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Recensione: L’altra faccia della Russia, di Stefano Tiozzo

Recensione: L’altra faccia della Russia, di Stefano Tiozzo

Recensione: L’altra faccia della Russia, di Stefano Tiozzo

Libri Recensione di Elena Genero Santoro. L’altra faccia della Russia di Stefano Tiozzo (TS - Terra Santa): dalla storia personale alla mentalità russa, dalla natura estrema ai problemi con la burocrazia. Un libro corposo, dettagliato, ben scritto, che tuttavia è talmente ricco di contenuti che non si può bere in poche ore.

Io e mio figlio siamo sempre stati attratti da posti come la Jacuzia, freddi, gelidi oltre misura. Quest’anno, durante le vacanze di Natale, in uno di quei giorni in cui non saremmo usciti da sotto il piumone, io e mio figlio, accoccolati vicini, abbiamo cercato su YouTube qualche documentario che ci mostrasse il luogo più gelido della terra mentre noi, al calduccio di una lenta giornata invernale, lo potessimo assaporare con distacco.
Ci siamo imbattuti nel Moscow Diaries di Stefano Tiozzo, un italiano, un dentista di Torino come noi, che dopo aver sposato Sati Kazanova, una cantante famosa in Russia quanto le Spice Girl da noi, si è trasferito a Mosca dove vive dal 2017.

Stefano Tiozzo, una volta in Russia, ha abbandonato la professione odontoiatrica e si è dedicato alla fotografia e ai documentari di viaggio.

Non si è limitato però a una serie di puntate su un canale YouTube. Stefano Tiozzo ha raccolto le sue memorie di viaggio anche in un libro: L’altra faccia della Russia, che copre un lasso di tempo tra il 2017 e il 2022, passando per il periodo della pandemia di Covid 19 che in Russia è stato vissuto in modo molto diverso rispetto a noi, in Europa, con meno restrizioni interne, ma con più blocchi per chi voleva uscire dai confini e recarsi in altri paesi. Questo ha dato modo a Stefano Tiozzo di esplorare, in quegli anni, parecchie zone della Russia, che si sono rivelate una diversa dalle altre.
Il libro di Stefano Tiozzo è corposo, sono quattrocentoventi pagine divise in quindici capitoli ognuno dei quali è talmente denso di informazioni che costituirebbe un libro già da solo.

Stefano Tiozzo spazia dalla sua storia personale alla mentalità russa, dalla natura estrema ai problemi con la burocrazia.

Non è la prima volta che leggo un saggio su un paese che presumibilmente non visiterò mai, per farmi un’idea della cultura del luogo.
Il libro di Tiozzo parla dei russi solo in una certa percentuale, molto riguarda le avventure di viaggio e anche la situazione politica e i rapporti con l’Ucraina.
Ne emerge, casomai ci fosse un dubbio, che la Russia è un paese terribilmente complicato e dall’impostazione imperiale, composto da popolazioni anche di cultura molto diversa.

Territorio immenso è composto da stati interni e da regioni con un regime governativo più autonomo, quello che resta della vecchia Unione Sovietica.

Semplificando in modo esagerato, in Italia abbiamo le regioni a statuto speciale, ma lì la faccenda è ancora più complessa.
La moglie di Tiozzo, nonostante il suo passaporto russo, è di origine caucasica, la sua lingua madre è il circasso, composto da tre vocali e quarantasette consonanti, talmente gutturale che o si impara nella primissima infanzia o in età adulta non si sarà mai in grado di pronunciarlo.
Il Caucaso è una regione relativamente piccola ma abitatissima da numerosi e diversi gruppi etnici, ognuno con la sua lingua e amico o rivale del popolo vicino.
Viene menzionato anche il ruolo della donna nella società russa, che è subalterno in un galateo univocamente accettato, ma in realtà lo è più nella forma che nella sostanza. Le donne russe, nei fatti, sono molto più indipendenti e tutelate di quelle europee quando si parla di stipendio e di diritti.
Poi ci sono altri stati dal territorio più ampio ma dalla cultura più omogenea e meno densamente popolati. Stefano Tiozzo li descrive con puntualità, dopo esserne venuto in contatto.

Vi sono poi i cenni storici, la questione in Crimea, quella in Ucraina.

Riassumerli sarebbe arduo, perché si tratta di una faccenda davvero ingarbugliata che affonda le radici nella notte dei tempi, dalla creazione dell’Ucraina in poi. Tuttavia, se si procede a ritroso nei secoli, ciò che Alessandro Orsini diceva in televisione nel 2022 mentre teneva una posizione che pareva sminuire l’attacco subito dal’Ucraina, stato sovrano, da parte di Putin, potrebbe acquisire un nuovo significato.

Stefano Tiozzo inizia il suo libro spiegando che "la Russia chiama".

Quelli che, come lui, si sono trasferiti lì, per varie vicissitudini della vita, sono stati richiamati, risucchiati dal destino, perché è la Russia che sceglie chi fare avvicinare a sé.
I russi amano la Russia come territorio, come una madre e non la tradirebbero mai.
I russi hanno una doppia anima europea e asiatica e, secondo l’autore, capiscono meglio l’Europa di quanto noi capiamo loro.
Per questo hanno una passione sfrenata per l’Italia e per gli artisti italiani. Tiozzo, in alcune situazioni di burocrazia critica se l’è cavata rispondendo alla domanda: canta ancora Celentano? Esistono addirittura dei cantanti italiani famosissimi in Russia e completamente sconosciuti in patria.

Il rovescio della medaglia è che i russi patiscono quando si sentono non capiti e discriminati in quanto russi.

Dopo l’attacco all’Ucraina in Europa e nel mondo si è attivata una russofobia che si è trasferta persino sugli atleti olimpionici.
Ma i russi, dopo l’inizio della guerra, si sono ripresi. Dopo le prime proteste, sono rimasti fedeli alla madre patria. Non a Putin, sottolinea Tiozzo, ma alla Russia stessa.
E anche Stefano Tiozzo, che nel febbraio 2022 si trovava all’estero, ha vissuto l’attacco all’Ucraina con dolore e disincanto. Nonostante tutto, una volta rientrato a casa, ha capito che non potrà mai smettere di amare il suo paese di adozione.
Un libro corposo, dettagliato, ben scritto, che tuttavia è talmente ricco di contenuti che non si può bere in poche ore.



L’altra faccia della Russia

di Stefano Tiozzo
TS - Terra Santa
Saggio
EAN 9791254710753
Cartaceo 18,05€
Ebook 12,99€

Quarta

«Era da molto tempo che avevo immaginato di raccontare la Russia dal di dentro, in tutte le sue mille sfumature e contraddizioni. Mi piace pensare che sia il momento più giusto – in senso morale – per farlo. Con la speranza che i miei racconti e la mia umile esperienza di viaggiatore e ricercatore umano possano essere un’arma non violenta contro la cecità e il razzismo che dominano l’attuale controverso rapporto tra questo immenso Paese e l’Occidente».

Dai Monti Altai alla Kamčatka, da Murmansk al Daghestan, da San Pietroburgo a Mosca fino alle tende dei nomadi Nenet.
Nell’avvincente varietà delle sue pagine questo libro si offre come autobiografia e reportage, cronaca di costume e racconto d’avventura. Dopo il successo di Moscow Diaries su YouTube – con oltre tre milioni di visualizzazioni – il celebre fotografo e blogger, che da anni vive in Russia, invita a prestare ascolto alla polifonica voce di un Paese dall’innegabile fascino e dalle molteplici antinomie.



Elena Genero Santoro
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Recensione: La città autistica, di Alberto Vanolo

Recensione: La città autistica, di Alberto Vanolo

Recensione: La città autistica, di Alberto Vanolo

Libri Recensione di Elena Genero Santoro. La città autistica di Alberto Vanolo (Einaudi). Un saggio breve che non impone soluzioni definitive ma propone sfide ai progettisti di oggi e domani, per ripensare spazi e ambienti accoglienti e stimolanti anche per persone neurodivergenti, dando vita a città che tengano conto anche della salute mentale e non solo dei vincoli fisici.

Quando alla facoltà di Ingegneria Edile del Politecnico di Torino seguivo i corsi di architettura e urbanistica, ci veniva spiegato che, per la gestione della disabilità, bisognava rispettare dei criteri progettuali, peraltro normati rigidamente dai regolamenti italiani, al pari delle norme antincendio con cui andavano a braccetto.
E così ci trovavamo a disegnare porte mai più strette di ottanta centimetri e bagni in cui una carrozzina potesse fare un giro completo. Il bagno largo con lavandino basso e la tazza alta era un obbligo nei locali pubblici e in certi tipi di alloggi, se di nuova progettazione o nel momento in cui venivano ristrutturati. Per strada non so se qualcuno di voi ha mai notato che a volte, sui marciapiedi, ci sono delle piastrelle rigate da grosse scanalature o con dei punti in rilievo: queste servono per gli ipovedenti e i non vedenti, che possono percorrere le strade della città con l’ausilio di un bastone. E che dire delle rampe dei raccordi delle discese dei marciapiedi? Ancora una volta la normativa prevede determinate pendenze e un numero massimo di centimetri di dislivello per le carrozzine.

In realtà, già quando studiavo, trovavo che fossero soluzioni più teoriche che pratiche.

Spesso, su quei marciapiedi, era difficile persino spingere un passeggino, figuriamoci se un paraplegico poteva percorrere le stesse strade in modo indipendente.
Le leggi esistono, ma i lavori non sempre sono realizzati a regola d’arte.
Tuttavia, queste misure a favore della disabilità, sacrosante peraltro, considerano solo un tipo di disabilità: quella fisica. La persona che non può camminare, la persona che non può vedere.
Non viene tenuto conto in nessun modo quanto un ambiente possa essere penalizzante per chi ha una neurodivergenza o una disabilità intellettiva.

Alberto Vanolo è un professore di geografia economico politica con un figlio di nove anni autistico.

Teo, il bambino, è un autistico di quelli che venivano non troppo tempo fa definiti "gravi", “a basso funzionamento”, oggi di “livello due o tre". Insomma, Teo è un bambino non autosufficiente, con comportamenti “strani“.
Alberto Vanolo, scrive La città autistica, parlando di autismo non dal punto di vista delle neuroscienze, a cui concede solo un breve excursus, ma da un punto di vista paterno e soprattutto geografico, spaziale e ambientale, attingendo alla propria formazione. Vanolo tocca diversi punti raccontando l’autismo, e se da un lato non ama particolarmente le definizioni, le etichette diagnostiche, anzi, abbraccia un approccio "queer", in cui la diversità dovrebbe essere il più possibile normalizzata, dall’altro offre alcuni spunti di riflessione su come ambiente e geografia potrebbero in effetti rendere la disabilità meno gravosa.

Approccio queer: la causa dell'inclusione delle neurodivergenze è accostata, per alcuni versi, a quella LGBTQI+.

Un mero inciso, che anche la disforia di genere è stata di recente inclusa nel grande insieme delle neurodivergenze, ne parlo nel mio precedente articolo.
L’autismo, dunque, non è qualcosa da curare, da guarire, da contenere, ma è un modo di essere che in certi ambienti può costituire un limite, mentre in altri ambienti assolutamente no.


Alberto Vanolo parte a raccontare delle "esplorazioni psico geografiche" o "passeggiate situazioniste" che compie con suo figlio Teo.

Vivendo in una città di una certa dimensione, gli stimoli per un autistico sono tanti, talvolta eccessivi, e possono costituire sia qualcosa di costruttivo, sia un vero disturbo. Vivere in una grande città per una persona autistica presenta pro e contro, ma l’isolamento della pacifica campagna non costituisce sempre la soluzione migliore. Vanolo ipotizza una città non voglio dire utopica, ma ristrutturata a beneficio delle persone autistiche. Magari progettata da persone neurodivergenti, che comprendano le necessità da un punto di vista interno, come sul Maremagnum di Barcellona architetti in carrozzina avevano progettato, negli anni Novanta, tutti i ponti in legno di raccordo in modo che le carrozzine potessero scorrere senza intoppi.

Le persone neurodivergenti sono molto sensibili ai sovraccarichi sensoriali.

Non tutte sensibili in equal modo agli stessi stimoli, ma mediamente infastidite. Troppe sollecitazioni uditive, olfattive, emotive possono portarli a un’overdose, che li conduce dritti a una fase di meltdown, una crisi in cui tutte queste emozioni e sensazioni causano una reazione fisica e psicologica scomposta. Quindi, sarebbe bello se nelle città fossero previste delle aree di "decompressione sensoriale" per le persone più sensibili, autistiche o meno. È uno è uno spunto che ha portato la mia mente di – un tempo aspirante urbanista – a sognare dei padiglioni delle costruzioni insonorizzate, a cui poter accedere per tirare il fiato. Non è detto che non gioverebbero persino ai neurotipici. E così, ciò che studiavo un quarto di secolo fa alla facoltà di Ingegneria Edile, troverebbe la sua estensione proprio con una città che tenga conto anche della salute mentale e non solo dei vincoli fisici. Sarebbe una meravigliosa evoluzione dell’attenzione verso la difficoltà che in fase progettuale si è iniziata a sentire qualche decennio addietro per chi stava in carrozzina.

Alberto Vanolo spiega che esistono anche dei locali pubblici in cui in certe fasce orarie vengono appositamente ridotti tutti gli stimoli sensoriali, rumori e luci, affinché, anche chi è più sensibile possa sentirsi a proprio agio.

La libertà di essere se stessi, quindi.
Come celiaca madre di due celiaci, sono pratica di locali inclusivi quando si parla di glutine. Luoghi in cui anche chi è diverso (nel nostro caso in senso alimentare) possa godersi un pasto, della compagnia, un’atmosfera piacevole, alla stessa stregua degli altri. Quindi capisco il bisogno di avere isole felici e ben vengano, anche se, da celiaca madre di celiaci, l’auspicio sarebbe una cultura inclusiva generalmente più diffusa. In un luogo in cui si tende al comfort per tutti quanti, i risvolti negativi di disabilità, diversità, modi di essere queer, vengono tutti attenuati.

A volte vedo la faccenda con pessimismo.

Viviamo in una società in cui i bambini, anche quelli “normali“, vengono percepiti con molto fastidio. Mi è capitato numerosissime volte di leggere interi dibattiti sui social con contro i bambini al supermercato, contro i bambini che piangono sugli aerei, contro i bambini al ristorante. E se da un canto esistono i locali child-free, proprio per quegli adulti che per una sera non vogliono essere disturbati dal pianto di un moccioso capriccioso, ci sono situazioni, come i voli intercontinentali, o come la spesa del sabato pomeriggio, in cui un bambino che frigna non si può semplicemente cancellare dalla faccia della Terra. C’è un’intolleranza diffusa verso l’infanzia, una condanna verso i genitori che non educano. E se da un canto è vero che vedere un bambino in età scolare, scorrazzare per il ristorante, scontrandosi coi camerieri, non depone a favore delle capacità educative moderne, è anche vero che il pianto di un bambino molto piccolo non si può stoppare a comando, e che un bambino anche in età più grande, può avere degli atteggiamenti molesti se è autistico. Peraltro, per onestà intellettuale, va detto che molti degli adulti "intolleranti" verso un infante che urla potrebbero a loro volta essere neurodivergenti e infastiditi da pianti e urla.

Alberto Vanolo si pone il problema, soprattutto quando il figlio Teo mostra una propensione per l’approccio fisico e desidererebbe toccare tutte le donne che vede.

Su questo punto Vanolo spiega che ha dovuto contenere suo figlio, perché se lui è autistico ciò non significa che ogni ragazza sia disponibile a essere molestata da lui. Ma per tutte le altre circostanze, stranezze, modi di parlare esprimersi, stimming (movimenti ripetuti che fungono da sfogo per un autistico), crisi, Manolo non intende mettere un freno a suo figlio. Intanto non sarebbe giusto, e poi sarebbe persino controproducente. Certo, se a fronte di un comportamento socialmente disturbante, quando il genitore si giustifica (“chiedo scusa, mio figlio è autistico“), il disgustato spettatore non potrà più prendersela con la mancanza di educazione e scuoterà le spalle con un’espressione compassionevole. Ma è proprio questo il punto.

La vera inclusione si avrà quando le "stranezze" di un autistico saranno normalizzate, saranno accettate come un diverso e rispettabile modo di esistere e di sentire.

Non è questione di voler romanticizzare la neurodivergenza, è la necessità di doverci interfacciare civilmente tutti noi su questo pianeta.
Alberto Vanolo, nel suo breve saggio La città autistica, lancia alcuni ami. Propone alcune sfide. Non impone soluzioni definitive. Starà ai progettisti di oggi e di domani ripensare a spazi e ambienti accoglienti e confortevoli e stimolanti anche per chi non ha le parole giuste né le capacità pratiche per chiederlo.


La città autistica

di Alberto Vanolo
Einaudi
Saggio breve
EAN 9788806261108
Cartaceo 12,35€
Usato 7,15€
Ebook 4,99€

Quarta

Alberto Vanolo offre una serie di proposte provocatorie per la città autistica, una sorta di manifesto con principî generali per immaginare realtà urbane più semplici e sostenibili, non solo per chi vive una condizione di neurodivergenza.
Che cos'è una città «autistica»? È uno spazio per immaginare e sperimentare modi diversi di intendere le diversità, incluse quelle neurologiche, anche al di là del linguaggio delle categorie, delle diagnosi e delle disabilità. Il mondo ha bisogno di città del genere: «autistico» non va inteso in senso peggiorativo e la condizione di neurodiversità può offrire molto per progettare città più vivibili e aperte. Costruire realtà urbane migliori significa anche sovvertire le categorie morali e i linguaggi comunemente associati all'autismo.



Elena Genero Santoro
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Recensione: Potevo essere io, di Roberta Roncone

Recensione: Potevo essere io, di Roberta Roncone

Recensione: Potevo essere io, di Roberta Roncone

Libri Recensione di Elena Genero Santoro. Potevo essere io – 10 regole per salvarci la vita: il primo manuale per riconoscere e difendersi dalla violenza di genere di Roberta Roncone (Independently published). Un decalogo di regole, tutte introdotte da testimonianze di abusi che sono stilettate nello stomaco, con l’intento di rendere consapevoli le future vittime di ciò che non va nella loro relazione, in modo che ne possano prendere le distanze.

I doveri della sposa:
  • Voler bene al marito
  • Rispettarlo come capo
  • Obbidirlo come nostro superiore
  • Assisterlo con premura
  • Ammonirlo con reverenza
  • Rispondergli con grande mansuetudine
  • Tacere quando è alterato
  • Pregare per esso il signore
  • Sopportare i difetti
  • Schivare la familiarità con altri uomini
  • Non consumare la roba in vanità
  • Essere sottomessa alla madre dei mariti ed ai suoi vecchi
  • Umile e paziente con le cognate
  • Prudente con quelli della famiglia
  • Amante della casa
  • Riservata nei discorsi
  • Osservatrice dei doveri religiosi.
Questo elenco, tratto da un manifesto ecclesiastico del 1895, elenca i doveri delle buone spose. Gira su Internet da tempo.
Meno noto ai più è che esiste anche un analogo elenco per gli sposi, che vengono invitati a essere pazienti e a “non dimenticarsi della moglie e dei figli quando sono fuori casa” (il che è già di più di quello che certi mariti fanno nella realtà), ma questo sempre sottolineando che l’uomo è il capo e il padrone, mentre la donna deve rimanere defilata a ubbidire sorridendo.
Roba superata?
Non del tutto.

Il Nuovo Diritto di Famiglia, che mette i coniugi sullo stesso piano, ha la mia età, è del 1975.

Mia madre, nel '71, si è ancora sposata come figura subalterna, legalmente parlando.
Nonostante questo, dopo cinquant’anni abbiamo ancora, volenti o nolenti, degli imprinting da cui non ci liberiamo.
Il primo è che l’uomo e la donna ricoprono ruoli ben definiti: lui lavora, lei sforna figli e li alleva. E poi magari ha un impiego anche lei, ma la priorità è essere l’angelo del focolare, il riferimento per la prole. Su questo punto la civiltà ci sta lavorando. Siamo ancora lontani, ma la strada è tracciata.
Il secondo imprinting è la sacralità del matrimonio, o comunque della relazione. Quella istituzione che in passato non aveva nemmeno le ragioni dell’innamoramento, ma solo quelle economiche e sociali, e che in Italia è stato possibile sciogliere solo dal 1975 col divorzio, aveva la priorità sulla felicità individuale.

Mia nonna, le sporadiche volte in cui mia madre ha litigato con mio padre, anziché difenderla o anche solo lasciarla sfogare, la riprendeva affinché mettesse da parte l’orgoglio e non mandasse a monte il matrimonio.

Ora, posso dire che tra i miei genitori non è mai successo nulla di così grave, ma il presupposto di mia nonna è degno di nota. Approccio che spesse volte è stato replicato da mia madre verso di me quando ho espresso rimostranze verso il mio attuale marito. Il leitmotiv è sempre che per tenere in piedi la sacra unione, bisogna sacrificarsi, bisogna soffrire, bisogna fare dei passi indietro, a prescindere. E se da un canto è giusto impegnarsi per la propria relazione come progetto comune e scelta di vita, bisogna ricordarsi che compiacere il partner non è la priorità.
Il terzo imprinting che ci portiamo dietro dalla storia è l’assoluta ignoranza delle numerose personalità (folli) in cui possiamo imbatterci.
Un marito può, ipoteticamente, anche essere, per definizione, il “capo” del suo nucleo, comandare, decidere le sorti della famiglia. Ma chi garantisce che sia davvero in grado di farlo, o che non sia un balordo o un cretino? Chi lo certifica? In passato, il diritto divino.
Un po’ come quando nelle aziende vengono tenuti dei corsi per migliorare l’interazione tra colleghi, senza tenere conto che ci possono essere personalità abnormi per le quali le ordinarie strategie di captatio benevolentiae e di gestione dei conflitti non avranno mai successo.

Con queste zavorre che ci trasciniamo dietro dai secoli scorsi, eccoci nel presente, a dover gestire relazioni e azioni che oggi vengono – in parte – riconosciute come abusanti, violente, non consensuali.

Eppure, fino a qualche decennio fa – nel 1981 valeva il delitto d’onore – erano semplicemente la norma, con poche eccezioni. Tipo che una donna era tenuta a concedersi al marito anche se non ne aveva voglia. Che il sesso nel matrimonio era un dovere. Che lo stupro era un delitto contro l’onore e che la donna disonorata veniva riabilitata sposando il violentatore.

Oggi iniziamo a chiamare le cose con il loro nome (abusi e violenze), ma non sappiamo come riconoscerle né come affrontarle.

A volte non lo sanno neanche i terapeuti: non tutti sono in grado di distinguere gli abusi, non tutti mettono su piani diversi abusante e vittima.
Non lo sanno fare neppure i giornalisti, che continuano a confondere abusante e vittima: la vittima ha subito violenza, però aveva bevuto, però era vestita succinta, però lo aveva lasciato.
Allo stesso modo fino a qualche decennio fa era giudicato normale lo squilibrio di potere economico e sociale tra coniugi, che apre la porta agli abusi successivi.

E allora ben venga il libro di Roberta Roncone, Potevo essere io, che segue la creazione di un’omonima pagina di Instagram che raccoglie le testimonianze di vittime di abusi e di violenza di genere.

Le vittime che scrivono sono in maggioranza donne, e perché le donne sono più disposte a raccontarsi, e perché numericamente più colpite, ma la violenza di genere è un concetto più ampio. La violenza di genere è la violenza causata dal genere o dal sesso di una persona, ma può essere anche rivolta agli uomini.
In un mondo in cui la parola “narcisista” è ormai usata a sproposito, Roberta Roncone vuole evitare etichette e non si addentra nell’analisi delle personalità abusanti. “Si dice il peccato, non il peccatore” e infatti l’autrice sceglie di descrivere i comportamenti abusanti senza dare spazio alle motivazioni di chi li mette in opera. Che comunque non potrebbero costituire delle giustificazioni.

Roberta Roncone scrive un decalogo di regole, tutte introdotte da testimonianze di abusi che sono stilettate nello stomaco, con l’intento di rendere consapevoli le future vittime di ciò che non va nella loro relazione, in modo che ne possano prendere le distanze.

Infatti il primo passo è la consapevolezza. È il riconoscimento che c’è un meccanismo sbagliato alla base. Che situazioni che siamo abituati a ritenere normali, perché in passato erano considerate tali, non lo sono affatto.
Come la gelosia, per esempio. C’è un retaggio culturale che ci fa credere che una certa dose di gelosia sia espressione di amore. In realtà nell’amore la gelosia non dovrebbe essere contemplata, in quanto si suppone che la fiducia non la renda necessaria e poi sarebbe difficile stabilire un confine, una misura di fin dove si possa spingere la cosiddetta gelosia "sana".
Avevo una conoscente che il marito obbligava a chiamare casa dal telefono dell’ufficio prima di lasciare la sede per rientrare la sera. Lui poi prendeva i tempi che lei ci metteva per tornare, nel dubbio che potesse fare deviazioni non consone. Lei lo difendeva: «Fa così perché mi ama, perché è protettivo». A noi altri questo marito pareva solo ossessivo. Ma lei ci teneva un sacco a contornare la sua immagine con un’aura di perfezione. Poi il matrimonio è naufragato molto male, indovinate un po’?, per un problema di fiducia.

Roberta Roncone spera che le vittime aprano li occhi, acquisiscano consapevolezza e imparino a difendersi.

Il suo intento non è colpevolizzare le vittime: non lo fa mai, anzi le accoglie tutte a braccia aperte. Ma vuole dare loro una chiave di lettura per identificare ciò che non funziona e salvarsi da sole fintanto che la società non evolve.
Non è mai colpa della vittima, ma ci vuole capacità di discernimento per mettersi al sicuro. La regola numero uno è quella di fidarsi del proprio intuito. Se già da subito ci sono aspetti che non quadrano, non bisogna ignorarli. Non bisogna convincersi che vada tutto bene. Non bisogna farsi piacere una persona per forza anche se gli altri ci dicono che è in gamba, ha un buon lavoro e che insieme saremmo una bellissima coppia.

Anni fa, all’uscita da una relazione abusante, mentre raccoglievo i cocci della mia vita, comprai un libro per non incappare negli errori commessi in precedenza.

Era una specie di manuale su come trovare l’anima gemella e all’epoca non parlava né di narcisismo né di abusi. Diceva una cosa molto basilare e assolutamente vera: l’innamoramento è una fase bellissima, ma se vogliamo stare con una persona a lungo dobbiamo avere noi per primi in testa una lista di requisiti inderogabili e non negoziabili che il partner deve avere. Quali siano i requisiti inderogabili lo stabiliamo noi; io di default ci metterei il rispetto. Se per esempio soffro di asma e incontro una persona che fuma due pacchetti al giorno anche in casa e non intende smettere, presumibilmente insieme non faremo molta strada. Idem se incontro uno che ama i rettili tanto da avere una teca in ogni stanza e mettersi un pitone nel letto mentre io detesto i serpenti. L’amore vince su tutto? Secondo quel libro no. Alla lunga ci si logorerebbe sulle questioni su cui non è possibile raggiungere un compromesso. Il consiglio era di uscire, conoscersi per alcune occasioni e chiudere molto in fretta appena si riscontrano montagne insormontabili. È un metodo freddo, calcolato, che non tiene conto del sentimento? Può essere, ma non poi così sbagliato, perché in primis induce a non fingere di essere diversi da come si è e da avere rispetto per se stessi.

Il libro di Roncone in realtà pone l’accento su altri dettagli, ma in comune col manuale letto nei primi Duemila c’è un consiglio fondamentale: bisogna ascoltare e ascoltarsi.

E poi, in Potevo essere io grossa parte è dedicata all’analisi di tutti i meccanismi di violenza psicologica, che è quella largamente più diffusa. Perché non tutti i partner violenti arrivano all’omicidio, allo stupro o ad alzare le mani. Qualcuno non lo farà mai e si scandalizzerà all’ennesimo Turetta salito alla ribalta della cronaca. Il che non significa che non possa rendere la nostra vita un inferno.

La violenza psicologica si manifesta con critiche continue, con la demolizione sistematica della nostra figura, magari mascherata da consigli, da premura.

«Lo dico perché ti voglio bene, per aiutarti a migliorare.» Non è vero: l’unico scopo è la demolizione dell’autostima della vittima, per averne il controllo e il potere.
Il mio abusante mi disse: «Cerca pure un lavoro, se ti va, ma la responsabilità dello stipendio è dell’uomo». Lo disse col fare paternalistico di quello che vuole essere rassicurante e protettivo. Negli anni compresi che dietro si celava ben altro. Il controllo economico è violenza. L’amore su condizione è violenza.

Roncone descrive le fasi iniziali di una relazione non sana, il love bombing, la passione sfrenata, quando tutto è troppo bello per essere vero.

Infatti non è vero. Il love bombing sostituito da silenzi punitivi, critiche continue, pressioni, rinforzo intermittente. Ci sono persone che non sanno amare, ma vogliono il nostro amore per nutrirsene. Che in base a quello che dicono sembra che ci detestino: «Perché non metti mai la gonna?», «Perché non tagli i capelli?», «Perché devi uscire sempre con la tua amica?», «Perché sei sempre così permalosa?», «Perché non prendi una laurea?», «Perché non stiri le mie camicie?».
E noi a domandarci: «Perché sta con me se sembra che di me non gli vada bene niente? Forse perché in fondo mi ama, anche se ho dei difetti».
La notizia è: non sembra che ci odino. Ci odiano per davvero. Non stanno con noi perché ci amano, ma per esercitare il loro potere. Quello che un tempo agli uomini veniva riconosciuto senza discussione.

Ma c’è anche una buona notizia: i centri antiviolenza esistono. I gruppi di ascolto anche. Roncone ne parla a lungo nell’ultimo capitolo.

Ed esistono anche persone abusanti, in maggioranza uomini, che prendono coscienza di aver seguito dinamiche sbagliate.
Nel ringraziare Roberta Roncone per il grande lavoro svolto, invito tutti a leggere il suo libro Potevo essere io. C’è speranza.



Potevo essere io
10 regole per salvarci la vita: il primo manuale per riconoscere e difendersi dalla violenza di genere

di Roberta Roncone
Independently published
Manuale
ISBN 979-8310551602
Copertina flessibile | 263 pag.
cartaceo 12,99€
ebook 8,99€

Quarta

In un mondo in cui la violenza di genere è una realtà silenziosa e devastante, questo libro rappresenta un faro di speranza di resistenza. L'autrice, attraverso la sua esperienza personale e il progetto Instagram @potevo_essere_io, offre un manuale pratico e incisivo, composto da dieci regole fondamentali per riconoscere e affrontare la violenza.
Ogni regola è un atto d'amore, pensato per fornire strumenti concreti a chi si trova in situazioni di rischio o vulnerabilità. Non si tratta solo di sopravvivere, ma di trasformare il dolore in forza e in consapevolezza.
Questo libro non è solo per chi ha vissuto esperienze traumatiche, ma anche per chi desidera prevenire tali situazioni, contribuendo a creare una società più giusta e sicura.
Leggendo "POTEVO ESSERE IO - 10 regole per salvarci la vita", scoprirete come alzare la voce contro l'ingiustizia, come proteggervi e come unirvi ad una comunità di sostegno. E' un invito a non rimanere in silenzio, a riconoscere il proprio valore e a lottare per una vita libera dalla paura.
Un'opera necessaria per tutte le donne, gli uomini e le generazioni future che meritano di vivere in un mondo senza violenza.


Elena Genero Santoro
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Recensione: Carlos Castaneda e i navigatori dell'infinito, di Manolo Bertuccioli

Recensione: Carlos Castaneda e i navigatori dell'infinito, di Manolo Bertuccioli

Recensione: Carlos Castaneda e i navigatori dell'infinito, di Manolo Bertuccioli

Libri Recensione di Andrea Pistoia. Carlos Castaneda e i navigatori dell'infinito di Manolo Bertuccioli (Editoriale Jouvence). Un testo rigoroso e accessibile che affianca antropologia, filosofia e psicologia per penetrare la complessità del pensiero sciamanico.

Avendo letto tutti i libri di Carlos Castaneda, non potevo non leggere con interesse questo saggio che analizza le sue opere da molteplici prospettive. Ma andiamo con ordine.

Le prime cinquanta pagine fanno un sunto di tutti i romanzi, non tanto a livello di trama quanto di azioni e di concetti che hanno guidato Castaneda nel suo apprendistato.

Le centinaia di pagine seguenti, invece, sono un’analisi delle sue opere dal punto di vista metafisico e della psicologia analitica (o, per essere più precisi, dell’analisi junghiana) ma anche, ad esempio, da quello di Freud, Tenzin, Aristotele, Kant e Nietzsche.
Tutto ciò per mostrare sia i punti in comune che le differenze tra le loro deduzioni e il mondo di Castaneda. Oltre a tutto questo, l’autore tira in ballo anche il sufismo, le religioni monoteiste e la cultura tibetana per dimostrare come certi concetti sciamanici siano presenti anche in altre culture.

Soprattutto, Manolo Bertuccioli spiega in modo approfondito alcuni concetti.

Ad esempio: il "fermare il mondo", l'uovo luminoso, il Nagual e il Tonal, l'arte di sognare, il doppio, il concetto di Aquila, cosa significa animismo e sciamanesimo nero. Vengono affrontati anche temi comprensibili a un pubblico più vasto, quali: come si diventa sciamani, adottare particolari comportamenti etici, sconfiggere la paura, diventare un uomo di conoscenza, il delicato rapporto tra allievo e maestro, soprattutto l’arduo percorso che deve fare il primo e la responsabilità del secondo sull'allievo.
Una sezione interessante è dedicata all'uso delle droghe nelle varie culture sciamaniche, usate non per scopi ludici ma in chiave spirituale – vi ricordo che, soprattutto nel primo romanzo, Don Juan fa provare a Castaneda il Peyote per indurgli stati alterati di coscienza.

Non manca un’indagine sulle fonti storiche e culturali delle opere di Castaneda, volta a verificare l’esistenza di Don Juan e del suo gruppo di allievi.

La postfazione, infine, Manolo Bertuccioli mette a confronto alcune pratiche di Castaneda con la psicologia transpersonale – la cancellazione della storia personale e la ricapitolazione –, la Gestalt e l’ipnosi di Erickson.

Che dire di Carlos Castaneda e i navigatori dell'infinito?

Innanzitutto che il saggio è scritto con un linguaggio preciso e ricercato, ma sempre leggibile. Ogni parte è chiara, fluida, comprensibile e scorre che è un piacere.
Manolo Bertuccioli arricchisce il testo con citazioni da opere antiche, confronti tra scuole di pensiero e opinioni di esperti — psicologi, antropologi, sciamani, saggisti e scienziati — a sostegno o in contestazione delle tesi castanediane.
Tutto ciò dimostra quanto l'autore abbia una cultura ampia su tutto ciò che orbita intorno a Castaneda e allo sciamanesimo. Senza contare che tira in ballo decine, se non addirittura centinaia, di professionisti dei settori più disparati – dagli psicologi agli antropologi, dagli esperti di cultura messicana agli sciamani attuali, dai saggisti che trattano tematiche similari agli scienziati – per chiarire meglio, o mettere in discussione, un universo tanto affascinante quanto complesso com'è quello di Castaneda.

Manolo Bertuccioli è riuscito ad analizzare in modo certosino e accademico un mondo così complesso e misterioso quanto quello di Castaneda fornendo chiavi di lettura nuove sulle sue opere e curiosità che arricchiscono il bagaglio culturale del lettore.

Prima di concludere preciso che questo libro è un saggio che esamina le (tante) opere di Castaneda focalizzandosi più che altro sui concetti sciamanici in esse contenute. Per apprezzarlo al meglio è consigliabile avere familiarità con i suoi romanzi, così da coglierne le sfumature. Solo chi ha letto l’intero corpus castanediano potrà apprezzare la portata del lavoro svolto da Bertuccioli.
In definitiva, soprattutto per chi è appassionato di Castaneda, questo saggio è un must, un libro imprescindibile: un vero e proprio strumento di comprensione e approfondimento che merita un posto nella propria libreria.


Carlos Castaneda
e i navigatori dell'infinito

di Manolo Bertuccioli
Editoriale Jouvence
Saggio filosofico, psicologico e antropologico
ISBN 9788878018150
Brossura | 360 pagine
cartaceo 16,00€
ebook 13,99€

Quarta

«In Castaneda il vero viaggio inizia dalla morte simbolica e finisce, in un certo senso, con la totalità.
Castaneda che ha fatto del suo discepolato con don Juan un’opera letteraria stimata in tutto il mondo, una strabiliante strada del cuore.»

L’incontro con lo stregonesco e lo sciamanesimo, l’esperienza delle droghe e degli stati alterati di coscienza, lo studio del mondo dei sogni.
Questi sono i temi che hanno affascinato Carlos Castaneda e che ritroviamo in questo libro, volto a ripercorrere la vita e le opere di un autore straordinario.
Un affresco che viene presentato al lettore anche attraverso un serrato confronto con altre tradizioni culturali: la psicologia analitica, lo yoga tibetano, il pensiero metafisico occidentale.



Andrea Pistoia
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Recensione: La misteriosa tecnica della vecchia gatta, di Issai Chozanshi

Recensione: La misteriosa tecnica della vecchia gatta, di Issai Chozanshi

Recensione: La misteriosa tecnica della vecchia gatta, di Issai Chozanshi

Libri Recensione di Andrea Pistoia. La misteriosa tecnica della vecchia gatta e Il discorso del demone sulle arti marziali (Rizzoli) di Issai Chozanshi, a cura di Tea Pecunia. Due racconti dello scrittore samurai vissuto tra il 1659 e il 1741, un susseguirsi di insegnamenti Zen (e non) sulla giusta mentalità per approcciare la vita.

Il libro comincia con una lunga introduzione di Tea Pecunia, la curatrice, la quale spiega innanzitutto chi è colui che ha scritto i due racconti presenti all’interno, ovvero Issai Chozanshi, un samurai vissuto tra il 1659 e il 1741. Lui non fu un maestro d'armi (anche se ne conobbe lo spirito, l'essenza e la filosofia); in realtà fu uno scrittore con un'immensa cultura su: Zen, Tao, Confucianesimo e, ovviamente, arte della spada.

Tea Pecunia spiega in breve la trama dei due racconti.

Ma ne fa giusto un accenno, in quanto preferisce focalizzarsi sul loro background, a partire dal periodo storico, sociale e politico in cui sono stati scritti fino all'insegnamento controcorrente di Issai Chozanshi, il quale non si concentra sulla tecnica dell’arte della spada ma sull'essenza di questa e sull’utilizzarla come mezzo per raggiungere la Via.
Tra l'altro, l'autore è un neo confuciano. Di conseguenza, per Tea Pecunia è inevitabile soffermarsi anche sull'origine del confucianesimo, sulle sue regole, sul suo fondatore ma anche sul neo confucianesimo e sul buddhismo. E ancora, essendo i due libri legati all'arte della spada, la curatrice non può esimersi dal fare cenni storici su quest'arma e sulla sua evoluzione, dalla spada antica a quella nuova e nuovissima fino al divieto di produrla dopo la Seconda Guerra Mondiale.
I concetti e le spiegazioni dell'introduzione sono sufficienti ad arricchire il lettore di informazioni utili e interessanti sull'affascinante mondo dei samurai e della spada. Ma passiamo ora ai due racconti.

Il primo racconto è La misteriosa tecnica della vecchia gatta, in cui si narra di uno spadaccino che chiede aiuto a dei gatti per catturare un topo tanto feroce quanto elusivo.

Ognuno descrive l'addestramento ricevuto nelle arti marziali e la tecnica che userà per catturarlo; uno userà la forza, un altro il Chi (cioè l'energia vitale), un terzo l’arrendevolezza e infine l'ultimo, una gatta, la non-mente (ovvero la scomparsa del pensiero).
Per quanto questo racconto in un primo momento appaia come una favola, in realtà è un testo profondo e illuminante in quanto l’atmosfera fiabesca compare giusto nelle prime righe per poi lasciare il passo a un lungo botta e risposta in cui la saggia gatta spiega agli altri felini non solo gli errori che hanno commesso mentre affrontavano l'avversario, dato che hanno usato tecniche poco efficaci, ma anche quale sarebbe stato il modo migliore per ottenere la vittoria. Il tutto fino a che non si giunge alla fine dell'opera con un ultimo, prezioso insegnamento: “La trasmissione da mente a mente”.

Il racconto non si focalizza sulle tecniche per maneggiare la spada (come dice l’autore stesso, le si può apprendere solo con la pratica) ma insegna la mentalità con cui approcciarsi a quest'arte e, più in generale, alla vita.

Le risposte della gatta saggia sono in sostanza discorsi motivazionali, spirituali e finalizzati a mostrare quali siano gli elementi e gli stati mentali necessari per elevare interiormente il lettore.
Ecco perché non bisogna prendere nessun passaggio del racconto alla leggera ma concentrarsi non solo sul concetto in sé ma anche sulle singole parole.

Il secondo racconto, Il discorso del demone sulle arti marziali, è invece un trattato in quattro parti con una prefazione e un epilogo.

La prefazione si focalizza sul fatto che se un uomo non si muove verso il bene andrà verso l'opposto. Poi si passa alla storia vera e propria, narrata in prima persona, in cui un uomo è alla ricerca della verità ultima sull'arte della spada. Va così tra i monti alla ricerca dei Tengu (demoni delle montagne mezzo uomini e mezzo uccelli) per imparare le tecniche sulle arti marziali e la filosofia in esse contenute.
Così, quando li trova, i Tengu condividono con lui la loro saggezza.
In pratica si ha un susseguirsi di domande dell’uomo riguardanti non solo l'essenza dell'arte della spada ma anche la vita, la morte, l’esistenza e ciò che le governa. Ognuna di queste ottiene una risposta che miscela spiritualità e concretezza.
Ecco perché il protagonista viene a conoscenza anche della non-mente, di come affrontare l’avversario con la spada, dell’importanza di avere un Chi calmo e della necessità di possedere la tecnica adatta nelle arti marziali. E ancora, apprende cos’è: la reincarnazione, l'egoismo insito nell'attaccamento, “La mancanza di coscienza”, “La mente che si confonde”, “L’affidarsi al cielo” e “L’essere in errore” ma soprattutto la differenza tra restare immobili e in movimento, tra conoscenza superficiale e innata, tra morbidezza e debolezza, tra attività e pigrizia, tra Yin e Yang e tra purezza interiore ed esteriore.

Che dire di questo secondo racconto?

Innanzitutto che non è fine a se stesso ma un susseguirsi di insegnamenti Zen (e non) scaturiti da una saggezza profonda che trascende il mero insegnamento sull'arte della spada. Ed è proprio questo il suo punto di forza: abbonda di una miriade di verità che si possono anche adattare alla vita di tutti i giorni per affrontare quest’ultima in modo più sereno, consapevole ed equilibrato.
Senza contare che alcune considerazioni dell’autore sono, a volte anche tristemente, attuali (come il fatto che i giovani vogliono tutto e subito).
Mi sono infine altresì piaciute le metafore che ha usato Issai Chozanshi per chiarire certi concetti, che sarebbero potuti essere altrimenti di difficile comprensione per i suoi connazionali (figuriamoci per noi occidentali).
In definitiva, cosa ne penso di questi racconti e dell’introduzione? Che meritano di essere letti, più e più volte, perché hanno tanto da insegnare.
Ergo, libro vivamente consigliato.


La misteriosa tecnica della vecchia gatta
e Il discorso del demone sulle arti marziali

di Issai Chozanshi
traduzione di Yoko Dozaki
a cura di Tea Pecunia
Rizzoli
Filosofia orientale
ISBN: 978-8817185141
Cartaceo 11,88€
Ebook 6,99€


Quarta


Issai Chozanshi è un autore a lungo ignorato nel nostro Paese, forse perché della sua vita sappiamo poco: samurai del feudo di Sekiyado, alla profonda conoscenza delle arti del combattimento univa una vasta cultura fondata su una felice sintesi di zen, taoismo, confucianesimo e shintoismo. Nei due testi qui raccolti non prescrive regole pratiche di scherma, ma ci offre una visione suggestiva dello spirito profondo delle arti marziali. In queste storie siamo continuamente richiamati ad agire senza spirito di ottenimento e senza aspettativa, a "fare senza fare", a brandire la katana come se non avessimo nulla in mano. Perché, come ci ricorda Tea Pecunia nella sua introduzione: "Lo scopo ultimo non è sconfiggere l'avversario. Il vero obiettivo consiste nel saper vivere la trasformazione e comprendere il senso della vita e della morte". Questo è l'insegnamento trasmesso dalla vecchia gatta e dal demone.


Andrea Pistoia
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Recensione: Le schiacciate, di Laura Turuani

Recensione: Le schiacciate, di Laura Turuani

Recensione: Le schiacciate, di Laura Turuani

Libri Recensione di Elena Genero Santoro. Le schiacciate – Vivere i cinquant’anni a testa alta tra lavoro, figli adolescenti e genitori anziani di Laura Turuani (Solferino). Un saggio molto strutturato e ben documentato: «Tante donne sono arrivate al limite prima di unire i puntini dei loro malesseri e realizzare che le loro manifestazioni avevano un denominatore comune: la perimenopausa».

Si dice che un buon autore faccia credere al lettore di parlare di lui, quando in realtà parla di sé.
In Le schiacciate Laura Turuani non parla di sé, o non solo, trattandosi di un saggio ricco di note bibliografiche, ma fa credere a una buona percentuale di odierne cinquantenni di parlare proprio di loro. Parla di loro.
Tra quattro mesi compirò cinquant'anni per cui chiedo venia in anticipo se in questo articolo mi ci metterò pure io senza nemmeno fingere di nascondermi. Il libro del resto è rivolto proprio a me: a una donna intorno al mezzo secolo di vita, anno più anno meno, che si ritrova letteralmente schiacciata.
Schiacciata tra due generazioni: a cinquant'anni si possono avere figli adolescenti e genitori anziani, ed entrambe le categorie gravano, in un modo o nell'altro, sulla cinquantenne di turno. Schiacciata dal peso degli anni che inizia a farsi sentire, schiacciata dagli impegni di lavoro e domestici, schiacciata dal corpo che cambia e diventa irriconoscibile.

Le schiacciate di Laura Turuani inizia con un concetto che mi ha punta sul vivo: i cinquant'anni sono una fase di pre-lutto.

È inutile girarci intorno, edulcorare la pillola, nascondersi dietro ai tabù del politically correct. Abbiamo passato più di quarant'anni a costruirci la vita che volevamo, magari ci siamo anche in buona parte riuscite: il lavoro, se non dei nostri sogni, almeno adatto alle nostre competenze, una famiglia, dei figli. Abbiamo trascorso l'ultimo decennio nella fatica, per carità, di una vita piena, ma consce di portare avanti le responsabilità che ci eravamo scelte con consapevolezza. E adesso?
Adesso tutto sta per cambiare. Stiamo per perdere tutto e questa sensazione, anche se non è ammessa o riconosciuta a livello conscio, pizzica le corde di un inconscio che inizia ad angosciarsi. Stiamo per perdere i figli, i genitori e anche gli animali domestici (sì, i porcellini d'India: mi struggo per loro. Non posso farci nulla. Sopportatemi). Se va bene, per contro, non perderemo il lavoro fino a settant'anni. O lo perderemo e nessuno più ci assumerà, perché preferiranno una "risorsa più Junior": leggi un maschio (bianco eterossessuale) tra i ventisette e i trentasette anni.

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Su una cosa il libro mi ha stupita: nel capitolo in cui vengono trattate le relazioni di coppia, che talvolta in questa età giungono al capolinea, Turuani si sente in dovere di spiegare la differenza tra innamoramento e amore.

Sono rimasta sbigottita, perché è qualcosa di cui sento parlare dalla prima adolescenza e, almeno in via teorica, conoscevo le due definizioni già a quattordici anni. Persino sui libri di educazione sentimentale e sessuale di impostazione cattolica che mi sono trovata a leggere la differenza tra innamoramento e amore era già indicata in modo chiaro e corretto nei primi anni Novanta. Poi possiamo discutere della sacralità del matrimonio e dell'opportunità del divorzio, ma che quella fase di eccitazione e aumento di dopamina e noradrenalina nel cervello sia un transitorio che in una relazione matura deve lasciare spazio ad altro, non ho mai avuto dubbi.
Eppure, a cinquant'anni ci sono persone che non devono avere ancora capito con cosa hanno a che fare. E che un fisiologico calo della libido e un diradamento dei rapporti sessuali non è necessariamente indice di una coppia che non funziona più.

Uno dei primi capitoli è dedicato ai figli adolescenti e mi ci sono riconosciuta solo in parte.

Non so se siano i miei figli a essere atipici, o solo troppo piccoli per arrivare al livello di conflitto descritto, ma diciamo che le situazioni standard menzionate, che coprono un buon percentile della popolazione di madri italiane, non mi ha coinvolta.
Una cosa è certa: i figli devono crescere, si preparano a lasciare il nostro nido. È un pensiero angosciante, per certi versi, che evoca la perdita, ma a cui sto cercando di prepararmi dal momento in cui ho concepito i miei due. Mai come in gravidanza mi sono dedicata alla scrittura, al tempo per me, allenandomi a ricavarmi uno spazio personale in cui essere solo me stessa e non una mamma. Era già una prima prova e poi ne sono venute altre: il mio ritorno al lavoro a tempo pieno, poi le loro settimane di campi estivi, fuori da casa e lontani da Torino, ora la libertà di lasciarli uscire da soli, pur con certe condizioni di orario e di messaggeria ogni volta che si spostano.

Eppure se constatare l'indipendenza dei figli fa male, rendersi conto del decadimento dei genitori è ancora più doloroso.

Ho avuto la fortuna di avere dei genitori che sono entrati nella quarta età (come la definisce il libro), intorno agli ottanta anni, in buona salute e in perfetta indipendenza. Non solo, sono stati, e per certi versi sono ancora, un valido ed efficace aiuto nell'accudimento dei miei figli. In questo mi ritengo sommamente fortunata. Ho amiche mie coetanee che hanno perso uno o entrambi i genitori da tempo e magari per gravi e logoranti malattie. Ma so che non potrà durare per sempre. Gli acciacchi di mia madre, un piccolo intervento di mio padre a cui ne seguirà un altro, pur non grave, me li fanno percepire fragili come non li ho mai visti. È nell'ordine naturale delle cose, eppure è terribile vedere le proprie radici cedere. Pensare che a un certo punto si deve diventare i genitori (anche) dei propri genitori. È spaesante. È opprimente.
Invece capita, e capita nel momento peggiore. Quando il cervello dei figli adolescenti è un'esplosione di ormoni che li portano a sragionare (o per lo meno a fare cose incomprensibili per i genitori), anche nelle madri accade un fenomeno di riassestamento ormonale, un'adolescenza inversa che causa disorientamento.

Le schiacciate di Turuani ha il grande merito di sdoganare la menopausa e i sintomi fisici e psicologici che ne scaturiscono.

Io ho iniziato a notare dei cambiamenti già a quarantaquattro anni. Le fluttuazioni di estrogeni mi hanno provocato una flessione dell'umore verso il basso e più ansia. Chi mi segue sa che il 2023 è stato un anno infernale per la mia salute: l'intervento al cuore, l'emorragia interna, la pericardite chirurgica, il lungo ricovero.


Rientrati i sintomi fisici ha iniziato ad attanagliarmi il panico, la paura di stare male, e solo dopo molti mesi mi sto rendendo conto che, con quello che ho passato, non dovrei neppure stupirmi. Il fisico che cambia, per il trauma subito, ma anche per motivi endogeni: è un disastro. Ci sono giorni in cui non riconosco più i sintomi del mio corpo, i segnali che mi manda, mi sento come una zattera in balia in mezzo al mare e senza una bussola. L'unica cosa che posso fare è legarmi alla mia zattera e assecondare il movimento delle onde, sperando che prima o poi si calmino, che dietro una nuvola compaia la stella polare che mi indichi la direzione.

Il saggio di Turuani ci ricorda che tutto questo è normale. Che tante donne sono arrivate al limite prima di unire i puntini dei loro malesseri e realizzare che le loro manifestazioni avevano un denominatore comune: la perimenopausa.

Che è normale che si presenti e che, se troppo invalidante, va trattata in termini medici dagli specialisti.
Tuttavia questa fase di transizione, che ci costringe, volenti o nolenti, a rimetterci in gioco e a inventarci, ha anche dei lati positivi. Il libro affronta anche la situazione lavorativa di noi cinquantenni attuali: abbiamo iniziato a lavorare tra i venticinque e i trent'anni, magari abbiamo anche investito nella carriera, abbiamo vissuto l'ingresso nel mondo del lavoro come un passo dovuto e automatico, mentre per le generazioni precedenti delle nostre madri e nonne non lo era affatto, e ci è sembrato scontato e doveroso riuscire a fare tutto: la madre e la manager.

Arrivate a cinquant'anni vediamo il lavoro con più distacco, ci mettiamo meno cuore e meno fegato.

C'è stato un disincanto, la carriera è arrivata fino a un certo punto, poi si è fermata, subiamo comunque il gender gap, ma il successo in azienda non è il primo dei nostri pensieri e iniziamo a sognare una pensione che se va bene arriverà tra quindici o vent'anni. Su questo punto – la chimera della pensione cullata dalle cinquantenni – Turuani si stupisce un po', io un po' meno: avendo avuto una madre che si è ritirata a quarantatré, ogni volta che sbircio nei miei prossimi due decenni lo stomaco mi fa un giro completo.

Siamo stanche, certi ritmi non li reggiamo più e accettarlo è durissimo. Tuttavia ci viene chiesta sempre la stessa performance, menomale che possiamo sopperire con l'esperienza.

E poi succede una cosa a cinquant'anni. Abbiamo meno paura del giudizio e meno freni inibitori. Se il collega mi chiama "signora" anziché "ingegnere", e poi chiama "dottore" il maschio che è solo "geometra", lo faccio notare. Ho smesso da un pezzo di subire passivamente. Non ne ricavo nulla. Non è rancore, è puntiglio.
E poi qualcuna di noi, finalmente, impara a rilassarsi. A godersi un libro o un film sul divano, in solitudine, senza stress intorno. Anche in questo, ho già iniziato ad allenarmi, anzi, questa sera sono già in ritardo per la commedia romantica della maratona di questo Natale.
Quindi, concludo consigliando a tutte le mie coetanee questo saggio molto strutturato e ben documentato che forse non risolve i nostri problemi, ma ci fa capire una cosa: non siamo sole. E quella zattera in mezzo al mare che ci sballotta su e giù forse è una barca popolata da tante sorelle che si aiutano condividendo le loro storie.


Le schiacciate
Vivere i cinquant’anni a testa alta tra lavoro, figli adolescenti e genitori anziani

di Laura Turuani
Solferino
Saggio
ISBN 978-8828214786
ebook 12,99€
cartaceo 17,10€

Quarta

Alla soglia dei cinquant’anni le donne di oggi si ritrovano letteralmente «schiacciate» dalla fatica che le assale da ogni parte. Nate tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, hanno corso per tutta la vita, cercando sempre di dare il meglio, e ora si sentono travolte, stravolte, arenate. In effetti, se le osservassimo dall’alto, le coglieremmo a un incrocio inedito e irripetibile di passaggi cruciali: i figli adolescenti, l’arrivo della menopausa, i cambiamenti del corpo che comincia a sfiorire, i bilanci di coppia non sempre positivi, le asperità del lavoro, i genitori anziani, sempre meno autonomi e più bisognosi di aiuto. Laura Turuani racconta questa condizione tutta femminile a partire dalle storie raccolte nel suo lavoro di psicoterapeuta, restituendoci con sguardo limpido e partecipe come ci si sente «dentro». E suggerendoci come attraversare questa fase – che può anche durare anni – per uscirne più consapevoli, più sollevate, più solidali. È, quella delle schiacciate, una sfida che interpella contemporaneamente, e a volte impietosamente, i vari ruoli della donna – materno, femminile, coniugale, filiale, professionale – con un comune denominatore di perdita: della giovinezza, del vigore, del sex appeal, della sicurezza di sé e della progettualità. Un senso di lutto che, al momento, può sembrare definitivo ma che, se colto, capito, relativizzato, lascia intravedere aperture insperate. In primis, verso le altre donne – amiche, colleghe, sorelle – che attraversano lo stesso sentire, con cui condividere le possibili rinascite. Perché la vita, in questo tratto di strada, richiede pazienza e resilienza, che insieme aiutano a trovare un nuovo equilibrio con sé stesse e con gli altri.



Elena Genero Santoro
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Recensione: L'invenzione del bene e del male, di Hanno Sauer

Recensione: L'invenzione del bene e del male, di Hanno Sauer

Recensione: L'invenzione del bene e del male, di Hanno Sauer

Libri Recensione di Davide Dotto. L'invenzione del bene e del male di Hanno Sauer (Laterza). La morale non è qualcosa di innato quanto piuttosto il prodotto dell'evoluzione umana: il bene e il male attengono alla capacità e alle probabilità del singolo di sopravvivere: le quali aumentano se si appartiene a un gruppo.

L'invenzione del bene e del male di Hanno Sauer offre notevoli spunti di riflessione su un problema filosofico e storico di enorme importanza. Il titolo  richiama alla memoria la Genealogia della morale, ma mentre Nietzsche si concentra su una critica dei valori morali attraverso un'analisi storica e psicologica, Sauer espande il discorso in una trattazione antropologica di largo respiro, proponendo una chiave di lettura del nostro presente.

L'idea di fondo è che la morale non sia qualcosa di innato quanto piuttosto il prodotto dell'evoluzione umana.

L'argomentazione è rilevante in un contesto di dibattiti accesi e polarizzazioni estreme, dato che ci consente di ripensare le fondamenta dei nostri valori etico-sociali.
L'approccio adottato è interdisciplinare: attinge da filosofia, psicologia e neuroscienze, offrendo una visione sfaccettata e a tratti non convenzionale.
L'autore ci porta in un viaggio che va molto indietro nel tempo, non solo di secoli, ma di decine, se non centinaia di millenni, decisamente prima di qualunque testimonianza scritta.

L'invenzione del bene e del male di Hanno Sauer illustra come si sia fatta strada la cooperazione primitiva fino alle più complesse esperienze e istituzioni sociali.

Questa prospettiva ricostruisce le premesse remote dell’epoca moderna, che copre gli ultimi cinquecento anni. Un simile arco temporale ci impedisce di vedere la morale solo come un prodotto del pensiero umano, anche se dialettico. È qualcosa che affonda le sue radici prima dell'invenzione del linguaggio e delle prime comunità politiche. Il bene e il male attengono alla capacità e alle probabilità del singolo di sopravvivere: le quali aumentano se si appartiene a un gruppo. Inoltre, si aggiungono le prime tensioni tra individuo e comunità, l'autentico motore che ha guidato la maturazione dei nostri codici etici.



La sopravvivenza è l'autentico punto cruciale della distinzione tra bene e male.

Ogni riflessione morale si è evoluta come strategia per consentire al singolo di sopravvivere, se non da solo, grazie (e a volte nonostante) al gruppo. Il fenomeno da cui è originata la nostra civiltà (e la nostra cultura) è una sorta di autodomesticazione che ha reso il genere umano geneticamente predisposto alla cooperazione.
La dinamica che ne è scaturita comprende:
  • La sopravvivenza del singolo attraverso la comunità.
  • La sopravvivenza della comunità che a certe condizioni può non escludere il sacrificio del singolo.
Nulla di diverso da una antica tragedia che ci racconta da venticinque secoli di come la società umana cerchi costantemente di bilanciare le esigenze del singolo con quelle della collettività: quella di Antigone.

Si può parlare di invenzione del bene e del male nella misura in cui l'idea della morale si presenta come una nicchia ecologica, di fatto una tecnologia – al pari del linguaggio – al servizio della nostra evoluzione cui si aggiunge il resto.

Non possiamo fare a meno di un apporto tecnologico sempre più invadente e consistente, poiché siamo diventati fisicamente più fragili, ma più forti grazie a un sapere condiviso trasmesso non geneticamente, ma socialmente, attraverso biblioteche, archivi, e altre forme di conservazione della conoscenza.

L'invenzione del bene e del male di Hanno Sauer si spinge fino alle sfide etiche del nostro presente, incluso l'emergere dell'Intelligenza Artificiale.

Non si può nascondere che delegare a strumenti automatizzati la raccolta e l'elaborazione di informazioni la cui mole è divenuta spropositata e complessa sollevi nuove questioni.
Ci viene anche il sospetto che il nostro destino non si sia giocato negli ultimi due-trecento anni (dalla Rivoluzione industriale in poi), e che non ci stiamo affatto avvicinando al baratro. Semplicemente ci siamo sempre mossi intorno a esso senza mai cadervi. E continueremo a non caderci fintanto che faremo fronte alle tensioni costanti, portandoci al passo successivo, in un processo che prevede il continuo adattamento (anche in termini di rinegoziazione) delle nostre basi morali.


L'invenzione del bene e del male

di Hanno Sauer Laterza Saggio
ISBN: 978-8858152003
Cartaceo € 22,80
Ebook € 14,99

Quarta

La morale esiste da molto prima che si parlasse di Dio, di religione o filosofia. La sua storia è, anzitutto, il frutto di un processo di selezione naturale. Questo libro risale allora fino agli albori dell'umanità: nelle foreste dell'Africa orientale che, 5 milioni di anni fa, diradano per effetto dei cambiamenti climatici. Tra gli ominidi che scendono dagli alberi ci sono anche i nostri antenati, che si adattano agli spazi aperti organizzandosi in gruppi estesi. È sotto la pressione di fattori ambientali che la moralità emerge come fondamento di una cooperazione tanto precaria quanto essenziale alla sopravvivenza della specie. Hanno Sauer offre al lettore una 'genealogia' della morale che si muove tra paleontologia e genetica, psicologia e scienze cognitive, filosofia ed evoluzionismo. Le tappe di questo percorso marcano le principali trasformazioni morali nella storia dell'umanità, arrivando fino ai giorni nostri. La crisi morale del presente, ci insegna Sauer, è il risultato di secoli, millenni, milioni di anni di stratificazioni. Ripercorrerne lo sviluppo è l'unico modo per costruire un futuro insieme.


Davide Dotto

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