, ma ristrutturata a beneficio delle persone autistiche. Magari progettata da persone neurodivergenti, che comprendano le necessità da un punto di vista interno, come sul Maremagnum di Barcellona architetti in carrozzina avevano progettato, negli anni Novanta, tutti i ponti in legno di raccordo in modo che le carrozzine potessero scorrere senza intoppi.

Le persone neurodivergenti sono molto sensibili ai sovraccarichi sensoriali.

Non tutte sensibili in equal modo agli stessi stimoli, ma mediamente infastidite. Troppe sollecitazioni uditive, olfattive, emotive possono portarli a un’overdose, che li conduce dritti a una fase di meltdown, una crisi in cui tutte queste emozioni e sensazioni causano una reazione fisica e psicologica scomposta. Quindi, sarebbe bello se nelle città fossero previste delle aree di "decompressione sensoriale" per le persone più sensibili, autistiche o meno. È uno è uno spunto che ha portato la mia mente di – un tempo aspirante urbanista – a sognare dei padiglioni delle costruzioni insonorizzate, a cui poter accedere per tirare il fiato. Non è detto che non gioverebbero persino ai neurotipici. E così, ciò che studiavo un quarto di secolo fa alla facoltà di Ingegneria Edile, troverebbe la sua estensione proprio con una città che tenga conto anche della salute mentale e non solo dei vincoli fisici. Sarebbe una meravigliosa evoluzione dell’attenzione verso la difficoltà che in fase progettuale si è iniziata a sentire qualche decennio addietro per chi stava in carrozzina.

Alberto Vanolo spiega che esistono anche dei locali pubblici in cui in certe fasce orarie vengono appositamente ridotti tutti gli stimoli sensoriali, rumori e luci, affinché, anche chi è più sensibile possa sentirsi a proprio agio.

La libertà di essere se stessi, quindi.
Come celiaca madre di due celiaci, sono pratica di locali inclusivi quando si parla di glutine. Luoghi in cui anche chi è diverso (nel nostro caso in senso alimentare) possa godersi un pasto, della compagnia, un’atmosfera piacevole, alla stessa stregua degli altri. Quindi capisco il bisogno di avere isole felici e ben vengano, anche se, da celiaca madre di celiaci, l’auspicio sarebbe una cultura inclusiva generalmente più diffusa. In un luogo in cui si tende al comfort per tutti quanti, i risvolti negativi di disabilità, diversità, modi di essere queer, vengono tutti attenuati.

A volte vedo la faccenda con pessimismo.

Viviamo in una società in cui i bambini, anche quelli “normali“, vengono percepiti con molto fastidio. Mi è capitato numerosissime volte di leggere interi dibattiti sui social con contro i bambini al supermercato, contro i bambini che piangono sugli aerei, contro i bambini al ristorante. E se da un canto esistono i locali child-free, proprio per quegli adulti che per una sera non vogliono essere disturbati dal pianto di un moccioso capriccioso, ci sono situazioni, come i voli intercontinentali, o come la spesa del sabato pomeriggio, in cui un bambino che frigna non si può semplicemente cancellare dalla faccia della Terra. C’è un’intolleranza diffusa verso l’infanzia, una condanna verso i genitori che non educano. E se da un canto è vero che vedere un bambino in età scolare, scorrazzare per il ristorante, scontrandosi coi camerieri, non depone a favore delle capacità educative moderne, è anche vero che il pianto di un bambino molto piccolo non si può stoppare a comando, e che un bambino anche in età più grande, può avere degli atteggiamenti molesti se è autistico. Peraltro, per onestà intellettuale, va detto che molti degli adulti "intolleranti" verso un infante che urla potrebbero a loro volta essere neurodivergenti e infastiditi da pianti e urla.

Alberto Vanolo si pone il problema, soprattutto quando il figlio Teo mostra una propensione per l’approccio fisico e desidererebbe toccare tutte le donne che vede.

Su questo punto Vanolo spiega che ha dovuto contenere suo figlio, perché se lui è autistico ciò non significa che ogni ragazza sia disponibile a essere molestata da lui. Ma per tutte le altre circostanze, stranezze, modi di parlare esprimersi, stimming (movimenti ripetuti che fungono da sfogo per un autistico), crisi, Manolo non intende mettere un freno a suo figlio. Intanto non sarebbe giusto, e poi sarebbe persino controproducente. Certo, se a fronte di un comportamento socialmente disturbante, quando il genitore si giustifica (“chiedo scusa, mio figlio è autistico“), il disgustato spettatore non potrà più prendersela con la mancanza di educazione e scuoterà le spalle con un’espressione compassionevole. Ma è proprio questo il punto.

La vera inclusione si avrà quando le "stranezze" di un autistico saranno normalizzate, saranno accettate come un diverso e rispettabile modo di esistere e di sentire.

Non è questione di voler romanticizzare la neurodivergenza, è la necessità di doverci interfacciare civilmente tutti noi su questo pianeta.
Alberto Vanolo, nel suo breve saggio La città autistica, lancia alcuni ami. Propone alcune sfide. Non impone soluzioni definitive. Starà ai progettisti di oggi e di domani ripensare a spazi e ambienti accoglienti e confortevoli e stimolanti anche per chi non ha le parole giuste né le capacità pratiche per chiederlo.


La città autistica

di Alberto Vanolo
Einaudi
Saggio breve
EAN 9788806261108
Cartaceo 12,35€
Usato 7,15€
Ebook 4,99€

Quarta

Alberto Vanolo offre una serie di proposte provocatorie per la città autistica, una sorta di manifesto con principî generali per immaginare realtà urbane più semplici e sostenibili, non solo per chi vive una condizione di neurodivergenza.
Che cos'è una città «autistica»? È uno spazio per immaginare e sperimentare modi diversi di intendere le diversità, incluse quelle neurologiche, anche al di là del linguaggio delle categorie, delle diagnosi e delle disabilità. Il mondo ha bisogno di città del genere: «autistico» non va inteso in senso peggiorativo e la condizione di neurodiversità può offrire molto per progettare città più vivibili e aperte. Costruire realtà urbane migliori significa anche sovvertire le categorie morali e i linguaggi comunemente associati all'autismo.



Elena Genero Santoro
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Recensione: L’orribile karma della formica, di David Safier

Recensione: L’orribile karma della formica, di David Safier



Libri Recensione di Elena Genero Santoro. L’orribile karma della formica di David Safier ( Sperling & Kupfer). Un romanzo umoristico da oltre un milione di copie con un buon ritmo, godibile, anche se ricade in alcuni stereotipi sulle donne.

L’orribile karma della formica di David Safier pare aver venduto oltre un milione di copie con il passa parola, stando all'indicazione riportata sulla cover. Anche negli store online è recensito molto bene e sulla quarta di copertina è definito un romanzo divertentissimo.

L’orribile karma della formica di David Safier ha degli indubbi pregi: mantiene sempre un buon ritmo, è ironico, le situazioni sono arricchite da trovate esilaranti.

La storia, ambientata in Germania, è quella di Kim Lange, famoso volto televisivo della TV tedesca che subito dopo aver vinto un prestigioso riconoscimento per la sua carriera, muore colpita da un detrito spaziale mentre si trovava sul tetto di un palazzo. Quando Kim, avvolta da una luce e dalla promessa di eterna pace pace, suppone di essere pronta per arrivare al Nirvana, si ritrova reincarnata in una formica. Buddha in persona, sotto le sembianze di una formica particolarmente grassa, le spiega che si è reincarnata in un punto molto basso della catena evolutiva e che per meritare il Nirvana a cui aspira dovrà compiere azioni positive.
Kim infatti non è stata una buona moglie: poco prima di morire ha tradito il marito Alex, che già trascurava, con il collega Daniel Kohn. Per la figlia di cinque anni Lilly non è stata una madre esemplare in quanto alla maternità ha sempre preferito la carriera.
In tutta sincerità, questo è stato l’aspetto del libro che più mi ha infastidita.

Il romanzo è scritto da un uomo che ha scelto una madre lavoratrice come espediente per rappresentare una donna che non merita il paradiso o quello che è.

Ed è pur vero che fin da subito Kim pare essere molto coinvolta dal suo lavoro e dalle sue ambizioni personali più che dalla cura domestica, tuttavia per rappresentare una pessima madre avrei preferito una mantenuta che si laccava le unghie tutto il giorno. Lo stereotipo della donna-che-non-è-una-buona-madre in quanto in carriera per me è stato particolarmente indigesto. L'angelo del focolare mancato mi ha dato fastidio. Avere ambizioni non dovrebbe essere un peccato per una donna. Anzi, conciliare entrambe le cose è qualcosa di talvolta sovrumano, ma alle donne si richiede di lavorare come se non si avessero figli e di essere madri come se non si lavorasse.

Ciò non di meno, come dicevo, il libro ha un buon ritmo, è coinvolgente e si beve in poche ore.

Kim, ora formica, inizia una serie di avventure rocambolesche. Conosce una formica che si scopre essere Casanova, quel Giacomo Girolamo vissuto nel Settecento e famoso per le sue numerose avventure sentimentali. Dal giorno della sua morte, il 4 giugno 1798, è sempre rimasto una formica reincarnata, non ha avuto nessuna evoluzione spirituale, non ha mai avanzato nella catena meritocratica dell'Aldilà. Kim e Casanova diventano amici e vivranno delle storie tragicomiche. Moriranno e si reincarneranno più volte; in una di queste saranno porcellini d’India ed entreranno in contatto proprio con Lilly.
Un inciso da amante viscerale dei piccoli roditori: il libro ritrae i porcellini d’India come bestiaole dolci e ingenue quali effettivamente sono. Chi mi conosce immaginerà quanto io sia stata in ansia mentre Kime era diventata una di loro. Sono felice che i porcellini d’India co-protagonisti della sottotrama abbiano avuto tutti un lieto fine.

Nei vari step karmici, Kim subirà una trasformazione interiore e morale, avanzerà come mammifero, arretrerà come dorifora delle patate, ma anche Casanova subirà le sue trasformazioni, e senza fare troppo spoiler posso dire che per entrambi ci sarà un lieto fine.

Tuttavia Kim pagherà un prezzo: perderà la sua avvenenza originale, perché una donna amabile non può essere anche una donna affascinante. E qui torniamo agli stereotipi indigesti che mi sono andati per traverso.
Pocanzi ho definito queste avventure "tragicomiche" perché, benché il romanzo abbia parti esilaranti e in alcuni punti faccia ridere per davvero, ci sono comunque delle venature di tristezza da cui non si può prescindere. In fondo si parla di morte, non tanto con l'ansia di ciò che ci sarà dopo, ma con il dramma della separazione. Si parla anche di incomunicabilità. Kim reincarnata vedrà suo marito risposarsi con Nina, sua ex amica di gioventù, che a suo tempo era già invaghita di Alex. Qualche anno prima Alex aveva dovuto scegliere tra Kim e Nina e aveva scelto Kim. Ma ora Kim non c'è più...

L’orribile karma della formica in alcuni tratti mi ha ricordato persino Amabili resti di Alice Sebold.

Il contesto è completamente diverso, qui abbiamo morti grottesche, al limite dell’assurdo; in Amabili resti c’era uno stupratore killer di ragazzine, niente a che vedere. Eppure in Amabili resti quando la protagonista si reincarna per un certo lasso di tempo, non riesce a comunicare con la sua famiglia. Il contatto tra vivi e morti rimane parziale e sospeso. Allo stesso modo quando Kim reincarnata si avvicina alla sua famiglia non riesce e non può avere un vero dialogo con loro. È lì, a pochi passi, o tra le loro braccia, ma non può manifestarsi in quanto Kim, non è nelle condizioni di spiegare chi è. La sua presenza è solo intuita, percepita dagli altri personaggi ma rimane quasi una suggestione. Questo senso di incompiutezza e di sospensione si porta avanti per molte pagine ed è anche ciò che tiene incollato il lettore. Kim avrà la sua rinascita, soprattutto spirituale. Capirà che nulla al mondo vale più dell’amore, come era facilmente intuibile.
Un libro godibile, carino assolutamente consigliato.


L’orribile karma della formica

di David Safier
Sperling & Kupfer
Narrativa | Umoristico
EAN 9788868360344
Cartaceo 9,85€
Usato 6,60€
Ebook 4,99€

Quarta

Kim Lange sa benissimo di essere un'arrivista disposta, per la carriera, a sacrificare tutto, marito e figlia compresi. D'altra parte, così facendo, è arrivata a condurre il più noto talk-show televisivo di Berlino ed è all'apice del successo. Ma il destino è sempre in agguato, ed ecco che un assurdo incidente pone fine alla sua vita. O no? Kim non si sta divertendo per niente: ha preso una gran botta in testa e le sembra di sprofondare in un immenso buco nero. Quando riemerge dal blackout, si sente strana, il suo corpo non è quello di sempre, ha una testa gigantesca... un addome assurdo... sei gambe... Orrore! È diventata una formica! La sua vita mal spesa deve essere espiata, e questa è la punizione. Per di più, con i suoi nuovi occhietti da insetto, finisce nel giardino della sua ex casa, dove assiste impotente alle manovre della ex migliore amica che gira attorno, smorfiosa, al suo ex marito. Ora, per la ex Kim, c'è un solo modo per correre ai ripari: rimontare al più presto nella scala delle reincarnazioni per tentare la difficile risalita da insetto a essere umano. Ma la strada purtroppo è lunga, e non c'è più molto tempo. Attraverso quante altre orribili forme animali dovrà passare? Molte: da porcellino d'India a verme, da scoiattolo a vitello, fino a rinascere in una docile cagnetta, e in ciascuna di queste reincarnazioni verrà messa alla prova per dimostrare che il suo sciagurato cattivo carattere è cambiato.



Elena Genero Santoro
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Recensione: Terminale, di Claudio Secci

Recensione: Terminale, di Claudio Secci

Recensione: Terminale, di Claudio Secci

Libri Recensione di Elena Genero Santoro. Terminale di Claudio Secci (Delos Digital – Collana Odissea. Narrativa). Un thriller ambientato all'aeroporto di Monaco dal ritmo incalzante, pieno di colpi di scena, senza un solo calo di tensione.

Chi pratica scrittura creativa sa che a volte bastano un dettaglio, un’inquadratura, una persona vestita in modo originale incontrata per strada, qualunque minuzia che possa attirare l’attenzione di una mente fantasiosa per accendere la scintilla dell’ispirazione e dare origine a una storia anche complessa.
A Claudio Secci questa scintilla si è accesa osservando un inserviente, una di quelle persone intente a fare il loro lavoro, che nella maggior parte delle occasioni passano inosservate.

Cosa si cela dietro al grembiule di un uomo che pulisce un pavimento? È nato così Terminale, un thriller dal ritmo incalzante, pieno di colpi di scena, senza un solo calo di tensione.

Il terminale che dà il titolo al libro è quello dell’aeroporto di Monaco in Germania. Lì lavora Chad, un uomo immigrato dal Camerun che, nella speranza di dare una vita migliore alla moglie Randa, alla figlia Shema e al figlio Kofi si è indebitato con la criminalità locale per trasferirsi in Europa.
Chad trascorre una vita nella routine, pulendo i gabinetti dell’aeroporto senza riuscire a vedere il giorno in cui salderà il suo debito. A un certo punto però, la sua esistenza si complica su due piani diversi.

Da un canto c’è la sua famiglia in Africa, che può contattare solo attraverso cellulari malfunzionanti e batterie scariche.

La figlia soffre la fame, il figlio è entrato in un giro di criminalità. Chad chiede l’aiuto di suo fratello Paki, con cui non è in buoni rapporti, per sottrarre la moglie e la figlia a quella condizione disagevole e portarle al sicuro.
Trascorrerà molte pagine del romanzo a crogiolarsi nell’angoscia, spettatore impotente di una situazione di fuga in cui dovrà, volente o nolente, dare fiducia a un fratello di cui non si fida del tutto. Chi sono gli amici? Chi sono i nemici?

E poi c’è la vicenda di Monaco, che Chad vivrà in prima persona.

Tanti anni, fa durante la mia infanzia, leggevo un settimanale per ragazzi dal titolo Il Giornalino. Vi era, tra le altre cose, una riduzione a fumetti di I delitti di Padre Brown, i racconti gialli scritti da Gilbert Keith Chesterton tra il 1911 e il 1935 che hanno come protagonista un prete investigatore, Padre Brown. Mi rimase impresso un episodio in cui padre Brown durante le sue indagini chiedeva: “Chi c’era in casa?” E gli veniva risposto più volte: “Nessuno”.
In realtà, in casa c’era la servitù. Padre Brown faceva notare che figure umili come il maggiordomo o il cuoco vengono percepite più come arredamento che come persone vere e proprie con occhi e orecchie. Il romanzo di Claudio Secci mi ha riportato a quel fumetto, a quella considerazione. Chad è uno di quegli invisibili, di quegli ultimi, un addetto alle pulizie, uno che nessuno nota in quanto persona, che appunto fa parte dell’arredamento di un aeroporto. Eppure di cose ne vede ne sente a iosa al punto che Chad si accorge che nei bagni che pulisce sono in atto dei traffici strani. Intuisce che c’è qualcosa di losco e verrà risucchiato in un affare molto più grosso di lui. Chi sono gli amici? Chi sono i nemici?

Claudio Secci è un ottimo scrittore di thriller.

Tra le sue pagine l’ansia non cala mai ma, come ho già affermato in altre occasioni raccontando i suoi libri, il suo talento imprescindibile è la sua estrema capacità di immedesimarsi in personaggi improbabili e molto lontani da lui. Lo faceva già ai tempi di A piedi nudi, in cui diventava l’adolescente problematica Gisèle. Ora, con enorme sensibilità, Claudio Secci diventa Chad, un immigrato nero, e attraverso i suoi occhi ci farà vivere non solo un’avventura mozzafiato, ma anche la quotidianità di un eroe che nessuno si aspetterebbe. Gli aeroporti sono senz’altro luoghi affascinanti, che pullulano di vita, ma un addetto delle pulizie deve vederne davvero di tutti i colori. Tra quei lavandini e dietro le porte dei bagni passa un’umanità variegata, talvolta stramba, talvolta sopra le righe, che Chad racconta dal suo inusuale punto di vista. Un libro che gli amanti del genere devono assolutamente leggere. Finale shock.


Terminale

di Claudio Secci
Delos Digital | Odissea. Narrativa
Thriller
ISBN 978-8825431865
Cartaceo 16,15€
Ebook 4,99€

Quarta

Attenti a farvi coinvolgere in affari sporchi, soprattutto quando sono più grandi di voi... Chad è costretto a lasciare il suo paese, il Camerun, per cercare di offrire una vita più dignitosa alla sua famiglia. Quando trova un impiego a Monaco di Baviera, le cose sembrano finalmente girare per il verso giusto. Ma, a un tratto, la situazione precipita. Nell'aeroporto in cui è addetto alle pulizie, una guardia giurata corrotta e un mercenario usano le toilette per affari loschi. Chad è coinvolto suo malgrado in un intrigo che sembra senza via d'uscita. Riuscirà a tornare dalla sua famiglia?



Elena Genero Santoro
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Recensione: Potevo essere io, di Roberta Roncone

Recensione: Potevo essere io, di Roberta Roncone

Recensione: Potevo essere io, di Roberta Roncone

Libri Recensione di Elena Genero Santoro. Potevo essere io – 10 regole per salvarci la vita: il primo manuale per riconoscere e difendersi dalla violenza di genere di Roberta Roncone (Independently published). Un decalogo di regole, tutte introdotte da testimonianze di abusi che sono stilettate nello stomaco, con l’intento di rendere consapevoli le future vittime di ciò che non va nella loro relazione, in modo che ne possano prendere le distanze.

I doveri della sposa:
  • Voler bene al marito
  • Rispettarlo come capo
  • Obbidirlo come nostro superiore
  • Assisterlo con premura
  • Ammonirlo con reverenza
  • Rispondergli con grande mansuetudine
  • Tacere quando è alterato
  • Pregare per esso il signore
  • Sopportare i difetti
  • Schivare la familiarità con altri uomini
  • Non consumare la roba in vanità
  • Essere sottomessa alla madre dei mariti ed ai suoi vecchi
  • Umile e paziente con le cognate
  • Prudente con quelli della famiglia
  • Amante della casa
  • Riservata nei discorsi
  • Osservatrice dei doveri religiosi.
Questo elenco, tratto da un manifesto ecclesiastico del 1895, elenca i doveri delle buone spose. Gira su Internet da tempo.
Meno noto ai più è che esiste anche un analogo elenco per gli sposi, che vengono invitati a essere pazienti e a “non dimenticarsi della moglie e dei figli quando sono fuori casa” (il che è già di più di quello che certi mariti fanno nella realtà), ma questo sempre sottolineando che l’uomo è il capo e il padrone, mentre la donna deve rimanere defilata a ubbidire sorridendo.
Roba superata?
Non del tutto.

Il Nuovo Diritto di Famiglia, che mette i coniugi sullo stesso piano, ha la mia età, è del 1975.

Mia madre, nel '71, si è ancora sposata come figura subalterna, legalmente parlando.
Nonostante questo, dopo cinquant’anni abbiamo ancora, volenti o nolenti, degli imprinting da cui non ci liberiamo.
Il primo è che l’uomo e la donna ricoprono ruoli ben definiti: lui lavora, lei sforna figli e li alleva. E poi magari ha un impiego anche lei, ma la priorità è essere l’angelo del focolare, il riferimento per la prole. Su questo punto la civiltà ci sta lavorando. Siamo ancora lontani, ma la strada è tracciata.
Il secondo imprinting è la sacralità del matrimonio, o comunque della relazione. Quella istituzione che in passato non aveva nemmeno le ragioni dell’innamoramento, ma solo quelle economiche e sociali, e che in Italia è stato possibile sciogliere solo dal 1975 col divorzio, aveva la priorità sulla felicità individuale.

Mia nonna, le sporadiche volte in cui mia madre ha litigato con mio padre, anziché difenderla o anche solo lasciarla sfogare, la riprendeva affinché mettesse da parte l’orgoglio e non mandasse a monte il matrimonio.

Ora, posso dire che tra i miei genitori non è mai successo nulla di così grave, ma il presupposto di mia nonna è degno di nota. Approccio che spesse volte è stato replicato da mia madre verso di me quando ho espresso rimostranze verso il mio attuale marito. Il leitmotiv è sempre che per tenere in piedi la sacra unione, bisogna sacrificarsi, bisogna soffrire, bisogna fare dei passi indietro, a prescindere. E se da un canto è giusto impegnarsi per la propria relazione come progetto comune e scelta di vita, bisogna ricordarsi che compiacere il partner non è la priorità.
Il terzo imprinting che ci portiamo dietro dalla storia è l’assoluta ignoranza delle numerose personalità (folli) in cui possiamo imbatterci.
Un marito può, ipoteticamente, anche essere, per definizione, il “capo” del suo nucleo, comandare, decidere le sorti della famiglia. Ma chi garantisce che sia davvero in grado di farlo, o che non sia un balordo o un cretino? Chi lo certifica? In passato, il diritto divino.
Un po’ come quando nelle aziende vengono tenuti dei corsi per migliorare l’interazione tra colleghi, senza tenere conto che ci possono essere personalità abnormi per le quali le ordinarie strategie di captatio benevolentiae e di gestione dei conflitti non avranno mai successo.

Con queste zavorre che ci trasciniamo dietro dai secoli scorsi, eccoci nel presente, a dover gestire relazioni e azioni che oggi vengono – in parte – riconosciute come abusanti, violente, non consensuali.

Eppure, fino a qualche decennio fa – nel 1981 valeva il delitto d’onore – erano semplicemente la norma, con poche eccezioni. Tipo che una donna era tenuta a concedersi al marito anche se non ne aveva voglia. Che il sesso nel matrimonio era un dovere. Che lo stupro era un delitto contro l’onore e che la donna disonorata veniva riabilitata sposando il violentatore.

Oggi iniziamo a chiamare le cose con il loro nome (abusi e violenze), ma non sappiamo come riconoscerle né come affrontarle.

A volte non lo sanno neanche i terapeuti: non tutti sono in grado di distinguere gli abusi, non tutti mettono su piani diversi abusante e vittima.
Non lo sanno fare neppure i giornalisti, che continuano a confondere abusante e vittima: la vittima ha subito violenza, però aveva bevuto, però era vestita succinta, però lo aveva lasciato.
Allo stesso modo fino a qualche decennio fa era giudicato normale lo squilibrio di potere economico e sociale tra coniugi, che apre la porta agli abusi successivi.

E allora ben venga il libro di Roberta Roncone, Potevo essere io, che segue la creazione di un’omonima pagina di Instagram che raccoglie le testimonianze di vittime di abusi e di violenza di genere.

Le vittime che scrivono sono in maggioranza donne, e perché le donne sono più disposte a raccontarsi, e perché numericamente più colpite, ma la violenza di genere è un concetto più ampio. La violenza di genere è la violenza causata dal genere o dal sesso di una persona, ma può essere anche rivolta agli uomini.
In un mondo in cui la parola “narcisista” è ormai usata a sproposito, Roberta Roncone vuole evitare etichette e non si addentra nell’analisi delle personalità abusanti. “Si dice il peccato, non il peccatore” e infatti l’autrice sceglie di descrivere i comportamenti abusanti senza dare spazio alle motivazioni di chi li mette in opera. Che comunque non potrebbero costituire delle giustificazioni.

Roberta Roncone scrive un decalogo di regole, tutte introdotte da testimonianze di abusi che sono stilettate nello stomaco, con l’intento di rendere consapevoli le future vittime di ciò che non va nella loro relazione, in modo che ne possano prendere le distanze.

Infatti il primo passo è la consapevolezza. È il riconoscimento che c’è un meccanismo sbagliato alla base. Che situazioni che siamo abituati a ritenere normali, perché in passato erano considerate tali, non lo sono affatto.
Come la gelosia, per esempio. C’è un retaggio culturale che ci fa credere che una certa dose di gelosia sia espressione di amore. In realtà nell’amore la gelosia non dovrebbe essere contemplata, in quanto si suppone che la fiducia non la renda necessaria e poi sarebbe difficile stabilire un confine, una misura di fin dove si possa spingere la cosiddetta gelosia "sana".
Avevo una conoscente che il marito obbligava a chiamare casa dal telefono dell’ufficio prima di lasciare la sede per rientrare la sera. Lui poi prendeva i tempi che lei ci metteva per tornare, nel dubbio che potesse fare deviazioni non consone. Lei lo difendeva: «Fa così perché mi ama, perché è protettivo». A noi altri questo marito pareva solo ossessivo. Ma lei ci teneva un sacco a contornare la sua immagine con un’aura di perfezione. Poi il matrimonio è naufragato molto male, indovinate un po’?, per un problema di fiducia.

Roberta Roncone spera che le vittime aprano li occhi, acquisiscano consapevolezza e imparino a difendersi.

Il suo intento non è colpevolizzare le vittime: non lo fa mai, anzi le accoglie tutte a braccia aperte. Ma vuole dare loro una chiave di lettura per identificare ciò che non funziona e salvarsi da sole fintanto che la società non evolve.
Non è mai colpa della vittima, ma ci vuole capacità di discernimento per mettersi al sicuro. La regola numero uno è quella di fidarsi del proprio intuito. Se già da subito ci sono aspetti che non quadrano, non bisogna ignorarli. Non bisogna convincersi che vada tutto bene. Non bisogna farsi piacere una persona per forza anche se gli altri ci dicono che è in gamba, ha un buon lavoro e che insieme saremmo una bellissima coppia.

Anni fa, all’uscita da una relazione abusante, mentre raccoglievo i cocci della mia vita, comprai un libro per non incappare negli errori commessi in precedenza.

Era una specie di manuale su come trovare l’anima gemella e all’epoca non parlava né di narcisismo né di abusi. Diceva una cosa molto basilare e assolutamente vera: l’innamoramento è una fase bellissima, ma se vogliamo stare con una persona a lungo dobbiamo avere noi per primi in testa una lista di requisiti inderogabili e non negoziabili che il partner deve avere. Quali siano i requisiti inderogabili lo stabiliamo noi; io di default ci metterei il rispetto. Se per esempio soffro di asma e incontro una persona che fuma due pacchetti al giorno anche in casa e non intende smettere, presumibilmente insieme non faremo molta strada. Idem se incontro uno che ama i rettili tanto da avere una teca in ogni stanza e mettersi un pitone nel letto mentre io detesto i serpenti. L’amore vince su tutto? Secondo quel libro no. Alla lunga ci si logorerebbe sulle questioni su cui non è possibile raggiungere un compromesso. Il consiglio era di uscire, conoscersi per alcune occasioni e chiudere molto in fretta appena si riscontrano montagne insormontabili. È un metodo freddo, calcolato, che non tiene conto del sentimento? Può essere, ma non poi così sbagliato, perché in primis induce a non fingere di essere diversi da come si è e da avere rispetto per se stessi.

Il libro di Roncone in realtà pone l’accento su altri dettagli, ma in comune col manuale letto nei primi Duemila c’è un consiglio fondamentale: bisogna ascoltare e ascoltarsi.

E poi, in Potevo essere io grossa parte è dedicata all’analisi di tutti i meccanismi di violenza psicologica, che è quella largamente più diffusa. Perché non tutti i partner violenti arrivano all’omicidio, allo stupro o ad alzare le mani. Qualcuno non lo farà mai e si scandalizzerà all’ennesimo Turetta salito alla ribalta della cronaca. Il che non significa che non possa rendere la nostra vita un inferno.

La violenza psicologica si manifesta con critiche continue, con la demolizione sistematica della nostra figura, magari mascherata da consigli, da premura.

«Lo dico perché ti voglio bene, per aiutarti a migliorare.» Non è vero: l’unico scopo è la demolizione dell’autostima della vittima, per averne il controllo e il potere.
Il mio abusante mi disse: «Cerca pure un lavoro, se ti va, ma la responsabilità dello stipendio è dell’uomo». Lo disse col fare paternalistico di quello che vuole essere rassicurante e protettivo. Negli anni compresi che dietro si celava ben altro. Il controllo economico è violenza. L’amore su condizione è violenza.

Roncone descrive le fasi iniziali di una relazione non sana, il love bombing, la passione sfrenata, quando tutto è troppo bello per essere vero.

Infatti non è vero. Il love bombing sostituito da silenzi punitivi, critiche continue, pressioni, rinforzo intermittente. Ci sono persone che non sanno amare, ma vogliono il nostro amore per nutrirsene. Che in base a quello che dicono sembra che ci detestino: «Perché non metti mai la gonna?», «Perché non tagli i capelli?», «Perché devi uscire sempre con la tua amica?», «Perché sei sempre così permalosa?», «Perché non prendi una laurea?», «Perché non stiri le mie camicie?».
E noi a domandarci: «Perché sta con me se sembra che di me non gli vada bene niente? Forse perché in fondo mi ama, anche se ho dei difetti».
La notizia è: non sembra che ci odino. Ci odiano per davvero. Non stanno con noi perché ci amano, ma per esercitare il loro potere. Quello che un tempo agli uomini veniva riconosciuto senza discussione.

Ma c’è anche una buona notizia: i centri antiviolenza esistono. I gruppi di ascolto anche. Roncone ne parla a lungo nell’ultimo capitolo.

Ed esistono anche persone abusanti, in maggioranza uomini, che prendono coscienza di aver seguito dinamiche sbagliate.
Nel ringraziare Roberta Roncone per il grande lavoro svolto, invito tutti a leggere il suo libro Potevo essere io. C’è speranza.



Potevo essere io
10 regole per salvarci la vita: il primo manuale per riconoscere e difendersi dalla violenza di genere

di Roberta Roncone
Independently published
Manuale
ISBN 979-8310551602
Copertina flessibile | 263 pag.
cartaceo 12,99€
ebook 8,99€

Quarta

In un mondo in cui la violenza di genere è una realtà silenziosa e devastante, questo libro rappresenta un faro di speranza di resistenza. L'autrice, attraverso la sua esperienza personale e il progetto Instagram @potevo_essere_io, offre un manuale pratico e incisivo, composto da dieci regole fondamentali per riconoscere e affrontare la violenza.
Ogni regola è un atto d'amore, pensato per fornire strumenti concreti a chi si trova in situazioni di rischio o vulnerabilità. Non si tratta solo di sopravvivere, ma di trasformare il dolore in forza e in consapevolezza.
Questo libro non è solo per chi ha vissuto esperienze traumatiche, ma anche per chi desidera prevenire tali situazioni, contribuendo a creare una società più giusta e sicura.
Leggendo "POTEVO ESSERE IO - 10 regole per salvarci la vita", scoprirete come alzare la voce contro l'ingiustizia, come proteggervi e come unirvi ad una comunità di sostegno. E' un invito a non rimanere in silenzio, a riconoscere il proprio valore e a lottare per una vita libera dalla paura.
Un'opera necessaria per tutte le donne, gli uomini e le generazioni future che meritano di vivere in un mondo senza violenza.


Elena Genero Santoro
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Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Cinema Di Elena Genero Santoro. Dove osano le cicogne e Joy, due film sulla fecondazione assistita disponibili su Netflix: una commedia sulla maternità surrogata e un biopic sulla sperimentazione pionieristica che ha portato alla prima bambina concepita in vitro.

Angelo Pintus e la moglie Michela hanno penato a lungo per mettere al mondo il figlio Rafael con l’aiuto della fecondazione assistita. Da questa esperienza complessa e impegnativa, senz’altro dolorosa anche se conclusasi con un lieto fine, è nato il film Dove osano le cicognedisponibile in abbonamento su Netflix – in cui Angelo Pintus, che non si è neppure cambiato il nome, porta in scena una storia di procreazione difficile. Lui e la moglie "fittizia" Marta non riescono a concepire per vie naturali, in parte per l’età, ma soprattutto perché lei soffre di una forma invasiva di endometriosi. Così, consigliati dall’amico Andrea, si rivolgono a una clinica privata spagnola dove viene proposta loro la maternità surrogata.

Dove osano le cicogne
Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Dove osano le cicogne

REGIA Fausto Brizzi
SCENEGGIATURA Gianluca Belardi, Fausto Brizzi, Herbert Simone Paragnani, Angelo Pintus
PRODUZIONE | PRODUTTORE PiperFilm, Lovit, Netflix Studios, Tramp Ltd.
DISTRIBUZIONE PiperFilm
MUSICHE Andrea Bonini
FOTOGRAFIA Marcello Montarsi
ANNO 2025
CAST Angelo Pintus, Marta Zoboli, Beatrice Arnera, Andrea Perroni, Tullio Solenghi, Maria Amelia Monti, Imma Piro, Antonio Catania


C’è una volontaria, Luz, che, pur di trasferirsi in Italia, metterà al mondo, “in forma gratuita”, l’embrione concepito in vitro e biologicamente figlio di Angelo e Marta.

Pur sapendo di violare la legge (la maternità surrogata in Italia è un reato universale), Angelo e Marta accettano. Il concepimento va a buon fine e la coppia torna a casa portandosi dietro Luz. Da quel momento Angelo e Marta devono mettere in atto mille strategie per garantire il parto senza destare sospetti; fingono la gravidanza di Marta comprando protesi di silicone, mentono a tutti, anche al padre di Marta, un carabiniere in pensione sospettoso e pignolo che ricorda Robert De Niro quando si accanisce con Ben Stiller in Ti presento i miei.

La commedia ha un ritmo serrato, tante gag e un tono leggero.

Si ride molto mentre un paio di concetti traspaiono in controluce: avere un figlio per vie non naturali (e in questo caso pure illegali) è un affare costosissimo, infatti i Pintus iniziano a tirare fuori migliaia di euro da quando Luz sale in aereo e pretende la prima classe e continuano fino a corrompere la Doula (Maria Amelia Monti) incaricata di seguire il parto.
E poi, che avere un figlio è un desiderio talmente potente e doloroso da far passare sopra ogni scrupolo morale e legale.
Si arriva a un finale molto più politicamente corretto di quanto atteso, ma balzando tra mille situazioni contorte, battute al vetriolo e qualche colpo di scena. Alla fine il ritmo del film la fa da padrone e l’ora e mezza di pellicola si fa bere come gazzosa.

Rimane la domanda: cosa sareste disposti a fare per avere un figlio? Anche a violare la legge?

I Pintus del film non prendono nemmeno in considerazione altre forme di genitorialità, l’adozione, l’affido; il desiderio struggente che li consuma è quello di avere un bambino tutto loro.
Oggi ci domandiamo se la gestazione per altri sia moralmente accettabile o meno, se sia il reato universale che lo stato italiano cerca di combattere in ogni modo o se, sotto certe condizioni, possa essere anche un gesto di solidarietà o di amore. Siamo tutti d’accordo che se parliamo di posti come l’India, dove le donne partoriscono figli per altri nove volte in nove anni per morire di consunzione prima di arrivare ai trent’anni, stiamo parlando di sfruttamento, abominio e messa al mondo di neonati a fini di lucro. Ma le situazioni intermedie sono tantissime. La prima volta che ho letto, tanti anni fa e in tempi non sospetti, di una nonna che partoriva il nipote per la figlia e il genero, forse in America, ho pensato che fosse una cosa bella. Che io per mia sorella un figlio lo avrei fatto, se fossi stata nelle condizioni fisiche adeguate.

Quindi il dibattito è tutto meno che chiuso.

Più la scienza va avanti, più si aprono possibilità e più le domande di cosa sia lecito fare si infittiscono.
In realtà, forme di maternità surrogata ante litteram sono sempre esistite. È sempre accaduto che, se la “signora” di casa non riusciva a concepire, il padrone mettesse incinta una servetta e si tenesse il bambino. E chissà se la servetta era consenziente.
Poi però è stata inventata la fecondazione in vitro e anche le modalità di concepimento si sono evolute.



Il secondo film che mi è capitato di guardare di recente è Joy, che a dispetto del nome, gioia, ha un tono tristissimo.

Louise Joy Brown, nata nel 1978, è la prima bambina concepita in provetta nel Regno Unito. Prima di arrivare a lei, due medici e un’infermiera hanno sperimentato per almeno tre lustri, con errori, speranze infrante, pochi finanziamenti, opinione pubblica contraria, chiesa ostile.
Loro erano Robert Geoffrey Edwards, Patrick Steptoe e Jean Purdy e Joy racconta la loro storia, specialmente quella di Jean Purdy, che come infermiera non aveva titoli ufficiali per ricevere dei riconoscimenti accademici, ma che ha avuto dei tributi postumi.
Joydisponibile in abbonamento su Netflix – inizia negli anni sessanta, con un giovane ed entusiasta Edwards che assume Jean Purdy come assistente e coinvolge l’anziano Steptoe, ginecologo pioniere della laparoscopia, nella sua sperimentazione. Sappiamo che la storia finisce in gloria, che Edwards ricevette il nobel nel 2010 per il suo contributo alla medicina, e solo lui perché era l’unico ancora in vita, e che grazie al lavoro dei tre sperimentatori sono nati milioni di bambini che diversamente non avrebbero mai visto la luce, ma il film Joy narra gli anni precedenti, quelli in cui non vi era certezza del risultato, quelli fatti di cadute, di sogni infranti, di fallimenti, di voglia di arrendersi.

Joy
Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Joy

REGIA Ben Taylor
SOGGETTO Rachel Mason, Jack Thorne, Emma Gordon, Shaun Topp
PRODUZIONE | PRODUTTORE Pathé, Pathe UK, Wildgaze Films
DISTRIBUZIONE Netflix
MUSICHE Steven Price
FOTOGRAFIA Jamie Cairney
ANNO 2024
CAST Thomasin McKenzie, James Norton e Bill Nighy


Joy narra soprattutto la storia di Jean Purdy, dei suoi scrupoli morali.

Lei era cristiana, appartiene alla comunità che ruota intorno alla chiesa, sua madre è molto devota e la allontana quando lei inizia a sperimentare sugli embrioni. Gli amici le voltano le spalle, il prete le dice che può tornare se si pente. Ma lei non vuole pentirsi. Jean Purdy rimane sola, prosegue la sua attività anche se alcune cose non le piacciono: i suoi colleghi praticano pure gli aborti e per lei, cristiana, non è una bella cosa, il dubbio di coscienza la attanaglia, ma va avanti. Rimane, con una missione: aiutare le donne che desiderano un figlio e che non possono averlo. Lo fa anche perché sa di non poter diventare madre: soffre di una grave forma di endometriosi e non concepirà mai.

Jean Purdy si impegna per le altre, perché quelle come lei possano realizzare il loro sogno.

Non solo svolge il lavoro pratico con gli embrioni, ma anche quello umano con le aspiranti mamme. Le accompagna, rende il loro percorso meno gravoso, le sorregge mentre deve distruggere le loro speranze perché gli esiti delle terapie non sono quelli attesi o perché il bambino che portano in grembo non nascerà.
Jean Purdy, la cui storia è diventata nota solo di recente, si è immolata per le donne, per la fecondazione in vitro, per la scienza. Ha donato la sua vita, con molto amore. Morirà a soli trentanove anni per un cancro, dopo aver lasciato un segno indelebile nella storia della maternità assistita.




Elena Genero Santoro
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Recensione: Adolf prima di Hitler, di Antonio Mocciola

Recensione: Adolf prima di Hitler, di Antonio Mocciola

Recensione: Adolf prima di Hitler, di Antonio Mocciola

Libri Recensione di Elena Genero Santoro. Adolf prima di Hitler – Storia di un bacio mancato di Antonio Mocciola (Marotta e Cafiero). Un romanzo breve, un soffio di poesia che vola via leggero. Avrebbe potuto l’amore evitare ad Adolf di diventare Hitler?

Si può essere amici di un cattivo, di una persona niente affatto per bene?
Adolf prima di Hitler – Storia di un bacio mancato, di Antonio Mocciola, è la versione romanzata di un omonimo spettacolo teatrale che ha vinto il Premio Mario Mieli. Racconta dell’amicizia adolescenziale tra due ragazzi: uno è August Kubizek, divenuto poi direttore d’orchestra e scrittore. L’altro è Adolf. Quell’Adolf. Quello che avrebbe rivoluzionato l’assetto dell’Europa e cambiato il mondo per sempre.

August ha diciannove anni e si è trasferito a Vienna su pressione di Adolf.

Il primo studia musica al conservatorio, se le cose gli andranno male tornerà a fare il tappezziere con suo padre; il secondo tenta di essere ammesso all’Accademia delle Arti, è orfano e arrabbiato, eppure ancora innocente. Il rapporto tra Adolf e August, che dividono una stanza, non è privo di attriti. Adolf ha un bel caratterino, risponde male, gli interessa la musica di Wagner, studia la società a lui contemporanea, legge i giornali, sogna ristrutturazioni urbanistiche grandiose eppure è un inconcludente. Ha pochi soldi, ma a trovarsi un lavoretto ben retribuito non ci pensa proprio.

E poi quella di August e Adolf pare una relazione più che amicale, con una connotazione a sfondo omosessuale, in linea con il saggio Il segreto di Hitler dello storico ebreo-tedesco Lothar Machtan che, nel discutere la sessualità di Hitler, sostiene che il dittatore fosse un omosessuale velato.

Il romanzo di Antonio Mocciola è breve, è un soffio di poesia che vola via leggero, una pagina dietro l’altra, ma che lascia incollato addosso un senso di disagio, perché quella di Hitler è una figura altamente disturbante.
Disturbante e affascinante, al punto che è stata analizzata da molti studiosi di varie discipline. Nel 1972 lo psicoanalista Walter Charles Langer pubblica un saggio dal titolo La mente di Adolf Hitler in cui lo definisce uno “psicopatico (e chi più di lui?) nevrotico” e solleva a sua volta il dubbio della sua omosessualità. Un altro testo, del 1977, di Robert GL Waite, The Psychopathic God: Adolf Hitler, esamina i suoi comportamenti, le sue paranoie, le sue ossessioni.

Insomma, la mente contorta di un tale personaggio è una bella sfida da dipanare, ma c’è stato un tempo in cui Adolf era un bambino, poi un giovane senza peccato.

Sul web gira una foto di un Adolf infante: un bel pupo con gli occhi azzurri, le guance tonde e lo sguardo curioso. Un bimbo grazioso e desiderabile. Di solito la foto è accompagnata da una domanda scomodissima: sapendo che si tratta di uno che è diventato un pazzo sanguinario di simile portata, lo uccidereste subito?
Uccidereste un bambino innocente, avendo certezza che causerà la morte di sei milioni di persone?
(Una nota folk: ufficialmente, pare che Hitler, di mano sua, non abbia mai ammazzato nessuno. Ci sono comunque dei dubbi).
La vita di un bambino per la vita di sei milioni di innocenti, tra cui molti altri bambini di certo più buoni e più meritevoli di lui.

Il fatto è che non vi è certezza che, con una storia diversa alle spalle, Adolf sarebbe diventato l’Hitler che tutti conosciamo.

Adolf probabilmente psicopatico ci è nato, ma bisogna anche ammettere che la vita non gli ha risparmiato nulla. Un padre, Alois, che pare fosse più bestia di lui. La madre, una povera donna a cui sembra che Adolf fosse realmente affezionato, morta troppo presto dopo aver sepolto quattro figli. In una situazione del genere, un altro al suo posto avrebbe tirato fuori altri tipi di risorse, si sarebbe rimboccato le maniche per fare del bene a se stesso e agli altri. Adolf, senza una guida, ha esasperato le sue paranoie, ha sfogato le sue frustrazioni e la sua rabbia repressa contro gli zingari, gli stranieri, gli ebrei. Ha proiettato su altri quello che era il fallimento della sua esistenza. E lo ha fatto magistralmente, aiutato da una buona e infervorata dialettica, da una capacità manipolatoria e da una propensione alla menzogna più spudorata.

Questi elementi traspaiono tutti in germe, nella narrazione di Mocciola. Il giovane Adolf è già così.

Fa il sostenuto quando vuole ottenere qualcosa; fa leva sui sensi di colpa di August per forzarlo a fare ciò che lui vuole. È un piccolo Hitler in potenza, ma non ancora del tutto in atto, per dirla come Aristotele. Doveroso qui è citare la poesia “Il susino” di Bertolt Brecht.
Eppure, Adolf diciannovenne è anche un ragazzino magro e indifeso, che non conosce l’amore perché nessuno lo ha mai amato.
E quando il bacio mancato menzionato nel titolo starebbe per scoccare, succede qualcosa che spariglia le carte, cambia il contorno e la storia prosegue come noi tutti, purtroppo, conosciamo.
Avrebbe potuto l’amore evitare ad Adolf di diventare Hitler?
Forse. E ci piace sperarlo.



Adolf prima di Hitler
Storia di un bacio mancato

di Antonio Mocciola
Marotta e Cafiero
Narrativa
ISBN-13 979-1281484368
Copertina flessibile | 100 pag.
cartaceo 12,35€

Quarta

Due giovani nella Vienna di inizio Novecento, rintanati in un monolocale nel fumo tossico di una stufetta a cherosene, provano a ritagliarsi un futuro. Uno è August Kubizek, “Gustl”, umile figlio di un tappezziere: diventerà un apprezzato direttore d’orchestra. L’altro è Adolf Hitler. Tra di loro si sviluppa un rapporto morboso, viscerale. L’altra faccia di una storia fin troppo nota.


Elena Genero Santoro
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