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Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Cinema Di Elena Genero Santoro. Dove osano le cicogne e Joy, due film sulla fecondazione assistita disponibili su Netflix: una commedia sulla maternità surrogata e un biopic sulla sperimentazione pionieristica che ha portato alla prima bambina concepita in vitro.

Angelo Pintus e la moglie Michela hanno penato a lungo per mettere al mondo il figlio Rafael con l’aiuto della fecondazione assistita. Da questa esperienza complessa e impegnativa, senz’altro dolorosa anche se conclusasi con un lieto fine, è nato il film Dove osano le cicognedisponibile in abbonamento su Netflix – in cui Angelo Pintus, che non si è neppure cambiato il nome, porta in scena una storia di procreazione difficile. Lui e la moglie "fittizia" Marta non riescono a concepire per vie naturali, in parte per l’età, ma soprattutto perché lei soffre di una forma invasiva di endometriosi. Così, consigliati dall’amico Andrea, si rivolgono a una clinica privata spagnola dove viene proposta loro la maternità surrogata.

Dove osano le cicogne
Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Dove osano le cicogne

REGIA Fausto Brizzi
SCENEGGIATURA Gianluca Belardi, Fausto Brizzi, Herbert Simone Paragnani, Angelo Pintus
PRODUZIONE | PRODUTTORE PiperFilm, Lovit, Netflix Studios, Tramp Ltd.
DISTRIBUZIONE PiperFilm
MUSICHE Andrea Bonini
FOTOGRAFIA Marcello Montarsi
ANNO 2025
CAST Angelo Pintus, Marta Zoboli, Beatrice Arnera, Andrea Perroni, Tullio Solenghi, Maria Amelia Monti, Imma Piro, Antonio Catania


C’è una volontaria, Luz, che, pur di trasferirsi in Italia, metterà al mondo, “in forma gratuita”, l’embrione concepito in vitro e biologicamente figlio di Angelo e Marta.

Pur sapendo di violare la legge (la maternità surrogata in Italia è un reato universale), Angelo e Marta accettano. Il concepimento va a buon fine e la coppia torna a casa portandosi dietro Luz. Da quel momento Angelo e Marta devono mettere in atto mille strategie per garantire il parto senza destare sospetti; fingono la gravidanza di Marta comprando protesi di silicone, mentono a tutti, anche al padre di Marta, un carabiniere in pensione sospettoso e pignolo che ricorda Robert De Niro quando si accanisce con Ben Stiller in Ti presento i miei.

La commedia ha un ritmo serrato, tante gag e un tono leggero.

Si ride molto mentre un paio di concetti traspaiono in controluce: avere un figlio per vie non naturali (e in questo caso pure illegali) è un affare costosissimo, infatti i Pintus iniziano a tirare fuori migliaia di euro da quando Luz sale in aereo e pretende la prima classe e continuano fino a corrompere la Doula (Maria Amelia Monti) incaricata di seguire il parto.
E poi, che avere un figlio è un desiderio talmente potente e doloroso da far passare sopra ogni scrupolo morale e legale.
Si arriva a un finale molto più politicamente corretto di quanto atteso, ma balzando tra mille situazioni contorte, battute al vetriolo e qualche colpo di scena. Alla fine il ritmo del film la fa da padrone e l’ora e mezza di pellicola si fa bere come gazzosa.

Rimane la domanda: cosa sareste disposti a fare per avere un figlio? Anche a violare la legge?

I Pintus del film non prendono nemmeno in considerazione altre forme di genitorialità, l’adozione, l’affido; il desiderio struggente che li consuma è quello di avere un bambino tutto loro.
Oggi ci domandiamo se la gestazione per altri sia moralmente accettabile o meno, se sia il reato universale che lo stato italiano cerca di combattere in ogni modo o se, sotto certe condizioni, possa essere anche un gesto di solidarietà o di amore. Siamo tutti d’accordo che se parliamo di posti come l’India, dove le donne partoriscono figli per altri nove volte in nove anni per morire di consunzione prima di arrivare ai trent’anni, stiamo parlando di sfruttamento, abominio e messa al mondo di neonati a fini di lucro. Ma le situazioni intermedie sono tantissime. La prima volta che ho letto, tanti anni fa e in tempi non sospetti, di una nonna che partoriva il nipote per la figlia e il genero, forse in America, ho pensato che fosse una cosa bella. Che io per mia sorella un figlio lo avrei fatto, se fossi stata nelle condizioni fisiche adeguate.

Quindi il dibattito è tutto meno che chiuso.

Più la scienza va avanti, più si aprono possibilità e più le domande di cosa sia lecito fare si infittiscono.
In realtà, forme di maternità surrogata ante litteram sono sempre esistite. È sempre accaduto che, se la “signora” di casa non riusciva a concepire, il padrone mettesse incinta una servetta e si tenesse il bambino. E chissà se la servetta era consenziente.
Poi però è stata inventata la fecondazione in vitro e anche le modalità di concepimento si sono evolute.



Il secondo film che mi è capitato di guardare di recente è Joy, che a dispetto del nome, gioia, ha un tono tristissimo.

Louise Joy Brown, nata nel 1978, è la prima bambina concepita in provetta nel Regno Unito. Prima di arrivare a lei, due medici e un’infermiera hanno sperimentato per almeno tre lustri, con errori, speranze infrante, pochi finanziamenti, opinione pubblica contraria, chiesa ostile.
Loro erano Robert Geoffrey Edwards, Patrick Steptoe e Jean Purdy e Joy racconta la loro storia, specialmente quella di Jean Purdy, che come infermiera non aveva titoli ufficiali per ricevere dei riconoscimenti accademici, ma che ha avuto dei tributi postumi.
Joydisponibile in abbonamento su Netflix – inizia negli anni sessanta, con un giovane ed entusiasta Edwards che assume Jean Purdy come assistente e coinvolge l’anziano Steptoe, ginecologo pioniere della laparoscopia, nella sua sperimentazione. Sappiamo che la storia finisce in gloria, che Edwards ricevette il nobel nel 2010 per il suo contributo alla medicina, e solo lui perché era l’unico ancora in vita, e che grazie al lavoro dei tre sperimentatori sono nati milioni di bambini che diversamente non avrebbero mai visto la luce, ma il film Joy narra gli anni precedenti, quelli in cui non vi era certezza del risultato, quelli fatti di cadute, di sogni infranti, di fallimenti, di voglia di arrendersi.

Joy
Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Joy

REGIA Ben Taylor
SOGGETTO Rachel Mason, Jack Thorne, Emma Gordon, Shaun Topp
PRODUZIONE | PRODUTTORE Pathé, Pathe UK, Wildgaze Films
DISTRIBUZIONE Netflix
MUSICHE Steven Price
FOTOGRAFIA Jamie Cairney
ANNO 2024
CAST Thomasin McKenzie, James Norton e Bill Nighy


Joy narra soprattutto la storia di Jean Purdy, dei suoi scrupoli morali.

Lei era cristiana, appartiene alla comunità che ruota intorno alla chiesa, sua madre è molto devota e la allontana quando lei inizia a sperimentare sugli embrioni. Gli amici le voltano le spalle, il prete le dice che può tornare se si pente. Ma lei non vuole pentirsi. Jean Purdy rimane sola, prosegue la sua attività anche se alcune cose non le piacciono: i suoi colleghi praticano pure gli aborti e per lei, cristiana, non è una bella cosa, il dubbio di coscienza la attanaglia, ma va avanti. Rimane, con una missione: aiutare le donne che desiderano un figlio e che non possono averlo. Lo fa anche perché sa di non poter diventare madre: soffre di una grave forma di endometriosi e non concepirà mai.

Jean Purdy si impegna per le altre, perché quelle come lei possano realizzare il loro sogno.

Non solo svolge il lavoro pratico con gli embrioni, ma anche quello umano con le aspiranti mamme. Le accompagna, rende il loro percorso meno gravoso, le sorregge mentre deve distruggere le loro speranze perché gli esiti delle terapie non sono quelli attesi o perché il bambino che portano in grembo non nascerà.
Jean Purdy, la cui storia è diventata nota solo di recente, si è immolata per le donne, per la fecondazione in vitro, per la scienza. Ha donato la sua vita, con molto amore. Morirà a soli trentanove anni per un cancro, dopo aver lasciato un segno indelebile nella storia della maternità assistita.




Elena Genero Santoro
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Povere creature!, un film di Yorgos Lanthimos: la recensione

Povere creature!, un film di Yorgos Lanthimos: la recensione

Povere creature!, un film di Yorgos Lanthimos: la recensione

Cinema Recensione di Stefania Bergo. Povere creature!, l'ultimo film di Yorgos Lanthimos, adattamento del romanzo omonimo di Alasdair Gray. L'emancipazione femminile vista come riconquista del proprio piacere sessuale. Una pellicola visionaria dalle atmosfere gotiche, steampunk e wired, con una protagonista indimenticabile.

Povere creature! – disponibile in abbonamento su Disney+ – è il nuovo film di Yorgos Lanthimos, il regista greco di Dogtooth, The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro e La favorita. In questa pellicola dominano atmosfere gotiche, steampunk e wired, con un uso espressivo delle ombre, del bianco e nero e un abbondante utilizzo dell'obiettivo fisheye per deformare lo spazio in modo grottesco e stimolare lo sguardo dello spettatore. La palette di riferimenti cinematografici e letterari è ampia, come Frankenstein di Mary Shelly, Metropolis di Fritz Lang o Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau.
Candidato a 11 premi Oscar, ha portato a casa quattro statuette, tra cui quella per la miglior attrice protagonista a Emma Stone e tre riconoscimenti tecnici che ben sottolineano la potenza visiva del film: miglior scenografia, trucco e acconciature e costumi.
La colonna sonora di Jerskin Fendrix – per cui era candidato all'Oscar – è il completamento naturale di questo film artisticamente ineccepibile, sottolineando con una successione di cacofonie l'entropia di scene, personaggi e temi trattati.

NB: in questo articolo è stato inserito un filtro "no spoiler" che rende sfocate alcune frasi; per leggerle basta passarci su con il mouse da pc o toccare lo schermo da mobile.

Povere creature! inizia col colore, nel primo frame, per poi virare subito verso il bianco e nero. Il colore e la sua assenza sono funzionali alla narrazione, sottolineano i vari momenti della crescita personale di Bella Baxter, interpretata da una splendida Emma Stone in stato di grazia.

Bella Baxter è il risultato dell'unione di una donna morta suicida e del suo bambino che portava in grembo ancora vivo – di cui non si fa menzione del sesso. Bella ha infatti il corpo della donna e il cervello del feto, è una donna-bambina che deve imparare a coordinare i movimenti, a camminare, a parlare, a pensare. Una strada in salita il cui lato positivo è l'innocenza, il non avere sovrastrutture, punto di partenza per un processo di formazione scevro da condizionamenti sociali.

È evidente il richiamo al Frankenstein di Mary Shelly, anche se in questo caso il vero "mostro", fisicamente parlando, è il creatore di Bella, il dottor Godwin Baxter, interpretato dall'eclettico Willem Dafoe.

Il suo volto è deformato e pieno di cicatrici dovute agli esperimenti che il padre ha condotto su di lui quando era piccolo, non per violenza gratuita ma per amor di scienza, dice lui. La violenza subita viene infatti raccontata in modo asettico, razionale, con il black humor che pervade tutto il film. E nello stesso modo Godwin, che Bella chiama semplicemente God, alleva la sua creatura, che ha fredde nozioni di anatomia e conosce le regole dettate dallo scienziato ma in lei non è ancora presente alcuno spunto emotivo.

Povere creature!
Povere creature!, un film di Yorgos Lanthimos: la recensione

Povere creature!

REGIA Yorgos Lanthimos
SOGGETTO Alasdair Gray
SCENEGGIATURA Tony McNamara
PRODUZIONE | PRODUTTORE Yorgos Lanthimos, Ed Guiney, Andrew Lowe, Emma Stone
DISTRIBUZIONE The Walt Disney Company
MUSICHE Jerskin Fendrix
FOTOGRAFIA Robbie Ryan
ANNO 2023
CAST Emma Stone, Margaret Qualley, Willem Dafoe, Mark Ruffalo, Christopher Abbott

All'inizio del film Emma Stone si muove, parla e pensa come avesse tre, quattro anni. Tutto è scoperta, pone domande spiazzanti, fa capricci.

La sua interpretazione è perfetta, riesce a sostenere ogni sfumatura del personaggio e a essere sempre credibile. Il suo sguardo riesce a replicare la meraviglia tipica dei bambini, come se vedesse tutto per la prima volta.
I suoi progressi vengono dettagliatamente annotati da Max McCandles, un collaboratore di Godwin che ha il compito di studiarne la crescita. Una crescita che all'improvviso diventa tumultuosa, quando Bella pretende di vedere cosa che c'è fuori l'enorme casa vittoriana in cui vive, circondata da creature nate da innesti bizzarri, protetta dal mondo esterno. Ma lei quel mondo lo vuole mettere in bocca, come fanno i bambini piccoli, è avida di conoscenza, brucia di curiosità.

L'epifania per Bella è l'esplorazione del suo corpo, la scoperta della masturbazione – «Bella ha scoperto felicità quando vuole».

Inizia a viverla con estrema naturalità, senza malizia, parlandone apertamente come un segreto svelato da condividere, sebbene le venga detto: «Smetti immediatamente di darti piacere! Nella buona società non si fanno certe cose».
Per tenerla ingabbiata in un mondo protetto ma chiuso, Godwin propone a Max di sposare Bella, con la clausola di abitare per sempre con lui. È l'avvocato incaricato di redigere il contratto matrimoniale a dare la svolta alla trama e colore alla pellicola. È con Dunkan Wedderburn, interpretato da Mark Ruffalo, che Bella scopre il sesso. Lui la irretisce come fa un manipolatore con la sua vittima, parlandole di libertà e offrendosi di portarla a scoprire il mondo. Vista la sua determinazione, Godwin non può che lasciarla andare «perché possiede il libero arbitrio». Ed è allora che finisce il bianco e nero e inizia l'emancipazione di Bella.

Il sesso come emancipazione femminile, conquista di consapevolezza.

Per i restanti tre quarti del film Bella esplora il suo corpo attraverso i piaceri del sesso con Dunkan – e non solo –, in un viaggio fisico e figurato attraverso l'Europa steampunk con ambientazioni che rievocano la Metropolis di Lang su un substrato vittoriano. E parallelamente all'aumentare della sua consapevolezza si palesano gli atteggiamenti possessivi dell'uomo, che inizia a decidere quanti dolcetti lei può mangiare, quando deve dormire, cosa può dire e come deve comportarsi in pubblico

Ma Bella non è addomesticabile.

Lei vuole ballare da sola e a modo suo – in un indimenticabile momento candidato a diventare cult alla stregua della danza di Mercoledì Addams o quella di Vincent e Mia in Pulp fiction. Lui impazzisce di gelosia e arriva a «intrappolarla» come un bagaglio per una destinazione apparentemente isolata dal mondo esterno. Eppure, proprio allora Bella prende coscienza non solo del suo corpo ma anche del suo intelletto, iniziando a leggere e disquisire di filosofia grazie all'interazione con personaggi minori, e della sua umanità, quando si scontra con l'ingiustizia sociale della povertà in una scena decisamente potente, teatrale, pervasa di giallo.

Povere creature! di Yorgos Lanthimos è un film femminista? Forse no, per essere un film femminista dovrebbe essere più universale, mentre questo è un percorso di emancipazione femminile personale.

Il percorso di Bella è palese, non retorico, ma forse si poteva approfondire il suo interesse per libri, filosofia, giustizia sociale e politica relegati a meri dettagli, invece di incentrare tutto sul sesso esplicito – cosa che tra l'altro non si evince dal trailer ma che dà un senso al fatto che sia VM 14. È vero che il corpo e il sesso delle donne sono quelli più sfruttati e giudicati, su cui viene esercitata la maggiore pressione sociale, ma davvero è questa la chiave dell'emancipazione femminile? O meglio, davvero è questo il modo per raccontarla? L'impressione è che questo sia frutto di una narrazione maschile che, per quanto aperta e solidale, cade ai margini in inevitabili stereotipi, esibendo a proprio uso e consumo un corpo di donna adolescente – senza peli né mestruazioni. Una donna che è ritenuta "speciale", non ordinaria. Un'eccezione. Una donna che inizialmente ha l'intelletto di una bambina e di fatto viene manipolata, abusata da uomini adultinel finale lo sviluppo cognitivo è invece in linea col corpo, lo si denota dal modo in cui si muove nello spazio, da come parla, dal fatto che prepari esami universitari complessi o esegua operazioni chirurgiche, che elabori una sua vendetta personale.
Ci sono comunque messaggi importanti, nella pellicola di Lanthimos.

Il percorso di formazione di Bella ben rappresenta il binomio patriarcato – emancipazione femminile.

All'inizio del film Bella è una donna attraente che non ragiona, non ha coscienza di sé, è facilmente manipolabile. Poi acquista consapevolezza, brama la libertà e la conoscenza, e allora fa paura, non va più bene. Va ricacciata nelle gabbie create per lei dagli uomini.
C'è poi il riferimento alla prostituzione, che apre un dibattito divisivo su chi la considera libertà dagli schemi patriarcali – «Questa cosa delle prostituzione mette in discussione il desiderio di proprietà degli uomini», dice Bella alla fine – e chi la vede perfettamente allineata ad essi. Bella inizia con «Potrei cercarmi un amante [...] che mi mantenga ma che potrebbe richiedere molte attenzioni, oppure venti minuti alla volta e il resto della giornata libera per studiare il mondo e il suo miglioramento» illudendosi di poter scegliere lei con chi fare sesso. Ma presto si rende conto che non è così, che, scevra della scelta cosciente, la prostituzione è solo uno stato di orrore – «Non preferireste che fossero le donne a scegliere? [...] Non avreste la vaga sensazione che fossimo in uno stato di orrore quando sobbalzate».

Il ritorno a casa è forzato dalla contingenza. Ma è anche il momento in cui Bella Baxter raggiunge la vera emancipazione, decidendo che fare del suo futuro.

Il finale ha un risvolto inaspettato che chiude il cerchio. Il tentativo di riportare Bella alla sua vita precedente, imprigionata in una relazione tossica – «Tu sei mia», dice lui, «Io non sono un territorio», risponde lei –, passa ancora una volta attraverso il sesso, questa volta la sua negazione, o meglio, attraverso la negazione del piacere femminile. E forse è questo il messaggio di Lanthimos cui si arriva alla fine, come se anche questo fosse un processo di formazione, questa volta dello spettatore: l'emancipazione delle donne non ha a che fare con la loro vagina ma con la clitoride, cioè col loro piacere. È su di esso che il patriarcato detiene il controllo da sempre, esclusivamente finalizzandolo a quello maschile. Che si faccia attraverso il sesso sfrenato o un percorso di studi – o entrambi – forse è questa l'emancipazione: riappropriarsi di sé, del proprio piacere, quasi fosse un potere che rende di fatto una donna sessualmente indipendente dagli uomini, e di conseguenza libera di scegliere da sola che posto occupare nella società.
Che ne pensate? Avete letto tra le righe lo stesso messaggio?





Stefania Bergo
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Oppenheimer, un film di Christopher Nolan: la recensione

Oppenheimer, un film di Christopher Nolan: la recensione

Oppenheimer, un film di Christopher Nolan: la recensione

Cinema Recensione di Davide Dotto. Oppenheimer, l'ultimo film di Christopher Nolan. Il Prometeo moderno e l'atomica.

Il film Oppenheimer di Christopher Nolan – disponibile a pagamento su Prime Video e vincitore di cinque Golden Globe 2024, tra cui Miglior film drammatico, Miglior regista, Migliore attore in un film drammatico, Migliore attore non protagonista e Migliore colonna sonora originale – racconta la storia di un uomo e di un luminare della fisica quantistica (interpretato da Cillian Murphy) che ha svolto un ruolo cruciale nella progettazione e nello sviluppo della bomba atomica.

Fin dall'inizio, rappresenta la moderna incarnazione del mito, assai noto, e più volte rivisitato, di Prometeo, il quale ha donato “il fuoco divino” all’umanità. 

Un fuoco capace di riscaldare e proteggere dalle rigidità dell’inverno, e radice di una parola rassicurante: “focolare". È un dono che tra l’altro simboleggia: tecnologia, conoscenza, il controllo di una potenza distruttiva contro la quale – in natura – a volte si può poco.
In epoca moderna, il lavoro di scienziati come Robert Oppenheimer offre una forma di dominio sulla materia alla quale l'umanità non è pronta. È l'apice della conoscenza scientifica e tecnologica la cui messa in pratica è racchiusa non in un libro, ma in una scatola dentro un’altra scatola, un ordigno che moltiplica in maniera esponenziale e su vastissima scala un potere devastante senza possibilità di replica.
La “nuova edizione” del dono di Prometeo evidenzia la difficoltà – o impossibilità – di gestire scelte e responsabilità connesse, così come le implicazioni morali del tutto inedite legate a un uso improprio dell'energia atomica.

Oppenheimer, la locandina
Oppenheimer, un film di Christopher Nolan: la recensione

Oppenheimer

REGIA Christopher Nolan
SOGGETTO Kai Bird e Martin J. Sherwin
SCENEGGIATURA Christopher Nolan
PRODUZIONE | PRODUTTORE Christopher Nolan, Emma Thomas, Charles Roven
DISTRIBUZIONE Universal Pictures
MUSICHE Ludwig Göransson
FOTOGRAFIA Hoyte van Hoytema
ANNO 2023
CAST Cillian Murphy, Emily Blunt, Matt Damon, Robert Downey Jr., Florence Pugh, Josh Hartnett, Casey Affleck, Rami Malek, Kenneth Branagh

In tale contesto, il team capitanato da Oppenheimer si dedicò al progetto Manhattan, intraprendendo una corsa contro il tempo.

Questa iniziativa di natura militare aveva l'obiettivo di porre fine alla Seconda Guerra Mondiale e, in particolare, di sconfiggere la Germania nazista, impegnata anch'essa nello sviluppo di un'arma nucleare. Ciò rappresentava un dovere ineludibile il cui strumento – il giocattolo nuovo che grazie agli studi della fisica quantistica cominciava a diffondersi tra scienziati e studiosi – risultava incompatibile con il bisogno di certezze, di controllo e calcoli che tornano.

Robert Oppenheimer (nato nel 1904) non era solo uno studioso e un teorico della fisica, ma anche un uomo del suo tempo immerso nelle questioni politiche e sociali che caratterizzavano il XX secolo.

Ciò lo portò a prendere parte attiva ai dibattiti e alle rivendicazioni dell'epoca, opponendosi a fascismo e nazismo, avvicinandosi in modo significativo al pensiero comunista. Questo aspetto, tra gli altri, emerge con prepotenza nel film di Christopher Nolan, facendone un personaggio assai complesso (prima che "controverso", termine di cui forse si è abusato).
Che abbaglio poteva aver preso un uomo come Robert Oppenheimer, che percepiva la realtà com’era e come non era, in grado – in quanto energia – di rivelare in un attimo “la terribile potenza divina”, con il suo castigo che cade su giusti e ingiusti? E perché questa avrebbe dovuto finire nelle mani dell’umanità? Questo era ciò a cui conducevano la formula scoperta da Einstein [E=mc²] e le intuizioni degli studiosi della meccanica quantistica.

Si è scoperto che dietro l’apparente ordine c’è il caos, e di questo caos la scienza prende atto guardandoci fin troppo dentro. 

Talmente dentro da far emergere una forza che ha molto in comune con i reconditi e oscuri anfratti dello spirito. Forse si tratta di quel vuoto, quel nulla che a una certa sollecitazione dà una risposta quando non se ne aspetta nessuna: qualcosa che richiama alla mente Nietzsche (a furia di guardare l’abisso, è l’abisso a guardarti dentro). Non c’è quasi riassunto più appropriato del film di Christopher Nolan.
Quando viene proiettato sullo schermo, il volto e il punto di vista di Oppenheimer assumono una fisicità intensa e inquietante. Tanto quanto la determinazione sbalorditiva verso un appuntamento ineludibile. Aveva in tasca una teoria da sperimentare e questa era la principale ambizione, unita all’ansia di voltare pagina e costruire un nuovo mondo su altre basi, archiviando una volta per tutte le guerre mondiali.

Solo che, paradossalmente, la sua visione d’insieme era parziale, dato che si scontrava con ciò che non conosceva e non poteva conoscere degli scenari che sarebbero seguiti.

Da qui i disperati tentativi di avere voce in capitolo – a emergenza nazionale conclusa – su quanto sarebbe accaduto dopo. Un dopo che non si era potuto immaginare, e un prima che non aveva avuto il tempo, o la possibilità, di concepire un'alternativa.
A guerra conclusa, “la stessa mente” che, in una situazione di emergenza nazionale, si era esposta ed espressa, aveva ragionato, scritto, messo in pratica le sue tremende conoscenze, nel 1954 è stata chiamata a rendere conto. Come se l’umanità intera non ne fosse coinvolta, e qualcuno intendesse puntare il dito, distogliere l’attenzione dalla responsabilità collettiva, lavandosene un poco le mani.




Davide Dotto

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Fair Play, un film di Chloe Domont: la recensione

Fair Play, un film di Chloe Domont: la recensione

Fair Play, un film di Chloe Domont: la recensione

Cinema Recensione di Elena Genero Santoro. Fair Play un film di Chloe Domont disponibile su Netflix. Un thriller psicologico realistico, una dirigente donna in un ambiente tossico comandato da uomini, i tentativi di manipolazione del suo compagno, il sesso come mezzo per esercitare potere e sopraffazione.

L’illusione dell’idillio è solo iniziale. Lei è una bella bambolina fasciata in uno slipdress chiaro e lui le chiede di sposarlo.
Fanno sul serio, sembrano la coppia dei sogni. Emily e Luke.
Sono reduci da una festa di matrimonio altrui. E quale momento migliore? Si amano.
Il gioco di seduzione continua sul luogo di lavoro: una società che opera tra investimenti e alta finanza. Lì è proibito avere una relazione tra colleghi. Lì fanno finta di conoscersi a stento, ma sono complici. In realtà già convivono.

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Sul lavoro la pressione è altissima. È uno di quegli ambienti in cui non ci si rilassa mai.

Un po’ alla Il diavolo veste Prada che però aveva i toni della commedia. Questo è un thriller psicologico.
I nostri protagonisti non vedono mai la luce del sole, cosa che conferisce fin da subito un tono cupo al racconto: iniziano a lavorare col buio, finiscono col buio, non hanno il tempo di prepararsi un tramezzino, si stordiscono tracannando alcolici.
Uno stile di vita angosciante, che non lascia spazio a nulla di personale. Figuriamoci a una relazione.
E quando un dirigente cede allo stress, dà di matto e distrugge tutto ciò che c’è nel suo ufficio – ironicamente, mentre i subalterni stanno seguendo un corso di formazione sull’integrità in azienda e sulla civile convivenza – per Emily e Luke iniziano i problemi.

Emily ha sentito dire che per il posto di quel dirigente potrebbe essere chiamato Luke, glielo riferisce, è contenta per lui.

In realtà il b-boss, Campbell, inaspettatamente promuove Emily. La ritiene molto più brava, intuitiva, competente.
Le affida il ruolo e tutti i colleghi maschi che l’avevano bistrattata fino a quel momento diventano suoi subalterni. Compreso Luke.
Qui inizia la metamorfosi, o forse la rivelazione, di tutti i personaggi.
Non sappiamo come fosse il rapporto tra Emily e Luke prima della rottura degli equilibri. Sappiamo però che se da un canto a Emily pare normale essere felice per l’ipotetica promozione di Luke, al contrario Luke non riesce mai a dimostrare entusiasmo per la promozione di Emily. Le sue congratulazioni forzate, dopo che si è ubriacato, appaiono di una tristezza infinita. Ma Emily se lo aspettava, perché quando rincasa con la (lieta) notizia, anziché essere contenta ha l’aria di una che sta per salire al patibolo. Teme la delusione di Luke.

Di fatto, l’angoscia di Luke si esterna per ben due volte in un’unica direzione.

«Ci ha provato con te?» riferito al b-boss.
Il che evidenzia due concetti. Il primo è il possesso, la necessità di marcare il territorio. Per Luke, Emily è sua, nessun altro ha il diritto di provarci con lei. Il secondo è che Luke dà per scontato che una donna ottenga un riconoscimento al lavoro solo perché ha concesso favori sessuali.
Cosa che, peraltro, pensano anche gli altri colleghi, che non risparmiano battutine.

Barbie, la locandina
Fair Play, un film di Chloe Domont: la recensione

Fair Play

REGIA Chloe Domont
SCENEGGIATURA Chloe Domont
PRODUZIONE | PRODUTTORE Tim White, Trevor White, Leopold Hughes, Ben LeClair, Allan Mandelbaum, Andrew Zolot
DISTRIBUZIONE Netflix
FOTOGRAFIA Menno Mans
MUSICA Brian McOmber
ANNO 2023
CAST Phoebe Dynevor, Alden Ehrenreich, Eddie Marsan, Rich Sommer, Sebastian de Souza, Geraldine Somerville

Il b-boss Campbell crede davvero nelle capacità di Emily. Non le ha regalato nulla.

Tuttavia, quando Emily commette un errore negli investimenti, trova un solo modo per insultarla: puttana imbecille. Con riferimento alla vita sessuale. Perché le donne vengono riprese così, con l’appellativo di “donna di facili costumi”. Anche quando si parla di finanza. A un uomo nessuno direbbe una cosa del genere, anzi, nemmeno esiste l’insulto corrispondente.
Poi, appena Emily rimedia, Campbell minimizza. Le sue scuse consistono in un assegno con tanti zeri, la percentuale di Emily per l’affare andato in porto.

Luke.

Luke è un medio-man – l'uomo medio, contrapposto al super-man. Non sappiamo se avesse psicosi pregresse o tratti di personalità narcisistica. Di certo è, a suo modo, una vittima: del sistema, del pregiudizio introiettato che l’emblema del potere sia un maschio etero bianco. Quindi non riesce a vestire i panni del compagno che resta un passo indietro mentre la fidanzata ha successo. Diventa un manipolatore. Cerca di indurre Emily a passi falsi. Mina le sue certezze. Mette in dubbio la sua credibilità, la sua immagine, il suo look troppo frivolo. In realtà Emily indossa rigidi e formali tailleur blu sotto i quali, come unico vezzo, tiene delle camicette leggere, chiare, femminili e dalle linee morbide. Ma Luke insinua sempre quel concetto lì: Emily è stata scelta solo perché in grado di civettare – e forse qualcosa in più – con Campbell e ora che ricopre la sua nuova posizione, nessuno la prenderà sul serio.

Emily.

A Emily, Campbell offre l’opportunità che forse non avrebbe mai osato chiedere.
Dopo la promozione si trova in una posizione scomoda, in un conflitto di interessi. È sinceramente dispiaciuta per la delusione che sta provando l’uomo che ama. Vorrebbe che anche lui avesse un’occasione per crescere professionalmente e lei adesso è nella posizione di fornirgliela. Ma a un certo punto realizza due cose su Luke: che la sta boicottando e che non gode della stima di Campbell. Quindi Emily reagisce, affila le unghie. Non rimane a fare la vittima inerme.
Nel frattempo porta avanti la sua sfida personale: essere una dirigente donna in un mondo comandato da uomini.
Esigere rispetto pur mantenendo la propria natura femminile. È un equilibrio molto fragile, in un mondo in cui il più sentito complimento che spesso viene rivolto a una professionista in gamba è dirle che è una donna “con gli attributi”.
Non sappiamo se Emily, nel pretendere rispetto dai subalterni, abbia mantenuto la sua grazia iniziale o se si sia mascolinizzata nei modi. Su questo il film glissa.
Sappiamo però che si è omologata agli standard dei suoi pari livello uomini, andando addirittura con loro a cenare in un night club.

Il sesso.

Durante la narrazione Emily e Luke non riescono mai a fare l’amore.
All’inizio, prima della proposta di nozze, ci provano in un bagno. Sono ancora felici e innamorati, ma a lei arrivano le mestruazioni e i due si ritrovano in una situazione imbarazzante, bizzarra. Nulla di drammatico, se non fosse che questo intoppo nell’incipit getta la prima ombra sul destino del loro rapporto.
Dopo che Emily è stata promossa, Luke non riuscirà più a fare l’amore con lei. In parte non ne sarà in grado, in parte la punirà con l’astinenza. Il sesso in questa fase è dunque diventato un’arma di ricatto.
Quando i due protagonisti consumeranno un rapporto, il sesso sarà infine solo un mezzo per esercitare potere e sopraffazione.
Cioè esattamente il contrario dell’amore.

Se qualche spettatore può pensare che questo film non sia realistico, sbaglia.

Intanto la regista Chloe Domont ha costruito una storia che si ispira a fatti che lei stessa ha vissuto.
Io per prima, che ho guardato Fair Play con estremo gusto e l’ho adorato fino all’ultima sequenza, ho avuto un’esperienza analoga in passato. Non stiamo parlando di un incarico prestigioso e pressante come quello del film, ma di fatto il mio ex aveva tentato più volte, invano, di accedere a una posizione che successivamente è stata offerta a me. E le frasi del film: «Quel posto spettava a me» detta da lui e «Ti è così difficile accettare che io sia più brava di te?» detta da lei, mi sono suonate terribilmente familiari, come anche i tentativi di Luke di manipolazione e di distruzione dell’autostima di Emily. Pure le atmosfere sempre tese e le notti in bianco mi sono parse un triste déjà vu.

La morale è che sebbene si dia per scontato che in una coppia l’assunto di base sia l’amore, purtroppo non è così.

In una coppia vi sono dinamiche di potere che, se vengono scardinate, possono portare alla deflagrazione della coppia stessa e alla trasformazione di un innamoramento e di una passione in odio, rabbia, aggressività, rivalsa.
Il film descrive una storia individuale, con due protagonisti. In teoria i ruoli avrebbero potuto essere invertiti: lei che aspetta una promozione e lui che viene promosso al posto di lei. Ma questo succede già tutti i giorni. Al contrario non si può prescindere dal contesto reale: in questo mondo intriso di patriarcato una donna che supera il fidanzato al lavoro, purtroppo, fa ancora scalpore. È insolito, e il medio-man che si fa condizionare dal giudizio sociale, non regge emotivamente all’onta. Lo stesso medio-man che non è stato in grado di riconoscere il potenziale della sua compagna. Lo stesso medio-man che ha creduto di avere tra le mani una bella e manipolabile bambolina.
E forse è questo equivoco a monte, frutto di poco acume e di stereotipi di genere, la cricca iniziale che ha condotto alla frattura finale.





Fair Play, di Chloe Domont, è ora disponibile in abbonamento su Netflix.

Elena Genero Santoro
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Barbie, un film di Greta Gerwig: la recensione

Barbie, un film di Greta Gerwig: la recensione

Barbie, un film di Greta Gerwig: la recensione

Cinema Recensione di Elena Genero Santoro. Barbie un film di Greta Gerwig sulla bambola più famosa del mondo. Apparentemente superficiale, fiabesco sul piano della grafica immersiva, offre una critica feroce al modello patriarcale.

Sul film di Barbie c’erano aspettative altissime perché l’uscita è stata annunciata molti mesi fa e il tam tam mediatico è stato intenso.
La protagonista non ha bisogno di presentazioni: è Barbie, la bambola-ragazza di Mattel, inventata alla fine degli anni Cinquanta e divenuta in pochi decenni un giocattolo classico e intramontabile con cui le bambine di tutte le generazioni hanno in qualche modo interagito.

Barbie nasce come bambola rivoluzionaria, una bambola adulta che non costringe le bambine ad assumere il ruolo di madre nella finzione.

La prima scena del film, con citazione di “L’alba dell’uomo” di 2001: Odissea nello spazio, sottolinea proprio questo aspetto. Di recente Barbie è divenuta simbolo di inclusione, dopo essere diventata bassa, grassa, nera, asiatica, disabile in carrozzina, amputata e adesso pure down. Ma non è stata immune a feroci critiche nel tempo.


Barbie, la locandina
Barbie, un film di Greta Gerwig: la recensione

Barbie

REGIA Greta Gerwig
SCENEGGIATURA Greta Gerwig, Noah Baumbach
PRODUZIONE | PRODUTTORE Mattel Films | Margot Robbie, Tom Ackerley, Robbie Brenner, David Heyman, Amy Pascal
DISTRIBUZIONE Warner Bros.
FOTOGRAFIA Rodrigo Prieto
MUSICA Mark Ronson, Andrew Wyatt
ANNO 2023
CAST Margot Robbie, Ryan Gosling, America Ferrera, Michael Cera, Ariana Greenblatt, Rhea Perlman, Will Ferrell, Connor Swindells

Barbie vive a Barbieland, un paese in cui trascorre una vita ideale insieme a tante altre Barbie di tutti i colori ed etnie e altrettanti Ken.

Si sveglia al mattino nella sua casa a più piani e senza mura, vola giù come per magia fino in cucina dove fa il gesto di mangiare un waffle di plastica e di bere un latte inesistente da una tazza in realtà vuota. Poi la giornata si svolge senza drammi tra relax sulla spiaggia di una Malibù, anch'essa di plastica, e si conclude la sera con un mega party.
Intanto Ken trascorre l’esistenza cercando di farsi notare dalla sua amata, ma non ci riesce. Barbie è troppo presa dalla sua vita perfetta e immutabile per poter accorgersi di lui.
A Barbieland comandano le Barbie, sono loro le assolute padrone di casa. C’è la Barbie presidente, la Barbie scrittrice, le Barbie operaie dei cantieri. E poi ci sono i Ken, sempre al secondo posto.

Finché un giorno la nostra Barbie, tra tutte quella bionda, quella perfetta, la Barbie-stereotipo, la prima a cui pensiamo appena ci viene in mente il suo nome, non inizia ad avere delle giornate storte.

Il waffle esce bruciato dal tostapane, i piedi le diventano piatti e la testa le si riempie di pensieri di… Morte! Come può una bambola pensare alla morte? Scopre infatti che si è creata una connessione impropria con l’umana che giocava con lei, quindi la nostra eroina per eccellenza parte per il mondo reale per trovare la “bambina” che è caduta in depressione e che sta rendendo imperfetta la sua impeccabile vita di plastica. Ken si imbuca nel viaggio e arriva con lei in California.
Qui la situazione si capovolge.

Sotto l’apparente superficialità di una storia che ruota intorno alla bambola più famosa del mondo si celano piani di lettura più complessi e una opportuna riflessione sulla condizione della donna, controversa tanto quanto quella della Barbie stessa.

La Barbie per molto tempo è stata accusata di essere lo stereotipo di una donna perfetta e irraggiungibile, e di spingere le ragazzine alla frustrazione e all’anoressia.
Ma cosa accadrebbe alla Barbie se fosse una donna vera nel mondo reale?
La Barbie del film arriva in California in tutina rosa fucsia e rollerblade e inizia immediatamente a essere oggetto di allusioni sessuali, molestie, catcalling. Inizia a sentirsi a disagio, sbagliata e pure colpevole.
Inoltre, di donne, in giro, nelle posizioni di potere, non ce ne sono.
Persino alla Mattel il consiglio di amministrazione è composto da soli uomini in giacca nera e cravatta che pensano al profitto e non a cambiare il mondo.

E invece Ken, l’eterno secondo? Per lui il mondo reale è la manna dal cielo.

Tutti lo rispettano per il semplice fatto che è un maschio. Scopre il patriarcato e ne è entusiasta.
Il film ha soddisfatto tutte le mie aspettative: fiabesco sul piano della grafica immersiva – che induce lo spettatore a immaginare reali le ambientazioni con cui sognava da piccolo – e anche ricco di contenuti e di spunti di riflessione.
Inoltre l’idea è geniale. Sfrutta un personaggio noto a tutti per portare i curiosi nelle sale del cinema, li fa sognare come quando erano bambini e poi offre una critica feroce al modello patriarcale.
Parla del ruolo della donna nella società e anche del ruolo della Barbie.
Infine, ricco di gag esilaranti e con un Ryan Gosling perfetto come Ken-stereotipo, è fruibile sia da grandi che da piccini.
A Barbieland alla fine un equilibrio le Barbie e i Ken lo trovano, adesso non resta che fare lo stesso nella realtà.


La morale del film?

Che non c’è vita né umanità senza cambiamento, senza depressione, senza imperfezioni.
E che le più innamorate delle Barbie sono spesso le madri, non le figlie.
Tant’è che in sala la maggior parte delle donne, dalle ragazzine alle signore mature, me compresa, indossava qualcosa di un bel rosa carico. Rosa Barbie. Chiedete a mia figlia quanto ero eccitata prima della visione!
Ma alla fine la Barbie è lo stereotipo di una bella e impossibile cretina o un’ispiratrice di ideali di uguaglianza?
La risposta è nello slogan della Mattel: Puoi essere quello che vuoi.
E ci sarà sempre una Barbie che ci rappresenterà. Anche io ho il mio avatar (vedi foto ).
Film intelligente, consigliato a tutti, adulti, bambini, maschi e femmine, amanti di Barbie e non.




Elena Genero Santoro
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Freaks out, un film di Gabriele Mainetti: recensione

Freaks out, un film di Gabriele Mainetti: recensione

Freaks out, un film di Gabriele Mainetti: recensione

Cinema Recensione di Davide Dotto. Freaks Out, di Gabriele Mainetti. Un esperimento notevole, un film bello oltre che coraggioso, immaginifico e di grande effetto.

Da qualche tempo il cinema italiano si dedica a un genere piuttosto inconsueto, monopolio del mercato statunitense, targato Marvel, DC o Sony. Si tratta di un universo, quello supereroistico, che oltreoceano ha mostrato le sue evoluzioni e trasformazioni, a partire dagli eroi in calzamaglia degli anni Trenta a quelli degli anni Sessanta - Settanta. Un percorso che ha inteso accentuare il lato oscuro dei protagonisti in costume, delle ambientazioni, passando da Tim Burton a Christopher Nolan fino al Joker di Todd Phillips e a The Batman di Matt Reeves. Ciò insistendo sulla sovrabbondanza, i numeri da kolossal (di investimenti, incassi, effetti speciali).


In Italia lo spartiacque lo fa Gabriele Mainetti, prima con Lo chiamavano Jeeg Robot e ora con Freaks Out.

I Freaks di Mainetti hanno qualcosa di simile ai mutanti del Professor X, con la differenza che non sono nati in America. Il canone – sempre che ce ne sia uno, col quale comunque ci si deve misurare – è rimaneggiato come il contesto linguistico («Se non ce vedemo ce rebeccamo») e culturale: il film attinge a moltissime fonti, le citazioni che si inseguono danno struttura, colore e sostanza alla pellicola. Il materiale maneggiato e messo insieme è enorme e, forse, indulge a una tentazione enciclopedica.
Non c’è imitazione, nessun intento parodistico o caricaturale, i supereroi nostrani assumono una identità tutta particolare, non appaiono e non si sentono tali, se “idealizzazione” c’è, è a loro spese, da parte del villain della situazione (il nazista Franz, sui generis anche lui).

I Freaks sono fenomeni da baraccone che esorcizzano le proprie ombre e persino le ossequiano, ci giocano insieme.

All’interno del tendone di un circo rincorrono l’illusione dell’incanto, del meraviglioso e della leggerezza, prima che il mondo si accorga sin troppo di loro e li perseguiti. L’oscurità – quella vera – è all’esterno, nel quale si viene proiettati durante i bombardamenti di un anno assurdo: il 1943.
Il racconto nel suo fluire è radicato nella cultura e nel contesto italiani, non è quindi – l'ambientazione – un pretesto come in Spider-Man Far from home. Per qualche istante la "Storia"  è sospesa e pone i Freaks ai suoi margini ("out").
Noi senza circo semo niente. Solo una banda di mostri.
Freaks Out
Freaks out, un film di Gabriele Mainetti: recensione

Freaks Out

REGIA Gabriele Mainetti
SOGGETTO Nicola Guaglianone
SCENEGGIATURA Gabriele Mainetti e Nicola Guaglianone
PRODUTTORE/PRODUZIONE Goon Films, Lucky Red, Rai Cinema, GapBusters
DISTRIBUZIONE 01 Distribution
MUSICHE Gabriele Mainetti e Michele Braga
FOTOGRAFIA Michele D'Attanasio
ANNO 2021
CAST Claudio Santamaria, Aurora Giovinazzo, Pietro Castellitto, Giancarlo Martini, Giorgio Tirabassi, Franz Rogowski, Max Mazzotta

Non trovano una giustificazione al loro stato, non un altro posto nel mondo. Né – a maggior ragione – viene loro in mente di salvarlo, il mondo.

Non saprebbero in che modo, da che cosa.
Prevale un profondo senso di straniamento, di impotenza e frustrazione. Ma anche la consapevolezza che i veri mostri siano ben altri. In loro vi è un inedito candore misto a fragilità e incanto deluso, non sanno dove voltarsi per ricucirsi addosso le poche illusioni venute giù con lo strappo del tendone da circo. Viene loro in mente di fuggire, emigrare in America, ma convengono subito che non è la stessa cosa, «Ognuno lì va per conto suo». Forse è persino un mondo a sé.
I sogni di gloria impossibili del furfante di turno (il villain del racconto) li vedono come un’arma segreta. Vuole approfittare dei loro talenti per aprire un varco nella Storia e proiettare – al di là del consentito – il dominio nazista («Finalmente a casa, come i Fantastici 4» dirà Franz una volta imprigionati).

E fantastici lo sono veramente, ai suoi occhi, nonostante l’anacronismo: c’è la ragazza elettrica (Matilde), l’uomo degli insetti (Cencio), il quasi tale e quale Chewbecca di Star Wars (Fulvio), il simil-Magneto uomo calamita (Mario).

Freaks Out è un esperimento notevole, un film bello oltre che coraggioso, immaginifico e di grande effetto. L’opera è impegnativa, non solo nella realizzazione.
Un po’ di rumore – giustamente – questo film deve farlo e la mezz’ora di battaglia finale, qua e là  criticata, non è poi così fuori dalle righe. È uno spettacolo pirotecnico e violento che crea la confusione propria di un colpo di coda, e quindi l’effetto che si vuole ottenere. È un troppo che stroppia per forza, a maggior ragione se qui c’è quello che somiglia a un fuoco purificatore.

Non ci sono ambienti urbani d’oltreoceano, né metropoli da devastare (ci hanno già pensato – ahimè – i bombardamenti), ma spazi aperti. Né alcuna pretesa d’aver salvato il mondo, nemmeno da se stessi. La Storia non è spostata di una virgola: è il 1943 e si cita Badoglio.

C’è un aspetto che non emerge a sufficienza: nella cultura americana – e in quella europea – si insiste molto sull’antitesi tra civiltà e una barbarie contro la quale difendersi a spada tratta, tra “questa” e “la restante parte del mondo”, tra gli irriducibili buoni e i terrificanti cattivi. In Freaks Out disponibile in streaming su Prime Video – questa differenza non c’è. Cambiano le illusioni, ci sono quelle sane e quelle malate, l’idea di star dentro o fuori un qualche incantesimo protettivo. Cambia la pretesa di estenderlo a tutto il mondo, rendendolo più malato di quello che è, assassinando con ciò l’ultimo barlume di speranza (quella che nasce e brilla in mezzo, al di là o sopra la follia di tutti gli altri).




Davide Dotto
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The Batman, un film di Matt Reeves: recensione

The Batman, un film di Matt Reeves: recensione

The Batman, un film di Matt Reeves: recensione

Cinema Recensione di Davide Dotto. The Batman, un film di Matt Reeves. Un’accentuata introspezione in un cinecomic che richiama le atmosfere dark di Il corvo, ma strizza l'occhio anche a Taxi Driver e al tormentato Joker di Todd Phillips.

The Batman, di Matt Reeves, è un pullulare di ombre, di oscurità, di presenze inquietanti pronte a colpire. Siamo agli inizi, sono trascorsi due anni dalla svolta, due anni che hanno trasformato Bruce Wayne in un "animale notturno".
Devo scegliere i miei bersagli con attenzione. [Gotham] è una grande città, non posso essere ovunque. Ma loro non sanno dove sono io. Abbiamo un segnale adesso, per quando c'è bisogno di me. Ma quella luce nel cielo non è solo un richiamo. È un avvertimento. La paura è uno strumento.
The Batman
Basta questo per creare, da subito, l’atmosfera dark che ci proietta – insieme al mantra «Io sono vendetta» – nel film di Alex Proyas, Il Corvo, con Brandon Lee.
Bruce Wayne stesso, con le fattezze di Robert Pattinson si presenta in primo piano con gli occhi cerchiati di un eroe senza maschera, quasi a suggerire una identificazione tout court con il cavaliere oscuro, e le ombre che si porta dietro nella vita di tutti i giorni.
The Batman
The Batman, un film di Matt Reeves: recensione

The Batman

REGIA Matt Reeves
SOGGETTO Bob Kane e Bill Finger
SCENEGGIATURA Matt Reeves, Peter Craig, Mattson Tomlin
PRODUTTORE/PRODUZIONE Warner Bros. Pictures, DC Entertainment, 6th & Idaho Productions
MUSICHE Michael Giacchino
FOTOGRAFIA Greig Fraser
ANNO 2022
CAST Robert Pattinson, Zoë Kravitz, Paul Dano, Jeffrey Wright, John Turturro, Andy Serkis, Colin Farrell

Non tutte le ombre sono uguali.

Talune abitano e si accontentano della superficie, altre invece, tra le più nere, come vuole Dante: «Diverse colpe giù li grava al fondo».
Non si può parlare di doppia personalità o di identità da svelare, ma di una e una sola, coerente con se stessa. Nessuno è un boy scout, non ci sono Clark Kent ante litteram, o le versioni mondane e leggere di un alter ego inesistente. Capita invero si debba rispondere delle colpe dei padri.
Per quanto riguarda le maschere, non ce n’è bisogno dato che ciascuno ne indossa almeno una. Basta un abbozzo, o un paio di occhiali (come il caso del malavitoso Carmine Falcone e ciò per un’intuizione di John Turturro che lo interpreta ). La maschera a questo punto il costume – serve a confondersi nell’ambiente e nel flusso indistinto della tenebrosa Gotham City.

Speranze e illusioni sono a perdere.

A meno di far brillare all’improvviso una scintilla, o una nuova intuizione – «Ho avuto un effetto, qui, ma non quello che avevo in mente» – quella che permette di recuperare e fare (ri)emergere la propria umanità, e gettare al mondo un po’ di luce. Non c’è altro modo, in fondo, di mettere ordine se non tendere a un equilibrio in apparenza impossibile, disperato, precario e folle.
L’alternativa, quella di crogiolarsi nella propria comfort-zone e di assicurarsela a ogni costo, non è la soluzione ma il problema.

Inevitabile che The Batman di Matt Reeves richiami il Joker di Todd Phillips.

Ma anche le atmosfere di Taxi Driver, dell'Ora del Lupo (film del 2019 con Naomi Watts), e persino della Pastorale americana di Philip Roth.


Batman,  Joker, e quindi l’Enigmista e altri avversari, emergono dalla città, dalle sue vette o dai bassifondi, poco importa la propria estrazione sociale.
Ciò rende superflua ogni tentazione caricaturale, o il ricorso a costumi sgargianti, colorati e ridicoli.
Persino gli effetti speciali passano in secondo piano, come l’azione a favore di una forte tensione e di un’accentuata introspezione.
C'è poco da aggiungere, il trailer parla da sé.




Davide Dotto
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