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Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Cinema Di Elena Genero Santoro. Dove osano le cicogne e Joy, due film sulla fecondazione assistita disponibili su Netflix: una commedia sulla maternità surrogata e un biopic sulla sperimentazione pionieristica che ha portato alla prima bambina concepita in vitro.

Angelo Pintus e la moglie Michela hanno penato a lungo per mettere al mondo il figlio Rafael con l’aiuto della fecondazione assistita. Da questa esperienza complessa e impegnativa, senz’altro dolorosa anche se conclusasi con un lieto fine, è nato il film Dove osano le cicognedisponibile in abbonamento su Netflix – in cui Angelo Pintus, che non si è neppure cambiato il nome, porta in scena una storia di procreazione difficile. Lui e la moglie "fittizia" Marta non riescono a concepire per vie naturali, in parte per l’età, ma soprattutto perché lei soffre di una forma invasiva di endometriosi. Così, consigliati dall’amico Andrea, si rivolgono a una clinica privata spagnola dove viene proposta loro la maternità surrogata.

Dove osano le cicogne
Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Dove osano le cicogne

REGIA Fausto Brizzi
SCENEGGIATURA Gianluca Belardi, Fausto Brizzi, Herbert Simone Paragnani, Angelo Pintus
PRODUZIONE | PRODUTTORE PiperFilm, Lovit, Netflix Studios, Tramp Ltd.
DISTRIBUZIONE PiperFilm
MUSICHE Andrea Bonini
FOTOGRAFIA Marcello Montarsi
ANNO 2025
CAST Angelo Pintus, Marta Zoboli, Beatrice Arnera, Andrea Perroni, Tullio Solenghi, Maria Amelia Monti, Imma Piro, Antonio Catania


C’è una volontaria, Luz, che, pur di trasferirsi in Italia, metterà al mondo, “in forma gratuita”, l’embrione concepito in vitro e biologicamente figlio di Angelo e Marta.

Pur sapendo di violare la legge (la maternità surrogata in Italia è un reato universale), Angelo e Marta accettano. Il concepimento va a buon fine e la coppia torna a casa portandosi dietro Luz. Da quel momento Angelo e Marta devono mettere in atto mille strategie per garantire il parto senza destare sospetti; fingono la gravidanza di Marta comprando protesi di silicone, mentono a tutti, anche al padre di Marta, un carabiniere in pensione sospettoso e pignolo che ricorda Robert De Niro quando si accanisce con Ben Stiller in Ti presento i miei.

La commedia ha un ritmo serrato, tante gag e un tono leggero.

Si ride molto mentre un paio di concetti traspaiono in controluce: avere un figlio per vie non naturali (e in questo caso pure illegali) è un affare costosissimo, infatti i Pintus iniziano a tirare fuori migliaia di euro da quando Luz sale in aereo e pretende la prima classe e continuano fino a corrompere la Doula (Maria Amelia Monti) incaricata di seguire il parto.
E poi, che avere un figlio è un desiderio talmente potente e doloroso da far passare sopra ogni scrupolo morale e legale.
Si arriva a un finale molto più politicamente corretto di quanto atteso, ma balzando tra mille situazioni contorte, battute al vetriolo e qualche colpo di scena. Alla fine il ritmo del film la fa da padrone e l’ora e mezza di pellicola si fa bere come gazzosa.

Rimane la domanda: cosa sareste disposti a fare per avere un figlio? Anche a violare la legge?

I Pintus del film non prendono nemmeno in considerazione altre forme di genitorialità, l’adozione, l’affido; il desiderio struggente che li consuma è quello di avere un bambino tutto loro.
Oggi ci domandiamo se la gestazione per altri sia moralmente accettabile o meno, se sia il reato universale che lo stato italiano cerca di combattere in ogni modo o se, sotto certe condizioni, possa essere anche un gesto di solidarietà o di amore. Siamo tutti d’accordo che se parliamo di posti come l’India, dove le donne partoriscono figli per altri nove volte in nove anni per morire di consunzione prima di arrivare ai trent’anni, stiamo parlando di sfruttamento, abominio e messa al mondo di neonati a fini di lucro. Ma le situazioni intermedie sono tantissime. La prima volta che ho letto, tanti anni fa e in tempi non sospetti, di una nonna che partoriva il nipote per la figlia e il genero, forse in America, ho pensato che fosse una cosa bella. Che io per mia sorella un figlio lo avrei fatto, se fossi stata nelle condizioni fisiche adeguate.

Quindi il dibattito è tutto meno che chiuso.

Più la scienza va avanti, più si aprono possibilità e più le domande di cosa sia lecito fare si infittiscono.
In realtà, forme di maternità surrogata ante litteram sono sempre esistite. È sempre accaduto che, se la “signora” di casa non riusciva a concepire, il padrone mettesse incinta una servetta e si tenesse il bambino. E chissà se la servetta era consenziente.
Poi però è stata inventata la fecondazione in vitro e anche le modalità di concepimento si sono evolute.



Il secondo film che mi è capitato di guardare di recente è Joy, che a dispetto del nome, gioia, ha un tono tristissimo.

Louise Joy Brown, nata nel 1978, è la prima bambina concepita in provetta nel Regno Unito. Prima di arrivare a lei, due medici e un’infermiera hanno sperimentato per almeno tre lustri, con errori, speranze infrante, pochi finanziamenti, opinione pubblica contraria, chiesa ostile.
Loro erano Robert Geoffrey Edwards, Patrick Steptoe e Jean Purdy e Joy racconta la loro storia, specialmente quella di Jean Purdy, che come infermiera non aveva titoli ufficiali per ricevere dei riconoscimenti accademici, ma che ha avuto dei tributi postumi.
Joydisponibile in abbonamento su Netflix – inizia negli anni sessanta, con un giovane ed entusiasta Edwards che assume Jean Purdy come assistente e coinvolge l’anziano Steptoe, ginecologo pioniere della laparoscopia, nella sua sperimentazione. Sappiamo che la storia finisce in gloria, che Edwards ricevette il nobel nel 2010 per il suo contributo alla medicina, e solo lui perché era l’unico ancora in vita, e che grazie al lavoro dei tre sperimentatori sono nati milioni di bambini che diversamente non avrebbero mai visto la luce, ma il film Joy narra gli anni precedenti, quelli in cui non vi era certezza del risultato, quelli fatti di cadute, di sogni infranti, di fallimenti, di voglia di arrendersi.

Joy
Dove osano le cicogne e Joy: due film sulla fecondazione assistita

Joy

REGIA Ben Taylor
SOGGETTO Rachel Mason, Jack Thorne, Emma Gordon, Shaun Topp
PRODUZIONE | PRODUTTORE Pathé, Pathe UK, Wildgaze Films
DISTRIBUZIONE Netflix
MUSICHE Steven Price
FOTOGRAFIA Jamie Cairney
ANNO 2024
CAST Thomasin McKenzie, James Norton e Bill Nighy


Joy narra soprattutto la storia di Jean Purdy, dei suoi scrupoli morali.

Lei era cristiana, appartiene alla comunità che ruota intorno alla chiesa, sua madre è molto devota e la allontana quando lei inizia a sperimentare sugli embrioni. Gli amici le voltano le spalle, il prete le dice che può tornare se si pente. Ma lei non vuole pentirsi. Jean Purdy rimane sola, prosegue la sua attività anche se alcune cose non le piacciono: i suoi colleghi praticano pure gli aborti e per lei, cristiana, non è una bella cosa, il dubbio di coscienza la attanaglia, ma va avanti. Rimane, con una missione: aiutare le donne che desiderano un figlio e che non possono averlo. Lo fa anche perché sa di non poter diventare madre: soffre di una grave forma di endometriosi e non concepirà mai.

Jean Purdy si impegna per le altre, perché quelle come lei possano realizzare il loro sogno.

Non solo svolge il lavoro pratico con gli embrioni, ma anche quello umano con le aspiranti mamme. Le accompagna, rende il loro percorso meno gravoso, le sorregge mentre deve distruggere le loro speranze perché gli esiti delle terapie non sono quelli attesi o perché il bambino che portano in grembo non nascerà.
Jean Purdy, la cui storia è diventata nota solo di recente, si è immolata per le donne, per la fecondazione in vitro, per la scienza. Ha donato la sua vita, con molto amore. Morirà a soli trentanove anni per un cancro, dopo aver lasciato un segno indelebile nella storia della maternità assistita.




Elena Genero Santoro
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It ends with us, un film di Justin Baldoni: la recensione

It ends with us, un film di Justin Baldoni: la recensione

It ends with us, un film di Justin Baldoni: la recensione

Cinema Recensione di Elena Genero Santoro. It ends with us, siamo noi a dire basta, un film di Justin Baldoni, tratto dall'omonimo libro di Colleen Hoover, a sua volta ispirato alla storia vera dei genitori dell'autrice.

It ends with us, siamo noi a dire basta, film tratto dall'omonimo libro di Colleen Hoover, a sua volta ispirato alla storia vera dei genitori dell'autrice, mi lascia perplessa già dal titolo.
Premetto che non ho letto il libro, quindi le mie considerazioni tengono conto solo della pellicola cinematografica che, intuisco, essere comunque distante dalla vicenda reale che ha ispirato il tutto, non fosse altro per l'ambientazione attuale, con tanto di smartphone all'ultimo grido.
Il film è disponibile in streaming a noleggio su Mediaset Infinity+ o in abbonamento su Prime Video e TIM Vision.

NB: in questo articolo è stato inserito un filtro "no spoiler" che rende sfocate alcune frasi; per leggerle basta passarci su con il mouse da pc o toccare lo schermo da mobile.

La storia è di per sé semplice: Lily Bloom (Blake Lively), fioraia con un nome ispirato ai fiori e con un amore incondizionato per le piante, e Ryle Kincaid (Justin Baldoni), neurochirurgo palestrato dalla carriera avviata, si conoscono, si innamorano.

Ma quella che sembra la relazione ideale si rivela presto un rapporto tossico perché il buon Ryle ha degli eccessi di rabbia che sfoga con violenza fisica.
Dopo alcuni scoppi di gelosia incontrollati, Lily Bloom, che ha appena partorito la figlia di Ryle, decide di "dire basta" e di chiedergli il divorzio.
Ryle incassa, si dice pentito e disposto a intraprendere un percorso per risolvere i suoi problemi, ma di fronte all'irremovibilità di Lily cede e accetta la decisione senza altre conseguenze.
Lily ritrova il suo amore del liceo, Atlas, che per tutta la durata del film è causa di crisi di gelosia di Ryle.

Il film è gradevole, scorre bene, si lascia guardare.

Lily è bella, bionda e positiva. Ryle è un dongiovanni abituato al sesso occasionale, ma Lily non è una da incontri fugaci, o l'anello o niente. E allora lui, pur di averla, la rispetta, si impegna in un rapporto serio che fino a quel momento non aveva mai avuto e si comporta come un fidanzato modello. Topica la scena in cui lei si rifiuta di fare l'amore perché, appunto, non hanno una vera relazione, e allora si limitano a dormire insieme: lui in boxer, lei perfettamente truccata, indossando il pigiama di Ryle sopra reggiseno e altra biancheria di pizzo nero sofisticata e costringente.

It ends with us
It ends with us, un film di Justin Baldoni: la recensione

It ends with us

REGIA Justin Baldoni
SOGGETTO Colleen Hoover
SCENEGGIATURA Christy Hall
PRODUZIONE | PRODUTTORE Columbia Pictures, Wayfarer Studios, Saks Picture Company
DISTRIBUZIONE Eagle Pictures
MUSICHE Rob Simonsen, Duncan Blickenstaff
FOTOGRAFIA Barry Peterson
ANNO 2024
CAST Blake Lively, Isabela Ferrer, Justin Baldoni, Brandon Sklenar, Kevin McKidd

È difficile dare un giudizio a un film del genere senza farsi confondere dalle polemiche che ne hanno condizionato la promozione e dal rapporto conflittuale che sembra legare l'attrice Blake Lively e Justin Baldoni, protagonista, ma anche regista del film.

Inizialmente Justin Baldoni era parso il paladino dei diritti delle donne, mentre Blake Lively era stata accusata di superficialità perché aveva invitato i follower a guardare il film «dopo aver indossato un vestito a fiori», come si trattasse di una commedia romantica. Ma in effetti, il vestito a fiori era del tutto in linea col personaggio di Lily Bloom, che non solo ha fatto dei fiori la sua ragione di vita, ma che con il suo ottimismo e la sua tenacia ricomincia a vivere sganciandosi da un marito instabile. Quindi i fiori della promo di Lively a me non sono suonati così superficiali, potevano significare rinascita e resilienza.
Di recente però è stata Lively a denunciare Baldoni per molestie e sessismo sul set, il che è paradossale. In attesa che i giudici preposti definiscano chi ha ragione, noi torniamo alla domanda principale.


Come si pone il film di fronte alla violenza domestica?

Questo è il nodo.
Ryle, nel corteggiamento iniziale, è pressante. Ha quel modo di fare tipico del ragno che tesse la tela. Diciamolo: pare un po' manipolatore.
Per contro, quando si impegna nella relazione, lo fa seriamente: non abbiamo indicazioni che sia infedele, che sia interessato ad altre donne, che stia triangolando, che non sia davvero un marito innamorato o che non faccia il suo dovere in casa. Nel rapporto iniziale tra Ryle e Lily non c'è neppure evidenza di patriarcato introiettato: Lily lavora e ha i suoi interessi, Ryle lavora e talvolta cucina. Però... Quando si ingelosisce, ha delle reazioni incontrollate. Ora, Ryle esagera nelle sue manifestazioni e la gelosia non è mai una giustificazione per alzare le mani, ma le sue insicurezze non sono campate per aria. Lily ama Ryle, ma quel vecchio fidanzato ritrovato da poco e perso, all'epoca, per una ragione ingiusta non le è indifferente.

Quindi, Ryle è violento, ma non del tutto paranoico.

Anni fa mi capitò di leggere un mediocre romanzo di un'autrice esordiente, che oltre al fatto di darsi arie per aver seguito un corso di scrittura creativa, raccontava di una coppia in cui lui alzava le mani. La tesi era che l'uomo violento può pentirsi e cambiare e che ci sono centri riabilitativi che recuperano questi maschi maneschi e ne fanno dei mariti modello. Infatti il suo personaggio si redimeva a pieni voti. Ciò che scricchiolava parecchio nel romanzo era che l'autrice tradiva un amore viscerale per il suo protagonista. Lo descriveva sempre come bello, affascinante e colto. Insomma, un principe azzurro un po' confuso, che poi torna sulla retta via, ma sempre rimanendo incredibilmente sexy. E ai belli e dannati, si sa, si perdona tutto.
All'epoca mi indignai per un assunto del genere, che poteva portare donne vittime di abusi a credere di poter attendere un cambiamento del proprio partner.

Leggi anche Elena Genero Santoro | Le origini del male: 3 libri a confronto

Gli psicologi spiegano che gli uomini violenti spesso hanno una personalità di cluster B, quindi spaziano dal narcisismo, all'esssere borderline e/o antisociale.

Individui del genere non si pentono facilmente e si rischia che usino la psicoterapia per raffinare l'arte della manipolazione (La psicopatia, Robert D. Hare).
Tuttavia, per la violenza del nostro Ryle viene data una spiegazione: lui non è nato cattivo, non è congenitamente carente di empatia, ma un trauma terribile vissuto da bambino gli ha fatto sviluppare una incapacità a gestire gli scoppi di rabbia.
Quindi, Ryle potrebbe essere recuperabile? L'autrice del romanzo in cui il protagonista violento si redimeva, potrebbe avere ragione, almeno in un caso come quello di Ryle?
Resteremo con il dubbio.

Il film finisce nel modo più corretto.

Lily si affranca dal marito instabile. Questo è l'unico vero messaggio da tenere in considerazione: non spetta alla partner sincerarsi che l'uomo violento si dia una calmata. Mettere le distanze è l'unica soluzione realistica e il film invita a farlo, in un caso del genere.
It ends with us, Siamo noi a dire basta: il titolo, però, mi lascia perplessa. Siamo noi a dire basta, solo se siamo abbastanza fortunate a non avere a che fare con uno stalker che ci perseguita. Diventa difficile dire basta se la controparte rende la nostra vita un inferno, si apposta sotto casa nostra e magari ci lancia in faccia l'acido.
Ryle in questo si dimostra un "galantuomo", pare che abbia una coscienza. Se ne va e non cerca vendetta. Sempre che non dia di matto nel sequel, di cui già si inizia a parlare, che si farà, ammesso che Lively e Baldoni non si accoltellino a vicenda prima.
Concludo dicendo che, anziché arrivare a "dire basta", dovremmo dar peso ad alcuni segnali preliminari. La prima volta che Lily vede Ryle, lui sta prendendo a calci una sedia. Un inizio non proprio promettente.


Elena Genero Santoro
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The woman of the hour, un film di Anna Kendrick: la recensione

The woman of the hour, un film di Anna Kendrick: la recensione

The woman of the hour, un film di Anna Kendrick: la recensione

Cinema Recensione di Elena Genero Santoro. The woman of the hour, un film di Anna Kendrick. Un film da vedere, ben congegnato, con tensione crescente, un thriller psicologico in cui i drammi e la violenza si intravedono soltanto, ma agghiacciante perché tratto da una storia vera.

Nei giorni della consapevolezza sulla violenza contro le donne, consiglio la visione del film The woman of the Hour, in cui Anna Kendrick è sia protagonista che regista. Un film originale Netflix, disponibile sulla piattaforma in abbonamento.

È un thriller, molto psicologico, in cui i drammi e la violenza si intravedono soltanto, che però risulta agghiacciante perché tratto da una storia vera.

Siamo nel 1978, in America, a Los Angeles, e Sheryl Bradshaw, aspirante attrice di poco successo, viene invitata a partecipare a un programma televisivo, il Dating game, la versione americana di Il gioco delle coppie, quello che negli anni Ottanta qui da noi veniva condotto da Marco Predolin e di cui mia nonna non perdeva mai una puntata. Poco importava che io dovessi fare i compiti: Il gioco delle coppie, nel tardo pomeriggio, era un appuntamento sacrosanto.
Per chi fosse troppo giovane, ogni puntata si svolgeva così: c’erano una ragazza da una parte, e dall’altra parte del muro tre improbabili pretendenti, che lei non aveva mai visto – né loro sapevano chi fosse lei. La concorrente poneva delle domande ai pretendenti e alla fine della puntata ne sceglieva uno, vincendo con lui un viaggio o un premio di modesta entità.

Nel 1978, Sheryl Bradshaw è immersa in un mondo misogino e sessista, quando la sua strada si incrocia con quella di Rodney (Rod) Alcala, un serial killer meno noto qui in Italia di Ted Bundy, ma altrettanto, se non di più, feroce.

Le sue vittime sono tutte donne, che stupra, soffoca e poi rianima, per violentarle ancora, finché non toglie loro la vita. Si stima che il numero dei suoi omicidi sia intorno ai centotrenta.
Sheryl, concorrente, pone delle domande ai suoi pretendenti e alla fine sceglie proprio Rod, che tra i tre è di certo il più intelligente, il più assertivo, il migliore manipolatore possibile. Le sue risposte sono le più brillanti, le più interessanti e sfido qualunque donna al posto di Sheryl a non preferire lui, in una situazione analoga.Gli altri due concorrenti sono descritti, nel film, in modo impietoso: uno sembra aver problemi cognitivi, l’altro fa il maschio spaccone. Rod, invece, sa come comportarsi.

The woman of the hour
The woman of the hour, un film di Anna Kendrick: la recensione

The woman of the hour

REGIA Anna Kendrick
SCENEGGIATURA Ian MacAllister McDonald
PRODUZIONE | PRODUTTORE Roy Lee, Miri Yoon, J. D. Lifshitz, Raphael Margules
DISTRIBUZIONE Netflix
MUSICHE Dan Romer, Mike Tuccillo
FOTOGRAFIA Zach Kuperstein
ANNO 2023
CAST Anna Kendrick, Tony Hale, Daniel Zovatto

The woman of the hour, a differenza di altri, non è incentrato sulla psicologia del serial killer.

Non indaga la sua anima nera e le origini del male. Non viene ipotizzato il motivo per cui lui sia così. Il film, quanto mai attuale, è una denuncia di come la misoginia e il patriarcato siano terreno fertilissimo affinché un serial killer vada in giro impunito e partecipi persino a un programma televisivo senza destare sospetti.
Attenzione: la tesi sposata non è, come erroneamente si può credere, che il patriarcato formi dei serial killer. Rodney Alcala era uno psicopatico, un criminale, un manipolatore a prescindere, così come lo sono anche i killer nostrani più recenti. Alcala e quelli come lui hanno una personalità lucida, consapevole e abnorme che li porta a commettere delitti efferati. Questo non dipende dal patriarcato, ma dalla loro deriva morale e psichiatrica. Che poi il patriarcato possa ispirare personaggi del genere ad accanirsi contro le donne, a pensare che le donne siano oggetti da possedere e da distruggere, è una possibilità in più. I serial killer sfogano i loro impulsi ed esercitano il loro potere su soggetti che percepiscono deboli, ivi compresi gli anziani, i malati e i ragazzini.

In una società che penalizza le donne, queste diventano vittime di abusi di intensità variabile, dall’ apprezzamento non richiesto all’omicidio.

Il problema, grave, è che un mondo patriarcale, misogino, che non prende sul serio le donne, permette a un maniaco di girare impunito per anni prima di essere scoperto.
Alcala era un professionista, un fotografo, bianco, (che in America è sempre un punto a favore), quindi risulta credibile.
Sheryl è una bella bambolina, come attrice non ottiene le parti perché non si spoglia, durante la diretta la fanno cambiare di abito perché il suo abbigliamento non era abbastanza frivolo. All’inizio le impongono un copione di domande idiote, che la farebbero sembrare stupida, se lei vi si attenesse fino alla fine.

Gli anni Settanta, negli Stati Uniti ma non solo, furono un momento in cui i serial killer trovarono ampie possibilità di agire.

Era il periodo in cui ragazze sole percorrevano grandi distanze in autostop, non c’era la localizzazione satellitare e da uno Stato all’altro cambiava la giurisdizione, cambiava il corpo di polizia: ciò che avveniva in Florida non era noto in Nevada, per esempio. Sparirono centinaia di ragazze, fagocitate nel nulla e mai più tornate a casa.
In questo contesto, Alcala viveva beato, impunito e rispettato dai suoi simili.

The woman of the hour è intriso di situazioni e battute sessiste, inanellate dalla prima all’ultima scena.

Le storie di Sheryl e Rod si intersecano tra loro e con quella di Laura, spettatrice dal vivo della puntata del Dating game. La giovane, accompagnata dal fidanzato, ha quasi un attacco di panico e scappa quando in Rodney riconosce il ragazzo che era in spiaggia con la sua migliore amica la notte prima che questa fosse barbaramente uccisa, l’anno precedente.
Laura è sconvolta, prova a spiegare al fidanzato che è turbata dalla presenza in tv di quell’individuo e lui, come unico commento, non riesce a dire di meglio che: «È un tuo ex?», riassumendo in una sola frase gelosia, possesso, impossibilità a credere che ci possa essere un problema più grave che una rivalità tra maschi alfa.

In realtà, il fidanzato di Laura si rivela essere l’unico personaggio maschile connotato positivamente.

Dopo il primo momento si riscatta: si scusa e supporta Laura, che tenta di denunciare Rod. Laura però non viene presa sul serio, né dalla produzione del programma, né dalla polizia.
Gli altri personaggi maschili sono tutti dei mediocri: il presentatore della trasmissione che è indispettito dalla sagacia di Sheryl (la ragazza non sa stare al suo posto), il vicino di Sheryl che ha delle aspettative molto chiare su di lei e dà per scontato che debbano avere una storia.
Se oggi ne stiamo parlando, non è un segreto che Alcala sia stato scoperto e arrestato. Il modo viene raccontato in chiusura del film, ed è quello più inaspettato. La persona che riesce a incastrarlo è la più improbabile.
Un film da vedere, ben congegnato, con tensione crescente e, in certe parti, i toni della commedia. Lo spaccato sociale è contestualizzato in un luogo e in un tempo specifico, ma purtroppo è ancora molto attuale.


Elena Genero Santoro
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Povere creature!, un film di Yorgos Lanthimos: la recensione

Povere creature!, un film di Yorgos Lanthimos: la recensione

Povere creature!, un film di Yorgos Lanthimos: la recensione

Cinema Recensione di Stefania Bergo. Povere creature!, l'ultimo film di Yorgos Lanthimos, adattamento del romanzo omonimo di Alasdair Gray. L'emancipazione femminile vista come riconquista del proprio piacere sessuale. Una pellicola visionaria dalle atmosfere gotiche, steampunk e wired, con una protagonista indimenticabile.

Povere creature! – disponibile in abbonamento su Disney+ – è il nuovo film di Yorgos Lanthimos, il regista greco di Dogtooth, The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro e La favorita. In questa pellicola dominano atmosfere gotiche, steampunk e wired, con un uso espressivo delle ombre, del bianco e nero e un abbondante utilizzo dell'obiettivo fisheye per deformare lo spazio in modo grottesco e stimolare lo sguardo dello spettatore. La palette di riferimenti cinematografici e letterari è ampia, come Frankenstein di Mary Shelly, Metropolis di Fritz Lang o Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau.
Candidato a 11 premi Oscar, ha portato a casa quattro statuette, tra cui quella per la miglior attrice protagonista a Emma Stone e tre riconoscimenti tecnici che ben sottolineano la potenza visiva del film: miglior scenografia, trucco e acconciature e costumi.
La colonna sonora di Jerskin Fendrix – per cui era candidato all'Oscar – è il completamento naturale di questo film artisticamente ineccepibile, sottolineando con una successione di cacofonie l'entropia di scene, personaggi e temi trattati.

NB: in questo articolo è stato inserito un filtro "no spoiler" che rende sfocate alcune frasi; per leggerle basta passarci su con il mouse da pc o toccare lo schermo da mobile.

Povere creature! inizia col colore, nel primo frame, per poi virare subito verso il bianco e nero. Il colore e la sua assenza sono funzionali alla narrazione, sottolineano i vari momenti della crescita personale di Bella Baxter, interpretata da una splendida Emma Stone in stato di grazia.

Bella Baxter è il risultato dell'unione di una donna morta suicida e del suo bambino che portava in grembo ancora vivo – di cui non si fa menzione del sesso. Bella ha infatti il corpo della donna e il cervello del feto, è una donna-bambina che deve imparare a coordinare i movimenti, a camminare, a parlare, a pensare. Una strada in salita il cui lato positivo è l'innocenza, il non avere sovrastrutture, punto di partenza per un processo di formazione scevro da condizionamenti sociali.

È evidente il richiamo al Frankenstein di Mary Shelly, anche se in questo caso il vero "mostro", fisicamente parlando, è il creatore di Bella, il dottor Godwin Baxter, interpretato dall'eclettico Willem Dafoe.

Il suo volto è deformato e pieno di cicatrici dovute agli esperimenti che il padre ha condotto su di lui quando era piccolo, non per violenza gratuita ma per amor di scienza, dice lui. La violenza subita viene infatti raccontata in modo asettico, razionale, con il black humor che pervade tutto il film. E nello stesso modo Godwin, che Bella chiama semplicemente God, alleva la sua creatura, che ha fredde nozioni di anatomia e conosce le regole dettate dallo scienziato ma in lei non è ancora presente alcuno spunto emotivo.

Povere creature!
Povere creature!, un film di Yorgos Lanthimos: la recensione

Povere creature!

REGIA Yorgos Lanthimos
SOGGETTO Alasdair Gray
SCENEGGIATURA Tony McNamara
PRODUZIONE | PRODUTTORE Yorgos Lanthimos, Ed Guiney, Andrew Lowe, Emma Stone
DISTRIBUZIONE The Walt Disney Company
MUSICHE Jerskin Fendrix
FOTOGRAFIA Robbie Ryan
ANNO 2023
CAST Emma Stone, Margaret Qualley, Willem Dafoe, Mark Ruffalo, Christopher Abbott

All'inizio del film Emma Stone si muove, parla e pensa come avesse tre, quattro anni. Tutto è scoperta, pone domande spiazzanti, fa capricci.

La sua interpretazione è perfetta, riesce a sostenere ogni sfumatura del personaggio e a essere sempre credibile. Il suo sguardo riesce a replicare la meraviglia tipica dei bambini, come se vedesse tutto per la prima volta.
I suoi progressi vengono dettagliatamente annotati da Max McCandles, un collaboratore di Godwin che ha il compito di studiarne la crescita. Una crescita che all'improvviso diventa tumultuosa, quando Bella pretende di vedere cosa che c'è fuori l'enorme casa vittoriana in cui vive, circondata da creature nate da innesti bizzarri, protetta dal mondo esterno. Ma lei quel mondo lo vuole mettere in bocca, come fanno i bambini piccoli, è avida di conoscenza, brucia di curiosità.

L'epifania per Bella è l'esplorazione del suo corpo, la scoperta della masturbazione – «Bella ha scoperto felicità quando vuole».

Inizia a viverla con estrema naturalità, senza malizia, parlandone apertamente come un segreto svelato da condividere, sebbene le venga detto: «Smetti immediatamente di darti piacere! Nella buona società non si fanno certe cose».
Per tenerla ingabbiata in un mondo protetto ma chiuso, Godwin propone a Max di sposare Bella, con la clausola di abitare per sempre con lui. È l'avvocato incaricato di redigere il contratto matrimoniale a dare la svolta alla trama e colore alla pellicola. È con Dunkan Wedderburn, interpretato da Mark Ruffalo, che Bella scopre il sesso. Lui la irretisce come fa un manipolatore con la sua vittima, parlandole di libertà e offrendosi di portarla a scoprire il mondo. Vista la sua determinazione, Godwin non può che lasciarla andare «perché possiede il libero arbitrio». Ed è allora che finisce il bianco e nero e inizia l'emancipazione di Bella.

Il sesso come emancipazione femminile, conquista di consapevolezza.

Per i restanti tre quarti del film Bella esplora il suo corpo attraverso i piaceri del sesso con Dunkan – e non solo –, in un viaggio fisico e figurato attraverso l'Europa steampunk con ambientazioni che rievocano la Metropolis di Lang su un substrato vittoriano. E parallelamente all'aumentare della sua consapevolezza si palesano gli atteggiamenti possessivi dell'uomo, che inizia a decidere quanti dolcetti lei può mangiare, quando deve dormire, cosa può dire e come deve comportarsi in pubblico

Ma Bella non è addomesticabile.

Lei vuole ballare da sola e a modo suo – in un indimenticabile momento candidato a diventare cult alla stregua della danza di Mercoledì Addams o quella di Vincent e Mia in Pulp fiction. Lui impazzisce di gelosia e arriva a «intrappolarla» come un bagaglio per una destinazione apparentemente isolata dal mondo esterno. Eppure, proprio allora Bella prende coscienza non solo del suo corpo ma anche del suo intelletto, iniziando a leggere e disquisire di filosofia grazie all'interazione con personaggi minori, e della sua umanità, quando si scontra con l'ingiustizia sociale della povertà in una scena decisamente potente, teatrale, pervasa di giallo.

Povere creature! di Yorgos Lanthimos è un film femminista? Forse no, per essere un film femminista dovrebbe essere più universale, mentre questo è un percorso di emancipazione femminile personale.

Il percorso di Bella è palese, non retorico, ma forse si poteva approfondire il suo interesse per libri, filosofia, giustizia sociale e politica relegati a meri dettagli, invece di incentrare tutto sul sesso esplicito – cosa che tra l'altro non si evince dal trailer ma che dà un senso al fatto che sia VM 14. È vero che il corpo e il sesso delle donne sono quelli più sfruttati e giudicati, su cui viene esercitata la maggiore pressione sociale, ma davvero è questa la chiave dell'emancipazione femminile? O meglio, davvero è questo il modo per raccontarla? L'impressione è che questo sia frutto di una narrazione maschile che, per quanto aperta e solidale, cade ai margini in inevitabili stereotipi, esibendo a proprio uso e consumo un corpo di donna adolescente – senza peli né mestruazioni. Una donna che è ritenuta "speciale", non ordinaria. Un'eccezione. Una donna che inizialmente ha l'intelletto di una bambina e di fatto viene manipolata, abusata da uomini adultinel finale lo sviluppo cognitivo è invece in linea col corpo, lo si denota dal modo in cui si muove nello spazio, da come parla, dal fatto che prepari esami universitari complessi o esegua operazioni chirurgiche, che elabori una sua vendetta personale.
Ci sono comunque messaggi importanti, nella pellicola di Lanthimos.

Il percorso di formazione di Bella ben rappresenta il binomio patriarcato – emancipazione femminile.

All'inizio del film Bella è una donna attraente che non ragiona, non ha coscienza di sé, è facilmente manipolabile. Poi acquista consapevolezza, brama la libertà e la conoscenza, e allora fa paura, non va più bene. Va ricacciata nelle gabbie create per lei dagli uomini.
C'è poi il riferimento alla prostituzione, che apre un dibattito divisivo su chi la considera libertà dagli schemi patriarcali – «Questa cosa delle prostituzione mette in discussione il desiderio di proprietà degli uomini», dice Bella alla fine – e chi la vede perfettamente allineata ad essi. Bella inizia con «Potrei cercarmi un amante [...] che mi mantenga ma che potrebbe richiedere molte attenzioni, oppure venti minuti alla volta e il resto della giornata libera per studiare il mondo e il suo miglioramento» illudendosi di poter scegliere lei con chi fare sesso. Ma presto si rende conto che non è così, che, scevra della scelta cosciente, la prostituzione è solo uno stato di orrore – «Non preferireste che fossero le donne a scegliere? [...] Non avreste la vaga sensazione che fossimo in uno stato di orrore quando sobbalzate».

Il ritorno a casa è forzato dalla contingenza. Ma è anche il momento in cui Bella Baxter raggiunge la vera emancipazione, decidendo che fare del suo futuro.

Il finale ha un risvolto inaspettato che chiude il cerchio. Il tentativo di riportare Bella alla sua vita precedente, imprigionata in una relazione tossica – «Tu sei mia», dice lui, «Io non sono un territorio», risponde lei –, passa ancora una volta attraverso il sesso, questa volta la sua negazione, o meglio, attraverso la negazione del piacere femminile. E forse è questo il messaggio di Lanthimos cui si arriva alla fine, come se anche questo fosse un processo di formazione, questa volta dello spettatore: l'emancipazione delle donne non ha a che fare con la loro vagina ma con la clitoride, cioè col loro piacere. È su di esso che il patriarcato detiene il controllo da sempre, esclusivamente finalizzandolo a quello maschile. Che si faccia attraverso il sesso sfrenato o un percorso di studi – o entrambi – forse è questa l'emancipazione: riappropriarsi di sé, del proprio piacere, quasi fosse un potere che rende di fatto una donna sessualmente indipendente dagli uomini, e di conseguenza libera di scegliere da sola che posto occupare nella società.
Che ne pensate? Avete letto tra le righe lo stesso messaggio?





Stefania Bergo
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Oppenheimer, un film di Christopher Nolan: la recensione

Oppenheimer, un film di Christopher Nolan: la recensione

Oppenheimer, un film di Christopher Nolan: la recensione

Cinema Recensione di Davide Dotto. Oppenheimer, l'ultimo film di Christopher Nolan. Il Prometeo moderno e l'atomica.

Il film Oppenheimer di Christopher Nolan – disponibile a pagamento su Prime Video e vincitore di cinque Golden Globe 2024, tra cui Miglior film drammatico, Miglior regista, Migliore attore in un film drammatico, Migliore attore non protagonista e Migliore colonna sonora originale – racconta la storia di un uomo e di un luminare della fisica quantistica (interpretato da Cillian Murphy) che ha svolto un ruolo cruciale nella progettazione e nello sviluppo della bomba atomica.

Fin dall'inizio, rappresenta la moderna incarnazione del mito, assai noto, e più volte rivisitato, di Prometeo, il quale ha donato “il fuoco divino” all’umanità. 

Un fuoco capace di riscaldare e proteggere dalle rigidità dell’inverno, e radice di una parola rassicurante: “focolare". È un dono che tra l’altro simboleggia: tecnologia, conoscenza, il controllo di una potenza distruttiva contro la quale – in natura – a volte si può poco.
In epoca moderna, il lavoro di scienziati come Robert Oppenheimer offre una forma di dominio sulla materia alla quale l'umanità non è pronta. È l'apice della conoscenza scientifica e tecnologica la cui messa in pratica è racchiusa non in un libro, ma in una scatola dentro un’altra scatola, un ordigno che moltiplica in maniera esponenziale e su vastissima scala un potere devastante senza possibilità di replica.
La “nuova edizione” del dono di Prometeo evidenzia la difficoltà – o impossibilità – di gestire scelte e responsabilità connesse, così come le implicazioni morali del tutto inedite legate a un uso improprio dell'energia atomica.

Oppenheimer, la locandina
Oppenheimer, un film di Christopher Nolan: la recensione

Oppenheimer

REGIA Christopher Nolan
SOGGETTO Kai Bird e Martin J. Sherwin
SCENEGGIATURA Christopher Nolan
PRODUZIONE | PRODUTTORE Christopher Nolan, Emma Thomas, Charles Roven
DISTRIBUZIONE Universal Pictures
MUSICHE Ludwig Göransson
FOTOGRAFIA Hoyte van Hoytema
ANNO 2023
CAST Cillian Murphy, Emily Blunt, Matt Damon, Robert Downey Jr., Florence Pugh, Josh Hartnett, Casey Affleck, Rami Malek, Kenneth Branagh

In tale contesto, il team capitanato da Oppenheimer si dedicò al progetto Manhattan, intraprendendo una corsa contro il tempo.

Questa iniziativa di natura militare aveva l'obiettivo di porre fine alla Seconda Guerra Mondiale e, in particolare, di sconfiggere la Germania nazista, impegnata anch'essa nello sviluppo di un'arma nucleare. Ciò rappresentava un dovere ineludibile il cui strumento – il giocattolo nuovo che grazie agli studi della fisica quantistica cominciava a diffondersi tra scienziati e studiosi – risultava incompatibile con il bisogno di certezze, di controllo e calcoli che tornano.

Robert Oppenheimer (nato nel 1904) non era solo uno studioso e un teorico della fisica, ma anche un uomo del suo tempo immerso nelle questioni politiche e sociali che caratterizzavano il XX secolo.

Ciò lo portò a prendere parte attiva ai dibattiti e alle rivendicazioni dell'epoca, opponendosi a fascismo e nazismo, avvicinandosi in modo significativo al pensiero comunista. Questo aspetto, tra gli altri, emerge con prepotenza nel film di Christopher Nolan, facendone un personaggio assai complesso (prima che "controverso", termine di cui forse si è abusato).
Che abbaglio poteva aver preso un uomo come Robert Oppenheimer, che percepiva la realtà com’era e come non era, in grado – in quanto energia – di rivelare in un attimo “la terribile potenza divina”, con il suo castigo che cade su giusti e ingiusti? E perché questa avrebbe dovuto finire nelle mani dell’umanità? Questo era ciò a cui conducevano la formula scoperta da Einstein [E=mc²] e le intuizioni degli studiosi della meccanica quantistica.

Si è scoperto che dietro l’apparente ordine c’è il caos, e di questo caos la scienza prende atto guardandoci fin troppo dentro. 

Talmente dentro da far emergere una forza che ha molto in comune con i reconditi e oscuri anfratti dello spirito. Forse si tratta di quel vuoto, quel nulla che a una certa sollecitazione dà una risposta quando non se ne aspetta nessuna: qualcosa che richiama alla mente Nietzsche (a furia di guardare l’abisso, è l’abisso a guardarti dentro). Non c’è quasi riassunto più appropriato del film di Christopher Nolan.
Quando viene proiettato sullo schermo, il volto e il punto di vista di Oppenheimer assumono una fisicità intensa e inquietante. Tanto quanto la determinazione sbalorditiva verso un appuntamento ineludibile. Aveva in tasca una teoria da sperimentare e questa era la principale ambizione, unita all’ansia di voltare pagina e costruire un nuovo mondo su altre basi, archiviando una volta per tutte le guerre mondiali.

Solo che, paradossalmente, la sua visione d’insieme era parziale, dato che si scontrava con ciò che non conosceva e non poteva conoscere degli scenari che sarebbero seguiti.

Da qui i disperati tentativi di avere voce in capitolo – a emergenza nazionale conclusa – su quanto sarebbe accaduto dopo. Un dopo che non si era potuto immaginare, e un prima che non aveva avuto il tempo, o la possibilità, di concepire un'alternativa.
A guerra conclusa, “la stessa mente” che, in una situazione di emergenza nazionale, si era esposta ed espressa, aveva ragionato, scritto, messo in pratica le sue tremende conoscenze, nel 1954 è stata chiamata a rendere conto. Come se l’umanità intera non ne fosse coinvolta, e qualcuno intendesse puntare il dito, distogliere l’attenzione dalla responsabilità collettiva, lavandosene un poco le mani.




Davide Dotto

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Wish, il film d'animazione del centenario della Disney: la recensione

Wish, il film d'animazione del centenario della Disney: la recensione

Wish, il film d'animazione del centenario della Disney: la recensione

Cinema Recensione di Elena Genero Santoro. Wish, il nuovo film d’animazione del centenario della Disney. Una diversa chiave di lettura per un cartone animato accolto tiepidamente dalla critica: più che di desideri e realizzazione dei sogni, è una favola che parla di abuso narcisistico.

Ogni fiaba ha un significato nascosto e anche in Wish ce n’è almeno uno.
Sappiamo che i film della Disney hanno sempre diversi piani di lettura, che sono adatti sia ai piccoli che agli adulti.
Wish in questo non fa eccezione e, come adulta, ne ho scorso uno per me molto chiaro.

Premetto che mi sono approcciata al film con scetticismo perché avevo sentito dei commenti molto negativi in merito.

Negativi, ma non specifici. Così in una domenica pomeriggio di fine vacanze, per non pensare troppo al ritorno al lavoro e alla scuola, ho deciso che lo avrei guardato al cinema, senza particolari aspettative.
Ne sono uscita incantata, e per la grafica davvero d’effetto, tra stelle, palle luminose e luci su sfondo scuro, e per la storia in sé. I richiami ai personaggi Disney più famosi, in onore del centenario, sono infiniti, voluti e sottili e non interferiscono con la storia. Topolino, la fata Madrina, i camei di Bambi e di Peter Pan, per citarne solo alcuni.
Tra i protagonisti, invece, non ci sono coppie di innamorati e Asha non è nobile.

La chiave di lettura con cui tutto il film acquista un senso logico e funziona alla perfezione per me è stata una: si tratta di un abuso narcisistico trasposto in favola.

Le fiabe edulcorano stupri, rapporti controversi e ambivalenti tra genitori e figli. Wish è una favola quanto mai moderna perché rappresenta in modo fantasioso e condito di magia un argomento molto in voga in questo momento della storia contemporanea: il narcisismo. In voga, sulla bocca di tutti, ma ancora parecchio sconosciuto e chiaro a pochi. Probabilmente per questo motivo il film non è stato compreso da parte di un certo pubblico che, non cogliendo la rivelazione del narcisista, non ha capito il motivo per cui il protagonista inizialmente è buono e poi diventa cattivo.
La trasformazione del protagonista in villain è parsa, anche a sedicenti esperti di cinema, come una forzatura incoerente in una trama scadente.
Io ho avuto un’impressione diametralmente opposta.

Wish, la locandina
Wish, il nuovo film d'animazione della Disney: la recensione

Wish

REGIA Fawn Veerasunthorn, Chris Buck
SCENEGGIATURA Jennifer Lee, Allison Moore
PRODUZIONE/PRODUTTORE Peter Del Vecho, Juan Pablo Reyes
DISTRIBUZIONE Walt Disney Company
FOTOGRAFIA Rob Dressel, Adolph Lusinsky
MUSICA David Metzger, Julia Michaels, Benjamin Rice
ANNO 2023

DOPPIATORI ITALIANI
Gaia, Michele Riondino/Marco Manca, Amadeus, Ilaria De Rosa, Carlo Valli/Vittorio Matteucci, Beatrice Caggiula/Claudia Paganelli, Vittoria Bartolomei/Margherita De Risi, Alex Polidori, Silvia Alfonzetti/Benedetta Boschi, Federico Campaiola/Alessio Parisi, Lorenzo D'Agata, Gabriele Patriarca, Monica Volpe/Margherita Rebeggiani

C’è questo re, Magnifico (e già il nome dovrebbe instillare un dubbio), che, datosi alla magia, ha imparato a realizzare i desideri delle altre persone.

Chi approda sulla sua isola, Rosas, può consegnargli un suo sogno e lui lo realizzerà. Forse. Se il desiderio non rischia di mettere a repentaglio la sicurezza di Rosas stessa. Ma è il re l’unico a giudicare la liceità dei sogni.
Il re viene quindi inizialmente dipinto come magnanimo, ma Asha, diciassettenne chiassosa e imbranata che vorrebbe diventare la sua apprendista, mette in dubbio la bontà del sovrano, che si rifiuta di esaudire il sogno del nonno di Asha nel giorno del centesimo compleanno, adducendo come motivazione ancora una volta la sicurezza dell’isola.

E pian piano Magnifico si svela, dando prova di avere un ego smisurato e di agire solo per il proprio tornaconto.

Ritiene infatti che la sicurezza di Rosas possa essere messa a repentaglio da chiunque diffonda idee o slogan diversi da ciò che lui pensa.
Per chi come me ha subito un abuso narcisistico e in seguito ne ha studiato per anni le dinamiche e le fasi, l’escalation di Magnifico segue persino un cliché banale e scontato.
Vediamo alcuni elementi.

Il love bombing.

È il momento in cui il narcisista sembra un eroe. Gentile, potente, generoso, bello. Ha tutte le caratteristiche dell’uomo ideale. Magnifico all’inizio appare… Magnifico. Splendido. Perfetto. È colui che custodisce i sogni e millanta di esaudirli. Millanta, perché non lo fa, o lo fa in parte, se gli conviene, e quanto basta per alimentare l’illusione.

La bontà del narcisista.

Qui voglio chiarire un equivoco che ha fuorviato molti. Può un narcisista essere buono? Può compiere azioni oggettivamente positive? Chi pensa di no, sbaglia. Chi pensa che il narcisista commetta solo azioni cattive, è in errore. Il narcisista è perfettamente in grado di compiere opere lodevoli. Persino Ted Bundy, serial killer psicopatico che ha ammazzato centinaia di donne, ha salvato molte vite. Una bambina che stava annegando e vari aspiranti suicidi che chiamavano il telefono amico presso cui lavorava. Ciò non significa che in lui ci fosse un “lato buono” che a un certo punto, per qualche ragione, si è corrotto. Conoscendo Ted Bundy, presumibilmente un lato buono non lo ha mai avuto. Quello che cambia è il fine, che nel narcisista non è un alto senso morale e di giustizia, ma è farsi notare, costruire un’immagine luminosa e falsata di sé. Falsata anche per se stesso. Il narcisista che compie un’azione buona, si crede buono. Forse è l’unico aspetto in cui è sincero. E si sente in diritto di essere sempre ringraziato. Magnifico si lamenta proprio di questo: il popolo chiede favori (che lui non sempre esaudisce), ma non lo ringrazia quanto lui vorrebbe. Non lo ringrazia per il fatto di custodire i suoi sogni, non lo ringrazia per il fatto di esaudirne qualcuno. Ma la vera bontà non pretende ostentata gratitudine. La vera bontà si nutre di ideali più alti.

I sogni del popolo, rappresentati come sfere volanti.

Un narcisista per definizione si nutre dell’energia delle persone. Magnifico si nutre dell’animo dei suoi sudditi – per inciso: questa è una storia di abuso narcisistico non riferita a una relazione sentimentale. C’è il re vs Asha e il resto del popolo. Dov’è il sogno di Magnifico? Non ne ha uno suo. Prende forza da quelli degli altri. Lui è vuoto. O meglio, il suo sogno è esercitare il suo potere sugli altri. Il suo sogno è avere il controllo delle vite degli altri, tipico di un narcisista che si rispetti.
Magnifico tiene in scacco le vite dei sudditi con promesse che raramente mantiene (altro elemento caratteristico) e vorrebbe controllarne persino i pensieri, motivo per cui censura certi sogni. 

La cattiveria di Magnifico.

Magnifico è cattivo, non lo diventa. Lo è già dall’inizio, Asha lo intravede immediatamente tra le sue fessure. Poi Magnifico si abbandona alla cattiveria più spietata, rafforzato da un libro di magia nera. Ma non è, come qualcuno ritiene, un buono divenuto cattivo in quanto deluso dall’ingratitudine del suo popolo.
E quando infine perde tutto, senza più alcun potere, torna a essere fintamente gentile.

Le scimmie volanti.

Sono le persone (in questo caso uno degli amici di Asha) che rimangono dalla parte narcisista perché a loro continua a mostrare il lato buono ed esaudisce i loro desideri.

Il vocabolario usato dal narcisista.

Dovrei rivedere il film dal principio, ma qualche frase è davvero caratteristica. Quando verso la fine Magnifico scatena tutta la sua furia, urla al suo popolo: «Tu sei nulla!».
Ed ecco che il narcisista, nel tentativo di nutrirsi dell’energia delle sue vittime, cerca di minare la loro autostima. Un classico: «Tu non vali niente. Tu sei niente senza di me». Il suo gioco funziona finché la vittima ci crede.

La morale.

Il popolo si rialza quando si rende conto che non ha affatto bisogno di un esterno che custodisca ed esaudisca i suoi sogni. E che l’unico modo di realizzare i propri sogni è provare a farlo. Non sempre i sogni diventeranno realtà. Ma apparterranno comunque al loro proprietario.
Eppure ciò che a me è parso di una chiarezza cristallina, da altre persone non è stato colto. Stiamo parlando di un film di animazione, ma qualcuno ha scambiato vittime e carnefici.
Che poi è ciò che avviene nella realtà. I narcisisti si mascherano molto bene. Si spacciano per vittime. Riescono a illudere. Se è capitato in questo film, capita anche nella vita reale. Forse proprio per questo il film è stato fatto bene. E il cammino verso la consapevolezza delle dinamiche narcisistiche è ancora molto lungo, temo.




Elena Genero Santoro
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Fair Play, un film di Chloe Domont: la recensione

Fair Play, un film di Chloe Domont: la recensione

Fair Play, un film di Chloe Domont: la recensione

Cinema Recensione di Elena Genero Santoro. Fair Play un film di Chloe Domont disponibile su Netflix. Un thriller psicologico realistico, una dirigente donna in un ambiente tossico comandato da uomini, i tentativi di manipolazione del suo compagno, il sesso come mezzo per esercitare potere e sopraffazione.

L’illusione dell’idillio è solo iniziale. Lei è una bella bambolina fasciata in uno slipdress chiaro e lui le chiede di sposarlo.
Fanno sul serio, sembrano la coppia dei sogni. Emily e Luke.
Sono reduci da una festa di matrimonio altrui. E quale momento migliore? Si amano.
Il gioco di seduzione continua sul luogo di lavoro: una società che opera tra investimenti e alta finanza. Lì è proibito avere una relazione tra colleghi. Lì fanno finta di conoscersi a stento, ma sono complici. In realtà già convivono.

Ascolta la recensione su soundcloud.com


Sul lavoro la pressione è altissima. È uno di quegli ambienti in cui non ci si rilassa mai.

Un po’ alla Il diavolo veste Prada che però aveva i toni della commedia. Questo è un thriller psicologico.
I nostri protagonisti non vedono mai la luce del sole, cosa che conferisce fin da subito un tono cupo al racconto: iniziano a lavorare col buio, finiscono col buio, non hanno il tempo di prepararsi un tramezzino, si stordiscono tracannando alcolici.
Uno stile di vita angosciante, che non lascia spazio a nulla di personale. Figuriamoci a una relazione.
E quando un dirigente cede allo stress, dà di matto e distrugge tutto ciò che c’è nel suo ufficio – ironicamente, mentre i subalterni stanno seguendo un corso di formazione sull’integrità in azienda e sulla civile convivenza – per Emily e Luke iniziano i problemi.

Emily ha sentito dire che per il posto di quel dirigente potrebbe essere chiamato Luke, glielo riferisce, è contenta per lui.

In realtà il b-boss, Campbell, inaspettatamente promuove Emily. La ritiene molto più brava, intuitiva, competente.
Le affida il ruolo e tutti i colleghi maschi che l’avevano bistrattata fino a quel momento diventano suoi subalterni. Compreso Luke.
Qui inizia la metamorfosi, o forse la rivelazione, di tutti i personaggi.
Non sappiamo come fosse il rapporto tra Emily e Luke prima della rottura degli equilibri. Sappiamo però che se da un canto a Emily pare normale essere felice per l’ipotetica promozione di Luke, al contrario Luke non riesce mai a dimostrare entusiasmo per la promozione di Emily. Le sue congratulazioni forzate, dopo che si è ubriacato, appaiono di una tristezza infinita. Ma Emily se lo aspettava, perché quando rincasa con la (lieta) notizia, anziché essere contenta ha l’aria di una che sta per salire al patibolo. Teme la delusione di Luke.

Di fatto, l’angoscia di Luke si esterna per ben due volte in un’unica direzione.

«Ci ha provato con te?» riferito al b-boss.
Il che evidenzia due concetti. Il primo è il possesso, la necessità di marcare il territorio. Per Luke, Emily è sua, nessun altro ha il diritto di provarci con lei. Il secondo è che Luke dà per scontato che una donna ottenga un riconoscimento al lavoro solo perché ha concesso favori sessuali.
Cosa che, peraltro, pensano anche gli altri colleghi, che non risparmiano battutine.

Barbie, la locandina
Fair Play, un film di Chloe Domont: la recensione

Fair Play

REGIA Chloe Domont
SCENEGGIATURA Chloe Domont
PRODUZIONE | PRODUTTORE Tim White, Trevor White, Leopold Hughes, Ben LeClair, Allan Mandelbaum, Andrew Zolot
DISTRIBUZIONE Netflix
FOTOGRAFIA Menno Mans
MUSICA Brian McOmber
ANNO 2023
CAST Phoebe Dynevor, Alden Ehrenreich, Eddie Marsan, Rich Sommer, Sebastian de Souza, Geraldine Somerville

Il b-boss Campbell crede davvero nelle capacità di Emily. Non le ha regalato nulla.

Tuttavia, quando Emily commette un errore negli investimenti, trova un solo modo per insultarla: puttana imbecille. Con riferimento alla vita sessuale. Perché le donne vengono riprese così, con l’appellativo di “donna di facili costumi”. Anche quando si parla di finanza. A un uomo nessuno direbbe una cosa del genere, anzi, nemmeno esiste l’insulto corrispondente.
Poi, appena Emily rimedia, Campbell minimizza. Le sue scuse consistono in un assegno con tanti zeri, la percentuale di Emily per l’affare andato in porto.

Luke.

Luke è un medio-man – l'uomo medio, contrapposto al super-man. Non sappiamo se avesse psicosi pregresse o tratti di personalità narcisistica. Di certo è, a suo modo, una vittima: del sistema, del pregiudizio introiettato che l’emblema del potere sia un maschio etero bianco. Quindi non riesce a vestire i panni del compagno che resta un passo indietro mentre la fidanzata ha successo. Diventa un manipolatore. Cerca di indurre Emily a passi falsi. Mina le sue certezze. Mette in dubbio la sua credibilità, la sua immagine, il suo look troppo frivolo. In realtà Emily indossa rigidi e formali tailleur blu sotto i quali, come unico vezzo, tiene delle camicette leggere, chiare, femminili e dalle linee morbide. Ma Luke insinua sempre quel concetto lì: Emily è stata scelta solo perché in grado di civettare – e forse qualcosa in più – con Campbell e ora che ricopre la sua nuova posizione, nessuno la prenderà sul serio.

Emily.

A Emily, Campbell offre l’opportunità che forse non avrebbe mai osato chiedere.
Dopo la promozione si trova in una posizione scomoda, in un conflitto di interessi. È sinceramente dispiaciuta per la delusione che sta provando l’uomo che ama. Vorrebbe che anche lui avesse un’occasione per crescere professionalmente e lei adesso è nella posizione di fornirgliela. Ma a un certo punto realizza due cose su Luke: che la sta boicottando e che non gode della stima di Campbell. Quindi Emily reagisce, affila le unghie. Non rimane a fare la vittima inerme.
Nel frattempo porta avanti la sua sfida personale: essere una dirigente donna in un mondo comandato da uomini.
Esigere rispetto pur mantenendo la propria natura femminile. È un equilibrio molto fragile, in un mondo in cui il più sentito complimento che spesso viene rivolto a una professionista in gamba è dirle che è una donna “con gli attributi”.
Non sappiamo se Emily, nel pretendere rispetto dai subalterni, abbia mantenuto la sua grazia iniziale o se si sia mascolinizzata nei modi. Su questo il film glissa.
Sappiamo però che si è omologata agli standard dei suoi pari livello uomini, andando addirittura con loro a cenare in un night club.

Il sesso.

Durante la narrazione Emily e Luke non riescono mai a fare l’amore.
All’inizio, prima della proposta di nozze, ci provano in un bagno. Sono ancora felici e innamorati, ma a lei arrivano le mestruazioni e i due si ritrovano in una situazione imbarazzante, bizzarra. Nulla di drammatico, se non fosse che questo intoppo nell’incipit getta la prima ombra sul destino del loro rapporto.
Dopo che Emily è stata promossa, Luke non riuscirà più a fare l’amore con lei. In parte non ne sarà in grado, in parte la punirà con l’astinenza. Il sesso in questa fase è dunque diventato un’arma di ricatto.
Quando i due protagonisti consumeranno un rapporto, il sesso sarà infine solo un mezzo per esercitare potere e sopraffazione.
Cioè esattamente il contrario dell’amore.

Se qualche spettatore può pensare che questo film non sia realistico, sbaglia.

Intanto la regista Chloe Domont ha costruito una storia che si ispira a fatti che lei stessa ha vissuto.
Io per prima, che ho guardato Fair Play con estremo gusto e l’ho adorato fino all’ultima sequenza, ho avuto un’esperienza analoga in passato. Non stiamo parlando di un incarico prestigioso e pressante come quello del film, ma di fatto il mio ex aveva tentato più volte, invano, di accedere a una posizione che successivamente è stata offerta a me. E le frasi del film: «Quel posto spettava a me» detta da lui e «Ti è così difficile accettare che io sia più brava di te?» detta da lei, mi sono suonate terribilmente familiari, come anche i tentativi di Luke di manipolazione e di distruzione dell’autostima di Emily. Pure le atmosfere sempre tese e le notti in bianco mi sono parse un triste déjà vu.

La morale è che sebbene si dia per scontato che in una coppia l’assunto di base sia l’amore, purtroppo non è così.

In una coppia vi sono dinamiche di potere che, se vengono scardinate, possono portare alla deflagrazione della coppia stessa e alla trasformazione di un innamoramento e di una passione in odio, rabbia, aggressività, rivalsa.
Il film descrive una storia individuale, con due protagonisti. In teoria i ruoli avrebbero potuto essere invertiti: lei che aspetta una promozione e lui che viene promosso al posto di lei. Ma questo succede già tutti i giorni. Al contrario non si può prescindere dal contesto reale: in questo mondo intriso di patriarcato una donna che supera il fidanzato al lavoro, purtroppo, fa ancora scalpore. È insolito, e il medio-man che si fa condizionare dal giudizio sociale, non regge emotivamente all’onta. Lo stesso medio-man che non è stato in grado di riconoscere il potenziale della sua compagna. Lo stesso medio-man che ha creduto di avere tra le mani una bella e manipolabile bambolina.
E forse è questo equivoco a monte, frutto di poco acume e di stereotipi di genere, la cricca iniziale che ha condotto alla frattura finale.





Fair Play, di Chloe Domont, è ora disponibile in abbonamento su Netflix.

Elena Genero Santoro
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