Gli scrittori della porta accanto
PostArgyrosSingh
PostArgyrosSingh
4 weeks, gennaio 2024: notizie dal mondo

4 weeks, gennaio 2024: notizie dal mondo

4 weeks, gennaio 2024: notizie dal mondo

4 weeks Di Argyros Singh. Cosa è successo nel mondo a gennaio? Come si è aperto il 2024? Il governo contro i narcotrafficanti in Ecuador, il Sudafrica accusa di genocidio Israele, tensioni tra Iran e Pakistan, la dimenticata guerra in Sudan e il chip cerebrale di Elon Musk.

Gennaio si apre con la guerra intestina ecuadoriana, che ha coinvolto il governo e i narcotrafficanti. Segue il resoconto dello scontro legale tra Israele e Sudafrica presso la Corte internazionale di giustizia. Proseguo con gli ultimi aggiornamenti sulle tensioni tra Iran e Pakistan e sulla semi-sconosciuta guerra in Sudan. Per concludere, racconto gli sviluppi sulla ricerca scientifica legata ai chip cerebrali.



Ecuador: la guerra ai narcotrafficanti

Il 9 gennaio, l’Ecuador è precipitato in un conflitto armato tra il governo e i narcotrafficanti, organizzati in vari gruppi, tra cui il cartello Los Choneros. Gli attacchi criminali si sono concentrati nelle carceri, nei mercati e nelle università. Il presidente Daniel Noboa ha dichiarato lo stato di emergenza e poi lo stato di guerra interna. Ma come si è giunti a questa escalation?

Nel 2017, il neoletto presidente Lenin Moreno aveva avviato una politica di austerità, che aveva indebolito l’apparato di sicurezza, con la riduzione del budget, per esempio, nel sistema carcerario.

Tra il 2017 e il 2023, il tasso di omicidi è rapidamente salito da 5 a 46 ogni 100mila abitanti. Anche a causa della pandemia di Covid-19, il tasso povertà è risalito al 27% nel 2023, mettendo a rischio il futuro di molti giovani, reclutati dalle bande criminali.
Il 7 gennaio 2024, José Adolfo Macias Villamar, leader di Los Choneros, è evaso dal carcere; due giorni dopo, Fabricio Colon Pico, capo di Los Lobos, è a sua volta scappato. Il presidente Noboa ha dichiarato lo stato di emergenza per sessanta giorni, inviando l’esercito nelle carceri. Sono seguiti diversi attentati, tra cui il rapimento di quattro agenti di polizia e un’esplosione nei pressi della casa del presidente della Corte nazionale di giustizia. Il 9, uomini armati di Los Choneros sono entrati con la forza in uno studio televisivo, prendendo in ostaggio i giornalisti durante la diretta del telegiornale. La polizia ha fatto irruzione, arrestando gli assalitori, tra i quali sembra vi fossero dei minorenni. Altri attacchi hanno coinvolto i civili negli ospedali, nelle università e per le strade. Due civili sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco a Guayaquil, ma non è ancora certo il numero complessivo dei morti e dei feriti.

Il 13, il governo ha annunciato la liberazione di 178 tra guardie carcerarie e dipendenti in ostaggio.

Il 17, il pubblico ministero César Suarez, che coordinava le indagini sull’assalto allo studio televisivo, è stato freddato da uno sconosciuto. Il capo delle Forze Armate, Jaime Vela Erazo, ha dichiarato che non ci saranno negoziati con i gruppi armati. Sono aumentate le precauzioni all’aeroporto internazionale Mariscal Sucre di Quito; le lezioni scolastiche sono state spostate in digitale; ci sono state riduzioni orarie nei trasporti pubblici e è stato introdotto un coprifuoco.

Sul piano politico, sembra essersi formato un fronte di unità nazionale nell’affrontare il conflitto interno.

I numeri però sono allarmanti: il governo ecuadoriano stima in almeno trentamila le persone nel Paese collegate a una banda.
Stretto tra Colombia e Perù, i principali produttori di cocaina al mondo, il porto ecuadoriano di Guayaquil è oggetto di interesse da parte dei narcotrafficanti, che competono per il controllo delle rotte della droga. Un tempo, l’Ecuador era chiamato l’“Isola della Pace” della regione, ma quella quiete apparente sembra ora svanita.

Israele e Sudafrica: scontro legale

Il 29 dicembre 2023, il Sudafrica ha avviato un procedimento presso la Corte internazionale di giustizia (ICJ), la cui denominazione ufficiale è Application of the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide in the Gaza Strip (South Africa v. Israel). Il Sudafrica sostiene la tesi che Israele stia commettendo un genocidio contro i palestinesi nella Striscia di Gaza, in violazione della Convenzione sul genocidio del 1948. Pretoria ritiene che ciò rientri in un contesto generale di apartheid che durerebbe da settantacinque anni e ha chiesto alla Corte di adottare misure provvisorie di protezione della popolazione.

Il ministero degli Esteri israeliani ha dichiarato che le accuse siano prive di fondamento e che Israele stia conducendo una guerra di autodifesa in conformità al diritto internazionale.

In merito all’alto numero di morti civili palestinesi, Israele li attribuisce a Hamas e agli altri gruppi di miliziani, che utilizzano le infrastrutture civili come copertura per le operazioni militari.
Il 26 gennaio 2024, la Corte ha emesso un’ordinanza in cui ordinava a Israele di adottare ogni misura utile a prevenire qualsiasi atto che potesse essere considerato genocida secondo la Convenzione, avendo rilevato che alcuni atti sembrerebbero rientrare nelle disposizioni del documento. Non ha però ordinato la sospensione della campagna militare nella Striscia di Gaza, come richiesto dal Sudafrica.
I funzionari dei due Paesi hanno accolto con favore la decisione, ma alcuni ministri israeliani hanno accusato la Corte di avere pregiudizi antisemiti. Il caso presentato alla Corte internazionale di giustizia non coinvolge direttamente la Corte penale internazionale, un organismo che sta conducendo indagini in parallelo. A ogni modo, alla sentenza provvisoria ne seguirà una definitiva, ma potrebbero volerci diversi anni.

Iran e Pakistan: scambio di attacchi missilistici

Il 16 gennaio, l’Iran ha lanciato una serie di attacchi missilistici e con droni nella provincia pakistana del Balochistan. Il giorno precedente, l’Iran aveva attaccato con aerei e droni l’Iraq e la Siria, sostenendo di aver preso di mira il Mossad (l’intelligence israeliana) e le roccaforti dei terroristi che il 3 gennaio avevano colpito Kerman con attentati, rivendicati dall’Isis.
L’attacco sul territorio pakistano ha provocato la morte di due bambini e Islamabad ha risposto, il 18, con attacchi aerei di ritorsione nella provincia iraniana del Sistan e del Baluchestan, affermando di aver colpito i ribelli separatisti beluci. Il governo iraniano ha dichiarato nove morti, tra cui quattro bambini.

I gruppi separatisti beluci operano dal 2004; tra di loro, si distingue Jaish ul-Adl.

Secondo i media iraniani, il 15 dicembre 2023, questo gruppo avrebbe coordinato un attacco nella città iraniana di Rask, uccidendo undici poliziotti. In passato sono avvenuti altri attentati analoghi.
L’attacco iraniano in territorio pakistano si è svolto, peraltro, mentre i ministri degli Esteri dei due Paesi si incontravano al Forum economico mondiale di Davos, in Svizzera, e durante le esercitazioni congiunte delle due marine nel Golfo Persico.

Dopo lo scambio missilistico, il 19 gennaio, il primo ministro pakistano ad interim, Anwaar ul Haw Kakar, ha dichiarato il ripristino delle regolari relazioni diplomatiche con l’Iran.

Il 29, il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian ha visitato il vicino con l’obiettivo di allentare le tensioni. D’altra parte, la presenza di gruppi come Jaish ul-Adl infastidisce sia Tehran che Islamabad, che non intendono cedere parti del loro territorio. Inoltre, le risorse militari dei due Paesi sono limitate, in particolare per il Pakistan, in crisi economica, le cui principali difese si concentrano al confine con il nemico storico: l’India.

Sudan: una guerra silenziosa

Prosegue il conflitto silenzioso in Sudan, scoppiato il 15 aprile 2023 e di cui ho scritto in diversi interventi sul sito. Gli scontri hanno coinvolto le forze armate sudanesi (SAF), guidate da Abdel Fattah al-Burhan, e le forze paramilitari di supporto rapido (RSF), capeggiate da Hemedti, e si sono concentrati nel territorio intorno alla capitale Khartoum e nella regione del Darfur.

Al 21 gennaio 2024, si contano almeno 13-15 mila vittime e 33 mila feriti. A fine dicembre, c’erano 5,8 milioni di sfollati interni e più di 1,5 di persone erano fuggite dal Paese come rifugiati.

Le potenze internazionali avevano spinto per un negoziato, culminato nel Trattato di Jeddah, sùbito abbandonato.
A metà novembre, le fazioni Minni Minnawi e Mustafa Tambour, del Movimento di liberazione del Sudan, hanno deciso di appoggiare la SAF, unendosi al precedente sostengo del Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (JEM). Sull’altro fronte, il movimento Tamazuj si è unito alla RSF, mentre la fazione Abdelaziz al-Hilu, del Movimento di Liberazione del Popolo Sudanese-Nord, ha attaccato le posizioni della SAF nel meridione, pur non avendo espresso un supporto esplicito a Hemedti.

La situazione è di stallo e l’attenzione internazionale è concentrata altrove.

Al 31 gennaio, Filippo Grandi, l’alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, ha dichiarato che gli sfollati ammontano a quasi otto milioni. Non si vede una soluzione al conflitto che, al contrario, si sta allargando a una miriade sempre più ingestibile di fazioni.

Tecnologia: il chip di Elon Musk

Il 28 gennaio, è stato impiantato nel cervello di un uomo il primo microchip dell’azienda Neuralink, proprietà dell’imprenditore Elon Musk. Nell’intenzione dei ricercatori, il dispositivo, chiamato Telepathy, dovrebbe costituire un medium tra cervello e computer per rafforzare il corpo contro i disturbi neurologici. Non solo. Neuralink si propone di curare SLA, morbo di Parkinson, paralisi, cecità e persino depressione, ma la strada da fare è ancora molta e non è detto che ci saranno risultati soddisfacenti nel prossimo futuro.

La comunità scientifica si mostra prudente; inoltre, il costo previsto per l’impianto si aggira intorno ai quarantamila dollari, con un costo di produzione stimato in almeno diecimila dollari.

Non è ancora chiaro come si svolgerà la manutenzione e quanto costerà.
Nel recente passato, a settembre 2023, l’olandese Onward aveva testato un impianto cerebrale per stimolare il midollo spinale di un soggetto tetraplegico, e nel 2019 l’istituto Clinatec di Grenoble aveva presentato un impianto collegato a un esoscheletro installato sul paziente.
A maggio 2023, Neuralink aveva ricevuto l’autorizzazione della FDA per avviare gli studi clinici sull’uomo e, alcuni mesi dopo, ha cominciato a cercare pazienti tetraplegici o con SLA. A settembre, l’azienda affermava che il chip, installato da un robot, avrebbe registrato e inviato segnali cerebrali tramite un’app, con l’obiettivo di permettere alle persone di controllare il cursore o la tastiera di un computer con la sola forza del pensiero. Sembra di leggere un racconto di fantascienza, ma è invece una prospettiva sempre più realistica.

Per approfondire

Sull’Ecuador – elpais.com (urly.it/3zw_k), nytimes.com (urly.it/3zw_j) e cnn.com (urly.it/3zw_h) | Sul tribunale dell’Aja in merito a Israele – apnews.com (urly.it/3zx00), timesofisrael.com (urly.it/3zwaa) e aljazeera.com (urly.it/3zx03) | Sulle tensioni tra Iran e Pakistan – agi.it (urly.it/3zx09), wired.it (urly.it/3zx0b) e aljazeera.com (urly.it/3zx0c) | Sulla guerra sudanese – ansa.it (urly.it/3zx6n), aljazeera.com (urly.it/3zx6p) e bbc.com (urly.it/3zx6r) | Sul chip di Elon Musk – cnn.com (urly.it/3zx87) e focus.it (urly.it/3zx88)



Argyros Singh
Leggi >
4 weeks, dicembre 2023: notizie dal mondo

4 weeks, dicembre 2023: notizie dal mondo

4 weeks, novembre 2023: notizie dal mondo

4 weeks Di Argyros Singh. Cosa è successo nel mondo a dicembre? Come si è chiuso il 2023? La COP28 a Dubai, la dichiarazione di Maduro di voler annettere la Guyana Esequibo, la situazione della guerra in Ucraina e nella Striscia di Gaza.

Il mese di dicembre si è aperto con la COP28 a Dubai. Inoltre, nei primi giorni del mese, ha suscitato clamore la dichiarazione del presidente venezuelano Nicolas Maduro di voler annettere la Guyana Esequibo. Traccio in chiusura un resoconto di fine mese (e di fine anno) sulla situazione in Ucraina e nella Striscia di Gaza.



La COP28

A Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, si è tenuta la ventottesima edizione della Conferenza della Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, nota come COP28. Dal 30 novembre al 12 dicembre, l’incontro è stato presieduto dal sultano Al Jaber, amministratore delegato della Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC), una compagnia petrolifera. I critici hanno rilanciato le accuse di greenwashing, dopo mesi di investimenti volti a ripulire l’immagine di Al Jaber.
Dopo quasi due settimane di accesi confronti, il 13 dicembre è stato raggiunto un accordo di compromesso, che invitava tutte le nazioni a abbandonare i combustibili fossili come una delle soluzioni per il raggiungimento del Net Zero entro il 2050. Il cosiddetto “patto globale” è stato il primo accordo di un vertice COP a menzionare esplicitamente la necessità di abbandonare ogni tipologia di combustibile fossile, benché non sia chiaro, nel documento, come verrà portato avanti l’obiettivo.

A fine novembre, si era tenuta una riunione dei ministri in vista della COP28, un preambolo necessario a facilitare il dialogo durante il summit.

Il rappresentante cinese aveva dichiarato che Cina, Stati Uniti e Unione Europea avevano concordato di cooperare affinché la conferenza avesse successo. Punto debole della Cina è il carbone, ritenuto essenziale da Pechino per la propria sicurezza energetica, ma al 15 novembre i due Paesi avevano annunciato un accordo basato sui negoziati tra gli inviati per il clima John Kerry e Xie Zhenhua, con obiettivi regolati al 2030. L’accordo bilaterale prevede un impegno nella riduzione dei gas serra (non solo anidride carbonica), ma non è stata inclusa la graduale eliminazione delle centrali elettriche cinesi a carbone.

Nei negoziati, ha avuto un peso anche la prima valutazione biennale dei progressi globali nel rallentamento del cambiamento climatico, promossa dalle Nazioni Unite e denominata global stocktake.

Secondo il documento, l’accordo di Parigi avrebbe contribuito significativamente alla riduzione delle emissioni: nel 2011, si prevedeva un riscaldamento entro il 2100 di 3,7-4,8°C; dopo la COP27, la previsione si è attestata sui 2,4-2,6°C e, nel migliore dei casi, ovvero rispettando tutti gli impegni, su 1,7-2,1°C.
Questo, almeno, sulla carta. C’è infatti bisogno di un maggiore impegno globale sul tema; investimenti per trilioni di dollari; un cambiamento nel modo di gestire i flussi finanziari, a favore delle energie rinnovabili.

Alla COP28 hanno partecipato oltre 70mila persone accreditate e altre 400mila con accesso alla “zona blu”.

Il primo atto significativo del vertice è consistito nella disposizione di un fondo, che sarà gestito dalla Banca Mondiale, per risarcire i Paesi poveri che hanno subìto danni a causa del cambiamento climatico. Le prime promesse di finanziamento sono state fatte da EAU, Germania, UK, USA e Giappone. Il fondo dovrebbe contare al momento su circa 700 milioni di dollari, una somma ben inferiore alla stima dei danni, valutata in 387 miliardi di dollari l’anno. A settembre, un gruppo di Paesi in via di sviluppo aveva sollecitato a investire almeno 100 miliardi nel fondo.

La COP28 è stata anche la prima COP che ha discusso gli effetti dei cambiamenti climatici sulla salute pubblica.

L’OMS ha invitato i ministri della Sanità a favorire politiche sanitarie che tengano conto dell’impatto ambientale, dato che si stima che il cambiamento climatico costerà ai Paesi vulnerabili fino a 580 miliardi di dollari entro il 2030 per danni legati al clima.
Mentre ancora si discute sulle contraddizioni e sui risultati circoscritti di questo vertice, è stata già annunciata la sede della COP29, prevista per novembre 2024. Il Paese ospitante sarà l’Azerbaigian, produttore di petrolio che collabora con l’OPEC+, tornato di recente alle cronache per l’invasione del Nagorno Karabakh. È forse in vista un’altra operazione di greenwashing?

La crisi tra Venezuela e Guyana

Il 3 dicembre, circa dieci milioni di elettori venezuelani, ovvero la metà della popolazione, si sarebbero espressi a favore del referendum che sostiene l’annessione della regione di Esequibo, che costituisce il 70% del territorio della Guyana. Nel dettaglio, è stato chiesto ai venezuelani se fossero a favore della creazione di uno Stato venezuelano nel territorio conteso, rifiutando la giurisdizione Onu per risolvere la controversia. Il presidente Nicolas Maduro, riferendosi al risultato, ha parlato di un successo della democrazia.
Il Venezuela sostiene che l’Esequibo rientri nei suoi confini e che gli sia stato sottratto in maniera illecita dal colonialismo inglese. A sua volta, la Guyana, unico Stato anglofono del Sudamerica, rivendica i suoi diritti secondo l’arbitrato del 1899, che le assegnò la sovranità a discapito dell’Impero britannico. Il Venezuela, però, cita l’Accordo bilaterale di Ginevra del 1966 come strumento per la risoluzione della controversia: in quell’anno il Paese divenne indipendente dal Regno Unito e delimitò i propri confini.

La regione è abitata da 125mila abitanti, non interpellati dalla consultazione di Caracas.

I reali interessi del Venezuela sono di tipo economico: nel 2015, infatti, ExxonMobil ha scoperto un giacimento petrolifero nelle acque del blocco di Stabroek. Tre anni dopo, la Guyana ha chiesto alla Corte internazionale di giustizia (CIJ) di pronunciarsi sulla disputa a favore dei confini attuali. In questi giorni, il presidente Mohamed Irfaan Ali ha invitato il governo Maduro a moderare il suo comportamento.
La Guyana non ha soltanto petrolio, ma materie prime come bauxite e oro. Un altro Stato confinante, il Brasile, ha interesse che il Venezuela non si espanda e ha quindi annunciato di voler aumentare la sua presenza sul territorio a sostegno del Guyana, il cui esercito è poco efficiente.

Due giorni dopo il referendum, un contingente dell’esercito venezuelano era stato inviato vicino al confine.

Maduro aveva presentato una nuova mappa del Venezuela che incorporava l’Esequibo e aveva chiesto alla compagnia petrolifera statale PDVSA di tracciare una mappa dei giacimenti da esplorare.
Maduro è stato rieletto nel 2018 con un voto non riconosciuto dagli Stati Uniti e nel 2024 si terranno le nuove presidenziali. La leader d’opposizione María Corina Machado, interdetta dai pubblici uffici per quindici anni, ha invitato gli elettori al boicottaggio e ritiene che la consultazione sia stata soltanto uno strumento di distrazione politica. Il risultato eclatante del 95% dei favorevoli ai quesiti della consultazione non era mai stato raggiunto prima: l’assenza di code ai seggi, però, ha fatto dubitare molti analisti sulla veridicità dei dati diffusi. È più probabile che Maduro, il prossimo anno, possa usare l’espediente della guerra per rinviare le elezioni.

L’ultimo sviluppo di rilievo risale al 14 dicembre, quando i presidenti dei due Stati si sono incontrati per discutere della situazione.

In un comunicato congiunto, hanno dichiarato che non impiegheranno la forza e che si adegueranno al diritto internazionale per risolvere la questione. L’incontro si è tenuto all’aeroporto di Kingstown, capitale di Saint Vincent e Grenadine, nei Caraibi: il primo ministro del Paese, Ralph Gonsalves, è presidente pro tempore della Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi (CELAC) e ha svolto il ruolo di mediatore tra le parti.
I due si incontreranno di nuovo in Brasile tra tre mesi e nel frattempo verrà costituita una commissione congiunta di tecnici e ministri degli Esteri.

Ucraina. Storia, geopolitica, attualità

Ucraina
Storia, geopolitica, attualità.

di Argyros Singh
PubMe – Collana Collana Gli Scrittori della Porta Accanto
Saggio
ISBN 979-1254581933
Saggio
ebook 4,99€
Cartaceo 15,00€

La guerra in Ucraina (e dintorni geopolitici)

A dicembre, dopo varie difficoltà in vista delle elezioni del 2024, il governo degli Stati Uniti ha annunciato il rilascio di un nuovo pacchetto di aiuti militari per l’Ucraina. Il valore è di 250 milioni di dollari e comprende munizioni varie e componenti per la difesa aerea. Non si tratta di un grande contributo rispetto al passato, perché la richiesta del governo statunitense al Congresso era di 61 miliardi di dollari: il Partito Repubblicano si è però opposto, chiedendo in cambio maggiori garanzie sulla crescente immigrazione al confine con il Messico. A nulla è servita, il 12 dicembre, la visita a Washington D. C. del presidente Volodymyr Zelens’kyj.
Sul fronte dell’Ue, la situazione non è migliore. A inizio mese, un pacchetto di aiuti da 50 miliardi è stato bloccato dall’Ungheria. L’Ucraina ha un deficit di bilancio di 43 miliardi di dollari e ciò potrebbe portare a un ritardo nel pagamento delle pensioni e degli stipendi dei dipendenti pubblici. Le trattative nell’Unione porteranno forse a un pacchetto più piccolo, che potrebbe essere adottato all’inizio di febbraio e che non necessita dell’approvazione ungherese.

Il generale ucraino Valerii Zaluzhnyi ha dichiarato che nel 2024 bisognerà dare una svolta al conflitto e ha ammesso che il suo errore principale sia stato quello di credere che, di fronte a decine di migliaia di morti tra i soldati russi, la Federazione avrebbe desistito.

Dopo il generale fallimento della controffensiva ucraina, conclusasi in autunno, l’esercito ucraino rimane sulla linea difensiva, in particolare intorno a Avdiivka, città che i russi stanno radendo al suolo casa dopo casa come con Bakhmut.
Nel frattempo, la Russia continua a colpire, con i droni e con i bombardamenti, centri abitati quali Odessa, provocando morti tra i civili. Il 70% di Kherson è rimasta senza elettricità a séguito di un bombardamento. Sorti analoghe sono capitate a altre città ucraine. In un intervento allo show televisivo Direct Line, Putin ha affermato che in Ucraina siano operativi 617mila soldati russi e che il conflitto proseguirà con gli stessi obiettivi del primo giorno. Per farsi un’idea dei modesti progressi russi sul terreno, è utile il riepilogo realizzato da Newsweek (con le mappe).
In un rapporto dell’intelligence statunitense, risulta che finora la Federazione abbia perso l’87% delle sue forze precedenti all’invasione, ovvero 315mila tra soldati morti e feriti. A dicembre, tuttavia, la Russia ha approvato una nuova spesa che porterà a riservare all’esercito il 30% del bilancio totale russo nel 2024.

Il 15 marzo 2024, si terranno inoltre le elezioni russe. La commissione elettorale centrale russa ha rifiutato la nomina dell’ex deputata regionale Yekaterina Duntsova, citando errori nella documentazione.

Duntsova ha dichiarato che creerà un proprio partito che rappresenti «la pace, la libertà e la democrazia». Nella seconda metà di dicembre, si erano inoltre perse le tracce di uno dei principali oppositori di Putin, Aleksej Naval’nyj, ricomparso settimane dopo in una colonia penale nell’Artico.
In questo clima politico, la Federazione si avvia a concludere il secondo anno di invasione. Pur trovandosi, al momento, in fase offensiva, la guerra è giunta a una situazione di stallo, come testimoniano vari analisti militari, persino quelli dell’alleato cinese (se ne parla, per esempio, sul Global Times, un notiziario molto legato al governo cinese).
Ciò nonostante, non è detto che questo si tradurrà nell’inizio di negoziati nel 2024. Conterà molto l’esito delle elezioni statunitensi, con il candidato repubblicano Donald Trump che è dato favorito, nonostante i problemi giudiziari e la decisione di Stati come il Colorado e il Maine di non ammettere la sua candidatura a causa delle inchieste.

La guerra in Medio Oriente (e altri dintorni geopolitici)

Sono proseguiti per tutto dicembre i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza. Sono stati colpiti anche campi profughi, come quello di Bureij, nel centro di Gaza, di Jabaliya e di Maghazi. Il bilancio delle vittime è difficile da stabilire, ma – secondo il ministero della Sanità palestinese – dovrebbe attestarsi oltre le 20mila persone uccise e oltre le 50mila ferite. Quasi 2,3 milioni di abitanti di Gaza sono stati sfollati; crescono la fame e le malattie.
L’esercito israeliano ha subìto 144 morti dal 20 ottobre scorso, mentre dei 240 prigionieri fatti da Hamas il 7 ottobre, ne resterebbero poco più di 100 ancora a Gaza. Hamas ha avvertito Israele che il tempo per loro stia scadendo e Osama Hamdan, rappresentante di Hamas a Beirut, ha riferito che non ci saranno negoziati finché non finirà l’assalto a Gaza.

Al momento, il principale mediatore è l’Egitto.

Ha avanzato una proposta per il cessate il fuoco, il rilascio graduale degli ostaggi e la creazione di un governo palestinese di esperti per amministrare la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. La proposta egiziana, in forma preliminare, è stata concordata con il Qatar. I due Paesi stanno interagendo con le fazioni palestinesi per la creazione di un governo legittimato da elezioni presidenziali e parlamentari. Ismail Haniyeh, leader politico di Hamas risiedente in Qatar, è stato di recente in visita al Cairo. Un funzionario egiziano ha riferito che la proposta verrà discussa da Hamas con il leader della Jihad islamica, Ziyad al-Nakhalah.

Cresce infine la pressione internazionale su Israele e quella interna contro il governo guidato da Benjamin Netanyahu, per aver permesso a Hamas di guadagnare forza negli anni e per non aver protetto i civili il 7 ottobre.

Il governo sembra intenzionato a proseguire l’assedio e l’esercito ha dichiarato di aver completato lo smantellamento del quartier generale sotterraneo di Hamas nel nord di Gaza. Israele è stato accusato di maltrattare i detenuti palestinesi e di aver colpito i civili indiscriminatamente, ma ha risposto alle critiche affermando di aver ucciso migliaia di militanti di Hamas, che impiega aree residenziali e tunnel affollati per martirizzare la propria popolazione.

Un ulteriore allarme nella regione è dato dal rischio di allargamento del conflitto.

L’Iran getta benzina sul fuoco; crescono le tensioni con il Libano e, in Yemen, gli Houthi hanno dichiarato il loro sostegno a Hamas, prendendo di mira le navi dirette in Israele. A novembre, avevano sequestrato una nave mercantile e da allora hanno condotto attacchi con droni e missili balistici contro le navi commerciali. Alcune compagnie di navigazione, come Mediterranean Shipping Company, Maersk e Hapag-Lloyd stanno dirottando le navi dal Mar Rosso, in alcuni casi circumnavigando l’Africa e aumentando di conseguenza i costi dei prodotti trasportati.
Gli Stati Uniti hanno lanciato un’operazione navale internazionale per proteggere la rotta: al momento, hanno aderito all’iniziativa Canada, Regno Unito, Francia, Italia, Spagna, Norvegia e Bahrein.

Gli Houthi sono una setta della minoranza sciita yemenita, gli Zaidi, ispirata a Hezbollah.

Sono un gruppo armato sostenuto e finanziato dall’Iran, che prende il nome dal fondatore Hussein al Houthi, che negli anni Novanta intendeva combattere quella che considerava la corruzione del presidente Ali Abdullah Saleh. Questi, con il sostegno dell’Arabia Saudita, cercò di eliminare gli Houthi nel 2003, ma senza successo.
Dal 2014, il gruppo porta avanti una guerra civile contro il governo yemenita, difeso dai sauditi e dagli emiratini. Secondo le Nazioni Unite, a inizio 2022, la guerra ha causato circa 377mila morti e quattro milioni di sfollati. Stando al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, nel 2010 gli Houthi contavano tra 100mila e 200mila seguaci, includendo nel numero sia i civili che i miliziani. Ad aprile 2022, il Presidential Leadership Council, ovvero il governo ufficiale yemenita guidato da Abdrabbuh Mansour Hadi, ha trasferito la sua sede a Riyadh, capitale dell’Arabia Saudita. A oggi, gli Houthi controllano vaste aree dello Yemen, tra cui il nord del Paese, la capitale Sana’a e la costa del Mar Rosso.

Per approfondire

Sulla COP28 – aljazeera.com, cnn.com e ilsole24ore.com | Sulla crisi – ispionline.it, ilpost.it e wired.it | Sulla guerra in Ucraina – theguardian.com, bbc.com e cnn.com | Sulla guerra in Medio Oriente – aljazeera.com, time.com e cnbc.com



Argyros Singh
Leggi >
4 weeks, novembre 2023: notizie dal mondo

4 weeks, novembre 2023: notizie dal mondo

4 weeks, novembre 2023: notizie dal mondo

4 weeks Di Argyros Singh. Cosa è successo nel mondo a novembre? La tregua tra Israele e Hamas, i diritti delle donne in Iran, i femminicidi in Italia, sviluppi politici in Birmania, gli incontri diplomatici tra Stati Uniti e Cina e le elezioni in Argentina.

4 Weeks, notizie dal mondo: ogni mese, il focus sui principali eventi accaduti durante le quattro settimane precedenti.
Nel mese di novembre, la recente tregua in Medio Oriente, il conflitto tra Israele e Hamas, per proseguire con la questione dei diritti delle donne in Iran. Venendo all’Italia, riporto i dati aggiornati sui femminicidi del 2023. Ritorno infine sullo scenario internazionale, con gli ultimi sviluppi politici in Birmania, i recenti incontri diplomatici tra Stati Uniti e Cina e le interessanti elezioni in Argentina.



La guerra Israele-Hamas

Venerdì 24 ha segnato un primo spiraglio di luce nella Striscia di Gaza. Un cessate il fuoco, mediato da Qatar, è durato per sette giorni (anziché per i quattro previsti). L’accordo prevedeva il rilascio di ostaggi rapiti da Hamas in cambio di prigionieri palestinesi e di aiuti umanitari a Gaza. Sono stati rilasciati circa 102 ostaggi israeliani (ne rimangono ancora circa 140) e 210 prigionieri palestinesi. Già mercoledì 29, però, il premier Benjamin Netanyahu ribadiva l’intenzione di riprendere la guerra al termine della tregua: «Non c’è alcuna possibilità che non torneremo a combattere fino alla fine. Questa è la mia politica, l’intero gabinetto la sostiene, l’intero governo la sostiene, i soldati la sostengono, il popolo la sostiene: questo è esattamente ciò che faremo».
Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha affermato che la Striscia di Gaza si trovi in un’epica catastrofe umanitaria. L’Onu stima in più di 1,8 milioni gli sfollati, di cui circa il 60% si trova in rifugi dell’agenzia Unrwa, in cui la portavoce dell’Oms, Margaret Harris, ha riscontrato epidemie di malattie infettive.

I raid israeliani sono iniziati dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, che aveva portato a 1200 uccisioni e al rapimento di centinaia di ostaggi.

Da allora, le operazioni aeree e terrestri israeliane avrebbero ucciso circa quindicimila persone, tra cui un 40% di bambini, secondo i funzionari del ministero della Sanità nella Striscia di Gaza, che tuttavia è una fonte non del tutto affidabile, essendo espressione di Hamas. L’Idf ha suddiviso la Striscia in aree numerate e ha diffuso la mappa ai residenti, in modo tale che i civili abbiano istruzioni sui prossimi movimenti dell’esercito, che, dopo aver mietuto migliaia di vittime, sta compiendo sforzi per riuscire a distinguere i civili dai terroristi, che, a differenza di un esercito regolare, non indossano in genere divise e si confondono tra la folla.

Con l’inizio di dicembre, la tregua è venuta meno.

L’obiettivo di Israele, secondo Netanyahu, rimane la distruzione delle capacità militari e di governo di Hamas, oltre alla liberazione degli ostaggi. Ha inoltre affermato che Israele si assumerà la responsabilità generale della sicurezza nella Striscia per un periodo indefinito, pur non volendo rioccupare il territorio, lasciato nel 2005.
Forte dell’arruolamento di trecentomila riservisti e di una forza permanente di centosessantamila unità, l’Idf ha finora distrutto centinaia di tunnel costruiti sotto Gaza e ha affermato di aver ucciso molti terroristi, tra cui comandanti di Hamas. I soldati israeliani periti sono 390, la maggior parte nell’attacco del 7 ottobre.
Non è chiara la strategia politica di Israele per il futuro della Striscia. Sembra che dai negoziati sia emersa la possibilità di reintrodurre nel territorio l’Autorità Palestinese (AP), che rappresenta il partito Fatah, acerrimo nemico di Hamas e da anni in grave calo dei consensi tra i palestinesi.


Gli scioperi della fame in Iran

L’attivista iraniana Narges Mohammadi, Premio Nobel per la pace 2023, ha iniziato uno sciopero della fame in carcere a inizio mese. Detenuta dal 2021 nel carcere di Evin, a Tehran, la donna soffre già di problemi cardiaci e polmonari: la famiglia aveva chiesto un trasferimento d’urgenza in ospedale, ma le era stato negato per il suo rifiuto di indossare l’hijab.
La protesta ha lo scopo di evidenziare i ritardi e la trascuratezza delle cure mediche per i detenuti, oltre a condannare l’obbligatorietà dell’hijab. La cinquantunenne rifiuta il cibo secco e beve soltanto acqua con zucchero o sale. Mohammadi è vicepresidente dell’organizzazione non governativa Defenders of Human Rights Center, ed è stata incarcerata più volte per le accuse rivolte allo Stato.

Le tensioni tra il governo e le donne iraniane erano esplose nel settembre 2022, a seguito della morte della ventiduenne Mahsa Amini, arrestata dalla polizia morale per aver indossato in maniera impropria l’hijab.

A luglio 2023, la polizia morale ha ripreso a pattugliare e a far applicare la regola del velo, dopo una sospensione durata alcuni mesi. A settembre, il parlamento iraniano ha infine approvato un disegno di legge che impone sanzioni più pesanti e condanne fino a dieci anni di carcere per gli attivisti che protestano sul tema.
A ottobre, la sedicenne Armita Geravand è morta in coma, dopo essere stata presumibilmente aggredita dalla polizia morale perché non indossava l’hijab. Le autorità iraniane hanno minimizzato l’accaduto, parlando di problemi di pressione sanguigna.
Accanto a Mohammadi, è in sciopero della fame, da giovedì 23, anche l’attivista Zohreh Sarv, detenuta da ottobre 2021 con l’accusa di propaganda contro il sistema. Anche a lei sono state negate le cure mediche.

Mentre la lotta per i diritti delle donne prosegue, da giovedì 2, per assurdo, il Forum sociale del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani è presieduto dall’Iran.

La nomina era avvenuta lo scorso maggio, e il Centro per i Diritti Umani in Iran (Chri) aveva parlato di un oltraggio. Il direttore del Chri, Hadi Ghaemi, ha utilizzato queste parole: «La nomina di un funzionario iraniano a presiedere un organo dell’Unhrc, mentre il Consiglio sta indagando sul massacro di centinaia di manifestanti pacifici da parte della Repubblica islamica, riflette una scioccante cecità etica.»

La violenza sulle donne in Italia

Nelle ultime due settimane, la scomparsa e poi l’omicidio di Giulia Cecchettin, una ragazza veneta di ventidue anni, sono stati al centro del dibattito pubblico italiano. Questo ennesimo caso di femminicidio è parte delle 106 donne italiane uccise dall’inizio dell’anno al 19 novembre.
Cecchettin viveva in provincia di Venezia, a Vigonovo, e stava per laurearsi in Ingegneria biomedica all’Università di Padova. L’ex fidanzato, Filippo Turetta – ora accusato di omicidio volontario aggravato dal vincolo affettivo – frequentava la stessa facoltà. La ragazza aveva interrotto la relazione da diversi mesi, pur continuando a frequentare il ragazzo.
L’11 novembre, Turetta era andato a prendere in macchina Cecchettin e, da quel giorno, non si erano più avute sue notizie.

Un testimone li aveva visti litigare in un parcheggio di Vigonovo e la donna era stata forzata a rientrare in macchina sanguinante.

Nei giorni successivi, l’auto era stata registrata in Austria, mentre il corpo senza vita della ragazza veniva trovato il 18, nella zona del comune di Barcis, in provincia di Pordenone. Secondo le informazioni raccolte dall’agenzia Ansa, sono state rilevate almeno venti coltellate e si presume che la vittima fosse già morta quando il corpo è stato abbandonato.
Il giorno dopo, Turetta è stato arrestato nella zona di Lipsia, nella Germania orientale, per poi essere estradato in Italia alcuni giorni dopo.

Il caso ha riacceso i riflettori sul tema dei femminicidi, portando nelle piazze migliaia di persone.

Secondo il report annuale del Servizio analisi criminale della Direzione centrale polizia criminale, aggiornato al 19 novembre, da gennaio sono stati registrati 295 omicidi, di cui 106 con vittime femminili. Non si tratta sempre di femminicidi, ovvero dell’uccisione di donne motivata dal desiderio di annientarne l’indipendenza, ma ciò che è certo è che 87 di queste vittime siano morte in àmbito familiare o affettivo e che 55 di loro siano state assassinate per mano del partner o ex partner.
Il report sottolinea un cambio di tendenza rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, con un aumento del numero di omicidi del genere che da 53 diventano 55 (+4%).

Il femminicidio è tuttavia solo il culmine di una violenza fisica e psicologica che è parte di un fenomeno spesso sommerso.

Secondo Nadia Somma, del consiglio direttivo di Dire, la rete nazionale dei Centri antiviolenza (Cav), il fenomeno avrebbe ricevuto un’attenzione mediatica soltanto nell’ultimo decennio, rendendo quindi difficile un calo drastico degli omicidi.
Le denunce per i cosiddetti “reati spia” di una possibile violenza sono aumentate negli ultimi anni, ma soltanto il 27% decide di avviare un percorso giudiziario. Stando a un report del Ministero dell’Interno, pubblicato a settembre, nel periodo 2013-2022 le denunce di maltrattamenti con vittime femminili sono passate da 9712 a 19.902; gli atti persecutori sono passati da 9689 a quasi quattordicimila; la violenza sessuale è passata da 4488 casi a 6291.

In Italia, sono presenti 373 Centri antiviolenza e 431 Case rifugio, ma solo il 26,8% delle donne si reca ai Cav di sua iniziativa.

Tra queste donne, il 61,6% ha figli e il 72,2% dei minori ha assistito alla violenza di un uomo sulla madre, subendola a sua volta per quasi il 20% dei casi.
Secondo Somma, vi è la necessità di intervenire con politiche sociali che portino a una maggiore indipendenza economica e sentimentale delle donne. È invece scettica sul tema dell’educazione affettiva, in un contesto digitale aggressivo e invadente.
I governi degli ultimi quattro anni hanno finanziato soprattutto interventi in risposta a violenze già avvenute, ma hanno speso meno per le strategie di prevenzione. Secondo i dati portati da ActionAid, inoltre, i fondi antiviolenza si sarebbero ridotti persino del 70% nell’ultimo anno.

La situazione birmana

La giunta militare del Myanmar, che a febbraio 2021 prendeva il potere con un colpo di Stato ai danni del governo di Aung San Suu Kyi, si trova a difendersi su più fronti. Le forze della resistenza hanno trovato un alleato nelle milizie etniche che popolano il Paese e stanno puntando a prendere il controllo delle principali città. L’Alleanza delle Tre Fratellanze, che riunisce tre compagini etniche del nord-est, ha avviato l’Operazione 1027 (perché è stata lanciata il 27 ottobre) e gli scontri hanno portato a circa 335mila sfollati e a quasi 200 civili uccisi, secondo l’Onu.
Parte dei ribelli sostiene di voler stabilire una democrazia federale, in cui i vari popoli che abitano il Myanmar possano avere pieni diritti e una rappresentanza. Bo Nagar, comandante dell’Esercito rivoluzionario nazionale birmano (Bnra), ha affermato che sia giunta la fine del radicato potere dell’esercito birmano sulla politica statale.

Alcune compagini ribelli hanno anche obiettivi di lungo periodo.

Come la lotta al gioco d’azzardo e alla produzione di narcotici, due piaghe che coinvolgono molte aree del Paese al confine thailandese e cinese, un business illegale che coinvolge i sindacati cinesi e che ha messo in imbarazzo Pechino, con la denuncia di lavoratori ridotti in schiavitù e talvolta uccisi, quando tentavano di fuggire.
Nelle regioni montuose al confine settentrionale dello Stato Shan, la giunta ha perso il controllo di almeno sei città, tra cui Chin Shwe Haw e Kunlong, luoghi strategici per il commercio con la Cina, da cui passavano risorse che aggiravano le sanzioni internazionali. I ribelli hanno poi rivendicato il controllo di Chin Shwe Haw e delle strade che portano alla città di Muse, da cui passa il 98% del commercio transfrontaliero con la Cina.

Si registrano molte defezioni nell’esercito birmano, demotivato anche dalla mancanza di sostegno da parte della popolazione civile.

Sono così aumentate le violenze contro i civili, una storica strategia dell’esercito birmano per intimorire i rivoltosi.
I gruppi etnici armati che stanno combattendo sembrano concordi, in questa fase del conflitto, nel non considerare la giunta un interlocutore legittimo e mirano quindi a un suo annientamento. Ciò che ci si domanda, però, è se sapranno trovare un punto di accordo una volta raggiunto il loro scopo, oppure se cederanno agli storici attriti, dando vita a una nuova fase della guerra civile.

I tentativi di distensione tra Cina e Stati Uniti

A metà novembre, a margine del vertice Apec a San Francisco, è stato orchestrato un incontro tra il presidente cinese Xi Jinping e il presidente degli Stati Uniti Joe Biden.
Dal 2010, i rapporti tra le due potenze sono mutati. Per gli Usa, l’ascesa cinese è una sfida diretta alla supremazia statunitense e ai valori globali alla base dell’ordine post-1945. Sono quindi cresciuti gli allarmi americani relativi alla violazione dei diritti umani, al furto di proprietà intellettuale e all’aggressione militare. Da parte sua, la Cina ha cominciato a rivendicare una sorta di “sfera di influenza” nel Pacifico e nel Sudest asiatico, allarmando i Paesi della regione.

Biden e Xi hanno discusso sul tema dell’egemonia.

La Cina ha ribadito la sua retorica sul partenariato cooperativo, mentre gli Usa hanno ragionato in termini di competizione strategica, di pratiche commerciali eque e di rafforzamento delle alleanze.
Il vertice non ha risolto alcun problema particolare, ma è servito a impostare un dialogo che andrà mantenuto negli anni a venire, per sviluppare princìpi condivisi e individuare le questioni globali su cui collaborare.

Il ripristino delle relazioni Usa-Cina, dopo anni di crescenti tensioni, richiederà una chiarezza comunicativa da entrambe le parti.

È necessario un confronto schietto tra leader, tra militari (per discutere sui diversi approcci alle situazioni di crisi) e tra ricercatori accademici.
In vista delle elezioni statunitensi del novembre 2024, Biden ha per ora ottenuto un impegno da parte di Xi sulle esportazioni cinesi di fentanyl e sul ripristino dei colloqui tra militari.
Da parte cinese, Xi si trova a gestire un Paese indebolito in termini economici, oltre al nervosismo intorno alle elezioni di gennaio a Taiwan, dove i sondaggi danno in vantaggio il Partito Democratico Progressista al potere, che ha rapporti molto freddi con Pechino. Come ha affermato Samir Saran dell’Observer Research Foundation di Nuova Delhi, la Cina cerca un ordine mondiale multipolare, ma un’Asia orientale unipolare, mentre gli Usa il contrario. Gli accordi raggiunti a San Francisco sono un primo passo per uscire da questo schema.

Le elezioni in Argentina

Il mese scorso scrivevo delle elezioni argentine e dell’imminente ballottaggio. Javier Milei è diventato presidente dell’Argentina, la terza economia più grande dell’America Latina, ma in grave crisi.
Una delle proposte di Milei è la dollarizzazione del Paese, con l’eliminazione della Banca Centrale argentina per distruggere l’iperinflazione (e il peso argentino). Per farlo, il presidente avrebbe bisogno dell’approvazione del Congresso e potrebbe essere necessaria una modifica della costituzione. L’impiego del dollaro Usa come valuta nazionale renderebbe la Federal Reserve americana responsabile della politica dei tassi di interesse. Le trattative, comunque, non saranno semplici: il suo movimento Libertad Avanza è la terza forza politica più grande al Congresso.
Sempre sul fronte interno, Milei ha espresso opinioni contrastanti sulla dittatura militare del 1976-83, riducendo la stima dei desaparecidos da trentamila a circa 9000 e sostenendo che Stato e guerriglia antigovernativa abbiano entrambi commesso crimini contro l’umanità. Ciò ha scatenato le proteste delle madri e delle donne degli scomparsi di Plaza de Mayo.

Milei è anche uno scettico del cambiamento climatico.

Non si definisce un negazionista, ma ritiene che il pianeta stia attraversando uno dei suoi abituali cicli di temperatura e che la responsabilità non possa essere imputata all’essere umano.
Il cambiamento climatico è un tema caro a papa Francesco, che Milei aveva definito – prima di essere eletto – un gesuita promotore del comunismo e persino un «rappresentante del maligno sulla Terra». Ciò ha reso tese le relazioni con il Vaticano e ha inimicato una larga fetta dell’elettorato cattolico argentino, sceso in piazza per protestare. Appena eletto, comunque, Milei ha effettuato una chiamata con il papa, definita amichevole, in cui ha invitato il pontefice in Argentina per il prossimo anno. Interrogato sul cambio di rotta, ha affermato che, da presidente, si debba adottare un maggiore pragmatismo.

Pragmatismo ripreso anche nel rapporto con Cina e Brasile, i due principali partner commerciali dell’Argentina, dato che Milei ha affermato di volersi allineare agli Stati Uniti e al mondo libero, ma non ha tagliato di netto i rapporti con Pechino.

La Cina è il principale mercato argentino per soia, carne e cereali e Pechino ha sostenuto le deboli finanze argentine, indebitate con l’Fmi. Più tesi i rapporti con il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva, dopo l’invito di Jair Bolsonaro a partecipare all’insediamento di Milei il 10 dicembre. A ogni modo, l’Argentina non entrerà a far parte del blocco Brics dal 1° gennaio 2024, com’era previsto.

L’economista Diana Mondino, probabile ministra degli Esteri, ha minimizzato l’importanza del blocco, affermando che esso sia legato più a un allineamento politico che a un reale vantaggio per il commercio tra Paesi membri.

Al contrario, Milei ha già compiuto un viaggio negli Stati Uniti per confrontarsi con funzionari statunitensi e internazionali che si occupano di prestiti e, a Washington, ha incontrato il diplomatico americano Juan Gonzalez, vicesegretario di Stato aggiunto per gli Affari dell’emisfero occidentale. Milei ha poi avuto un primo colloquio a distanza da Buenos Aires con Kristalina Georgieva, direttrice generale dell’Fmi, verso il quale l’Argentina ha un debito di 44 miliardi di dollari, già negoziato nel 2018.

Per approfondire

Sul conflitto – bbc.com, haaretz.com e wsj.com | Sullo sciopero della fame – time.com, iranwire.com e aljazeera.com | Sul caso – istat.it e wired.it | Sulla Birmania – theguardian.com, cnn.com e bbc.com | Sulla diplomazia tra le due potenze – thediplomat.com, japantimes.co.jp e foreignpolicy.com | Sulle elezioni argentine – apnews.com e worldpoliticsreview.com



Argyros Singh
Leggi >
4 weeks, ottobre 2023: notizie dal mondo

4 weeks, ottobre 2023: notizie dal mondo

4 weeks, ottobre 2023: notizie dal mondo

4 weeks Di Argyros Singh. Cosa è successo nel mondo a ottobre? Il conflitto arabo-palestinese, la guerra in Ucraina, il terremoto in Afghanistan, l’uragano Otis in Messico e le elezioni in in Argentina, Polonia e Slovacchia.

The Week diventa 4 Weeks, notizie dal mondo: ogni mese, il focus sui principali eventi accaduti durante le quattro settimane precedenti.
Nel mese di ottobre, è riesploso ad alta intensità il conflitto arabo-palestinese, che ho di recente approfondito, con notizie d’attualità, in uno speciale di The Week: Speciale The Week: il conflitto israelo-palestinese.
In parallelo, la guerra in Ucraina è ormai giunta a una situazione di stallo, con le due parti coinvolte che, nonostante i tentativi di offensiva e di controffensiva, non hanno guadagnato obiettivi strategici in grado di risolvere il conflitto. Il principale risultato è stato il parziale allontanamento della flotta russa dal Mar Nero, a seguito di un’intensa campagna ucraina volta a colpire le unità marine.
Uscendo dall’Europa, approfondisco due calamità naturali: il terremoto in Afghanistan e l’uragano Otis in Messico. Tratto poi della recente sparatoria nel Maine, Usa, e scrivo di tre elezioni significative in Argentina, Polonia e Slovacchia – con una parentesi sull’Ungheria.



Calamità naturali: Afghanistan e Messico

  1. Una serie di quattro terremoti di magnitudo 6,3 ha colpito la provincia di Herat, nell’Afghanistan occidentale, all’inizio del mese.

    Le prime due scosse, seguite da quelle di assestamento, si sono verificate il 7 ottobre, mentre le restanti l’11 e il 15.
    La sismicità afghana dipende dall’interazione delle placche tettoniche araba, eurasiatica e indiana. Secondo i sismologi, gli epicentri si localizzerebbero tra la faglia di Siakhubulak a nord e quella di Herat a sud.
    L’Oms ha calcolato 1482 morti, 2100 feriti, oltre 43mila persone interessate dall’evento sismico e 114mila che hanno necessità di aiuti umanitari. In un primo momento, i talebani avevano stimato oltre tremila morti, per poi ridimensionare a 1000, adducendo problemi di coordinamento con i gruppi di soccorso.
    Le vittime sono state soprattutto donne e bambini, morti nei crolli delle abitazioni dove sono costretti a stare per la maggior parte del tempo. Ci sono state persino testimonianze di donne picchiate dopo il sisma, perché uscite di casa senza burqa e mahram, l’accompagnatore maschio.

    Gli ospedali si sono trovati in situazioni critiche, con l’assenza di attrezzature adeguate, in un Paese che, dalla presa del potere dei talebani nel 2021, stava già fronteggiando una grave crisi umanitaria.

    Le abitazioni più colpite sono state quelle di fango, crollate già al primo terremoto. Alcuni villaggi sono stati rasi al suolo; altri sono rimasti gravemente danneggiati.
    I terremoti si inseriscono in una situazione sociale critica, con le conseguenze di decenni di guerra, anni di siccità e la riduzione degli aiuti esteri con il ritorno dei talebani al potere. Il direttore nazionale di World Vision Afghanistan ha riferito che le persone tentavano di salvare chi era intrappolato a mani nude o con le pale. In seguito, sono arrivati soccorsi da organizzazioni come l’Unicef e la Mezzaluna Rossa, ma anche da squadre di soccorso iraniane. I talebani hanno inoltre rilasciato 473 prigionieri in una struttura carceraria nella provincia di Herat, per il timore che l’edificio potesse crollare sui detenuti.

    Il vice primo ministro afghano, Abdul Ghani Baradar, ha annunciato la costruzione di nuove case prima dell’arrivo del freddo.

    Il governo ha poi fatto un appello internazionale, chiedendo aiuto già l’8 ottobre. Il Pakistan aveva annunciato l’invio di aiuti, ma i talebani hanno rifiutato l’offerta. In parallelo, la Federazione Internazionale delle Società della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa ha dichiarato, al 12 ottobre, di aver raccolto solo il 36% dei 132,64 milioni di dollari richiesti.
    A livello internazionale, l’Australia ha promesso un milione di dollari australiani al Fondo umanitario per l’Afghanistan; la Società cinese della Croce Rossa ha offerto 200mila dollari; l’Ue ha approvato un pacchetto di aiuti da 3,5 milioni di euro; il Giappone ha dichiarato di voler fornire 3 milioni di dollari a organizzazioni internazionali impegnate sul campo. Al momento, il problema principale è costituito dalla gestione degli sfollati, in vista del prossimo inverno.

  2. L’uragano di categoria 5 Otis si è abbattuto il 25 ottobre vicino alla città balneare di Acapulco: è stata una delle tempeste tropicali più forti mai registrate, che ha avuto origine da una perturbazione a sud del Golfo di Tehuantepec.

    I venti di picco hanno superato i 270 km/h: ci sono state frane, inondazioni, edifici danneggiati. Le comunicazioni sono state interrotte, anche a causa del danneggiamento di molte stazioni radio.
    Con l’avvicinarsi dell’uragano, il governo dello Stato di Guerrero aveva aperto 396 rifugi per gli sfollati e l’esercito e la marina avevano inviato ottomila soldati per le operazioni di salvataggio. I morti sono stati almeno ventisette e quattro sono i dispersi. Altre sedici persone sarebbero morte negli ospedali per la mancanza di corrente. In piena crisi, sono stati segnalati numerosi saccheggi in tutta la città di Acapulco, anche a causa del blocco dei bancomat che ha lasciato gli abitanti senza contanti.
    Le società di analisi dei rischi di catastrofi naturali hanno stimato le perdite materiali tra i dieci e i quindici miliardi di dollari. Il governo degli Stati Uniti ha fornito al Messico le attrezzature per riaprire le strade, restando disponibile a qualsiasi richiesta di assistenza da parte del governo messicano. Il presidente Casabella Andrés Manuel López Obrador ha dichiarato che la calamità ha provocato ingenti danni economici, ma che a livello di vittime i messicani siano stati «fortunati».

Sparatoria nel Maine

Il 25 ottobre, un quarantenne armato, Robert Card, ha ucciso diciotto persone e ne ha ferite altre tredici in due sparatorie a Lewiston, Maine. La prima è avvenuta in una sala da bowling, il Just-In-Time Recreation; la seconda allo Schemengees Bar & Grille Restaurant.
Lo sceriffo della contea aveva avviato una caccia all’uomo ed era stato emesso un mandato di arresto con otto capi di imputazione per omicidio. Le scuole in un raggio di cinquanta miglia erano state chiuse e la popolazione allertata.
Il 27, l’uomo è stato trovato morto in un bosco vicino al fiume Androscoggin, per una ferita da arma da fuoco autoinflitta. Si trovava vicino al suo ex luogo di lavoro, un centro di riciclaggio nei pressi di Lisbona, Maine, da cui l’uomo era stato da poco licenziato.

Robert Card era un sergente di prima classe nella riserva dell’esercito statunitense e si era arruolato nel 2002.

Aveva studiato ingegneria presso l’Università del Maine, non terminando gli studi, e non aveva precedenti, se non per un arresto per guida in stato di ebbrezza nel 2007 e due accuse di eccesso di velocità nel 2001 e nel 2002. Nel luglio 2023, il personale che si stava addestrando con lui a West Point aveva chiesto l’intervento delle forze dell’ordine per il suo comportamento «irregolare», poiché lamentava di sentire delle voci. La polizia lo aveva trasportato al Keller Army Community Hospital dell’accademia, dove era stato ricoverato per due settimane.

Quella di Lewiston è stata la sparatoria di massa più mortale del Maine e una delle più significative degli Stati Uniti.

Il presidente Joe Biden ha chiesto ai legislatori del Maine di offrire pieno sostegno federale al progetto di legge per il divieto alle armi d’assalto. Il senatore Jared Golden, che rappresenta Lewiston, ha annunciato il suo sostegno, sebbene in passato si fosse opposto alle misure di controllo delle armi. L’annosa questione statunitense sulla diffusione indiscriminata delle armi da fuoco torna al centro del dibattito americano.

Elezioni in Argentina, Polonia, Slovacchia

  1. Il 22 ottobre si sono tenute le elezioni generali argentine.

    Il presidente in carica Alberto Fernández e la vicepresidente Cristina Fernández de Kirchner hanno scelto di non ricandidarsi. Sergio Massa, di Unión por la Patria, ha ottenuto a sorpresa il 36% dei voti, contro il 30% del favorito Javier Milei, di La Libertad Avanza. La sorpresa deriva dal fatto che, quando Massa era ministro dell’Economia, c’era stato un grave aumento dell’inflazione.
    La presidenza Fernández è stata limitata dalla pandemia di Covid-19 e dalla crisi del debito ereditata dal precedente governo. L’economia era in ripresa, ma tra il 2021 e il 2022 l’inflazione è salita al 100%, il valore più alto dal 1991, con un picco del 138% su base annua a settembre 2023. Alle elezioni di medio termine del 2021, il Frente de Todos, partito di spicco del governo, aveva perso la maggioranza in entrambe le camere del Congresso. Non una novità, considerando che a oggi quattro argentini su dieci vivono sotto la soglia di povertà.

    Il ballottaggio tra Massa e Milei si terrà il 19 novembre, poiché per una vittoria al primo turno l’obiettivo da raggiungere era del 45% dei voti, oppure del 40% dei voti con uno scarto di dieci punti percentuali sul candidato al secondo posto.

    Massa ha raggruppato una coalizione peronista di centrosinistra, mentre Milei è un economista ultraliberista di estrema destra. La candidata di centrodestra, Patricia Bullrich, della coalizione Juntos por el Cambio, ha ottenuto il 23,83% e quei voti potrebbero determinare o meno la vittoria di Milei, considerando, per esempio, che Bullrich ha superato i due candidati in un’importante città come Buenos Aires.
    Massa propone tagli alle spese e politiche più attente ai mercati, ma pesa su di lui la magra esperienza al ministero dell’Economia. Milei, invece, vorrebbe adottare il dollaro al posto dell’attuale moneta nazionale, estendere il porto d’armi, ridurre o abolire il diritto all’aborto e le diagnosi prenatali. In queste settimane, sta cercando di appianare le divergenze con Bullrich in nome della fine del kirchnerismo, la corrente politica legata alla famiglia Kirchner, che governa quasi ininterrottamente da vent’anni. Da parte sua, Bullrich si è detta contraria al sostegno a Massa, considerato populista e legato a un sistema di tipo mafioso. Massa potrebbe allora recuperare voti tra gli elettori più moderati, tra i radicali che, nel contesto argentino, si collocano al centro dello spettro politico.

  2. Dopo le elezioni parlamentari polacche del 2019, il partito di destra Legge e Giustizia (PiS) ha mantenuto la maggioranza al Sejm (la Camera bassa del Parlamento polacco), con un governo guidato da Mateusz Morawiecki.

    A maggio 2023, il Parlamento ha approvato l’istituzione di una commissione che può, senza ordine del tribunale, escludere per dieci anni i politici dalle cariche pubbliche, se sospettati di aver subìto influenze russe. Il mese successivo, la legge è stata ammorbidita, consentendo comunque l’attività politica della persona sospetta.
    Alle elezioni del 15 ottobre, Donald Tusk ha guidato l’alleanza denominata Coalizione Civica (KO), in opposizione alla coalizione di Destra Unita (ZP). Tusk e altri partiti minori hanno ottenuto il 54% dei voti e si prevede che possano formare un governo. Il PiS è rimasto il partito più numeroso al Parlamento, con circa il 35% dei voti, ma ha perso la maggioranza e probabilmente non riuscirà a formare un governo.

    L’affluenza alle urne è stata del 74,4%, la più alta dalla caduta della Repubblica popolare polacca nel 1991.

    Fondamentale l’apporto dei giovani elettori, con un’affluenza al 68,8% per la fascia 18-29 anni.
    Il 24 ottobre, l’opposizione si è detta pronta a formare un governo con Donald Tusk come primo ministro. L’attuale presidente Andrzej Duda ha tempo trenta giorni per convocare il parlamento e potrebbe provare a chiedere a Legge e Giustizia di costituire un governo. Per queste ragioni, si dovrà forse attendere fino a dicembre per il giuramento.
    Prima delle elezioni, alcuni analisti erano preoccupati per una deriva sovranista o populista in Polonia; con la vittoria relativa dell’opposizione, invece, il popolo polacco ha dimostrato a maggioranza di voler rimanere legata ai princìpi dell’Unione Europea.

  3. Discorso molto diverso per la Slovacchia, le cui elezioni parlamentari si sono tenute il 30 settembre in forma anticipata, dopo che un voto di sfiducia aveva fatto cadere il governo.

    Il partito populista e socialconservatore di sinistra Direzione – Socialdemocrazia (Smer-SD), guidato dall’ex premier Robert Fico, ha ottenuto 42 seggi, contro i 32 di Slovacchia progressista (PS), partito social-liberale e filoeuropeista. Terzi i socialdemocratici con 27 seggi e quarti i conservatori con 16. Sotto questo numero tutti gli altri partiti.
    La soglia per ottenere la maggioranza prevede 76 seggi, per cui il partito di Fico ha costituito un governo di coalizione con i socialdemocratici, prestando giuramento il 25 ottobre. Il precedente governo Fico si era dimesso dopo le proteste seguite, nel 2018, all’omicidio del giornalista investigativo Ján Kuciak e della fidanzata Martina Kušnírová.

    Al centro del dibattito preelettorale, l’elevata inflazione, la posizione slovacca nella guerra ucraina, la crisi energetica globale, gli scandali di corruzione e l’immigrazione.

    A elezioni compiute, la presidente Zuzana Čaputová aveva incaricato Fico di formare un governo, rifiutandosi tuttavia di approvare Rudolf Huliak come ministro dell’Ambiente, a causa del suo dichiarato negazionismo del cambiamento climatico. Un altro punto che ha già fatto discutere nell’Ue è stato il rifiuto del nuovo governo di continuare a sostenere militarmente l’Ucraina. Una dichiarazione che si aggiunge all’attuale veto ungherese sul nuovo pacchetto di aiuti europei a Kyïv e che riapre il dibattito sul tema in vista delle elezioni europee di giugno 2024.


Per approfondire

Sull’Afghanistan – news.un.org, bbc.com e news.sky.com | Sul Messico – cnn.com, reuters.com e ilpost.it | Sulla sparatoria – apnews.com, cnn.com e nytimes.com | Sulle elezioni argentine – economist.com e foreignpolicy.com | Sulle elezioni polacche – politico.eu e france24.com | Sulle elezioni slovacche – euronews.com e bbc.com



Argyros Singh
Leggi >
Speciale The Week: il conflitto israelo-palestinese

Speciale The Week: il conflitto israelo-palestinese

Speciale The Week: il conflitto israelo-palestinese

The week Di Argyros Singh. Il conflitto israelo-palestinese si è riacceso dopo l'attacco di Hamas del 7 ottobre. Una questione storica e geopolitica tra le più difficili da affrontare senza dare un’interpretazione tendenziosa. In questo speciale, un focus sugli ultimi eventi, ma anche un'esortazione a conoscere la storia e affinare il senso critico per restare obiettivi.

La questione israelo-palestinese, o arabo-israeliana, è una delle diatribe storiche e geopolitiche più difficili da affrontare. Anche sul piano meramente documentario, è complicato trovare saggi che non diano un’interpretazione tendenziosa, a favore di una parte o dell’altra. Cercherò di consigliare tre libri per introdursi al tema nella maniera più obiettiva possibile. Non sono gli unici, ma è un buon punto di partenza. Subito dopo, cercherò di raccontare gli eventi seguiti alle azioni compiute da Hamas in Israele il 7 ottobre 2023.

  1. Una premessa: affinare il senso critico
  2. Tre libri per cominciare
  3. Gli eventi di ottobre 2023


Una premessa: affinare il senso critico

Sto facendo fatica, in settimane come queste, a ignorare la tendenziosità di certi suggerimenti di lettura. Nei periodi in cui scoppiano conflitti, come quello in Ucraina, ci sono persone che si precipitano a condividere libri militanti a utenti che magari, in buona fede, pensano di trovare in quelle pagine qualche “verità oggettiva”.
In queste giornate, sul tema del conflitto arabo-israeliano, ho visto condividere moltissimi libri militanti, ovvero schierati con una precisa idea sulla questione. Titoli condivisi in malafede, ben sapendo che la maggior parte delle persone, ignorando i dettagli storici della regione, saranno propensi a prendere per buona la prima lettura che sembri essere convincente.

Ci sono alcuni strumenti per aiutare il proprio senso critico.

Per esempio, quando un autore o una casa editrice regalano il loro libro di storia sull’argomento, non stanno facendo beneficenza o un servizio pubblico, ma propaganda, non diversa dal volantinaggio partitico degli anni Settanta. E, giusta o sbagliata che sia quella visione, sarebbe bene prenderne le distanze, quale sintomo di disonestà intellettuale.
Un altro esempio: se state leggendo un libro che mira a individuare una “colpa” in una delle due parti coinvolte, è bene storcere il naso. Un saggio storico o antropologico non dovrebbe attribuire colpe o meriti, ma limitarsi a esporre i documenti a disposizione, cercando di organizzarli in una teoria, che non è mai verità assoluta.

Mentre è (dovrebbe essere) facile affermare che in Ucraina abbiamo assistito a un’invasione imperialista dal taglio ottocentesco, molto più complicato è mettere insieme i pezzi di quanto accade tra israeliani e palestinesi.

Gli esperti che a vario titolo se ne occupano, da decenni, non riescono a trovarvi una soluzione. È quindi opportuno che ciascuno di noi mantenga una sana prudenza al riguardo e cerchi di trattenere la facile (e comprensibile) emotività.
Un ultimo esempio. Bisogna prestare estrema attenzione a chi suggerisce di leggere l’autore X, considerato “indipendente”, perché mai questo termine è stato l’equivalente di imparziale. Anzi, in genere è proprio l’indipendente a scrivere o a dire le peggiori fesserie, perché – fuori dal confronto critico accademico – esprime sentenze che non possono essere falsificate, in quanto l’autore si rifiuta di sottoporsi a o di riconoscere una critica proveniente dall’ambiente accademico, ritenuto tout court compromesso dal potere egemonico di turno.

Se non sapete che cosa pensare sul conflitto arabo-israeliano, prima di acquistare qualcosa, approfondite la carriera degli autori, ma non solo.

Cercate di assicurarvi che la loro prospettiva non sia resa meno obiettiva dall’attivismo politico, come nel caso di un antropologo molto valido, Edward Said, che continuo a veder condiviso, ma che non è la miglior fonte per avere una visione a trecentosessanta gradi su questo tema. Uno studioso che invece è riuscito a mantenersi equilibrato, pur essendo chiara la sua sensibilità verso i palestinesi, è Alain Gresh nel suo Israele, Palestina (Einaudi, Torino, 2015).

Il conflitto israelo-palestinese è uno di quei casi in cui ci sono davvero verità e ragioni, al plurale.

Nessun riduzionismo ideologico di estrema destra e di estrema sinistra porterà a una soluzione. Non esiste un futuro di questa terra senza l’accettazione del dolore dell’Altro – come evidenzia Gresh – e senza la convivenza, in due Stati, tra questi popoli. Non esiste scenario in cui una delle due entità scomparirà. Partiamo da questo, se la pace vuol essere un valore e se il pacifismo non è solo sterile equidistanza.

Tre libri per cominciare

Giovanni Codovini, Storia del conflitto arabo israeliano palestinese. Tra dialoghi di pace e monologhi di guerra (Mondadori, Milano, 2002).

Non credo vi sia una nuova edizione di questo saggio, ma è disponibile nell’usato e, soprattutto, è a disposizione in centinaia di biblioteche di tutta la Penisola, come si può controllare nel sito del Sistema Bibliotecario Nazionale.
Il testo risale al 2002 ed è stato pubblicato nel corso della Seconda intifada (2000-2005). In meno di duecento pagine, Codovini racconta le origini della questione, le guerre arabo-israeliane, le prospettive di pace del secondo Novecento e il ripresentarsi della violenza a cavallo del millennio. Un capitolo è poi dedicato al tema del sionismo e dell’antisionismo e si fa chiarezza su termini quali ebreo, israeliano e sionista. Un ricchissimo apparato d’appendice include mappe, documenti originali, approfondimenti sui diversi punti di vista nel conflitto. Chiudono il volume una minuziosa cronologia e una corposa bibliografia. Il testo non racconta ovviamente gli ultimi vent’anni, ma è un buon punto di partenza per organizzare meglio le proprie idee.

Michael Brenner, Breve storia del sionismo (Laterza, Milano, 2003) e Arturo Marzano, Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi (Carocci, Milano, 2017).

Si tratta di un doppio suggerimento di lettura, incentrato comunque sulla storia del sionismo. Dalle proposte di Theodor Herzl al rapporto ambivalente della Chiesa cattolica con gli ebrei, dal tema dell’integrazione alla persecuzione, questi saggi esplorano la storia di un movimento, o di un’ideologia che ha presentato e presenta diverse voci al suo interno.
Se dovessi fornire una sintetica e personale definizione di sionismo, esso è l’aspirazione di una larga parte degli ebrei di fondare uno Stato in cui veder riconosciuti i propri diritti. Una forma di giustizia storica e di autoaffermazione di un popolo. Certo, il sionismo non è solo questo e i due saggi che ho indicato mettono in luce le diverse criticità di un concetto che raccoglie differenti visioni dello Stato ebraico.

Abraham B. Yehoshua, Antisemitismo e sionismo. Una discussione (Einaudi, Torino, 2004).

Questo libricino è stato scritto da uno dei più famosi scrittori israeliani, ma non per questo risulta essere tendenzioso.
Yehoshua parte da un’analisi dell’antisemitismo e spiega perché si possa rintracciare un filo rosso storico per cui l’odio verso gli ebrei di ieri trovi ancora forza nel presente. Passa poi all’analisi dello stretto rapporto tra religione e nazionalità in seno all’ebraismo, auspicando che le due identità si separino, affinché la cultura ebraica possa divenire un veicolo di integrazione sociale anche per i non ebrei.

Giunto a questo punto, credo che un lettore medio possa aver acquisito gli strumenti base per orientarsi.

Allora la lettura di scritti come Orientalismo (1978) di Edward Said e il libro di Gresh possono essere interpretati in una prospettiva storica più consapevole e meno militante.
In parallelo, varrebbe la pena proseguire lo studio perlomeno con i saggi di Anna Foa (Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento) e di Wolfgang Benz (L’Olocausto, ma anche la sua analisi di un falso storico antisemita come i Protocolli dei Savi di Sion). Qualcuno potrebbe domandarsi che significato abbia leggere libri sul genocidio degli ebrei quando si parla dell’attuale conflitto arabo-israeliano: invito i lettori a recuperare queste opere per comprenderlo.

Gli eventi di ottobre 2023

Vengo infine all’attualità, agli eventi di ottobre, proprio perché, per inquadrarli al meglio, è necessario avere prima alcune basi di storia. Cercherò di essere il più chiaro e conciso possibile, riportando nel finale alcune fonti. Per un ulteriore approfondimento, rimando ai libri che ho indicato, una sorta di starter pack che potrà poi essere ampliato con altre letture.

La mattina del 7 ottobre 2023, circa cinquemila razzi sono stati lanciati contro Israele dalla Striscia di Gaza, controllata da Hamas.

Circa 2.500 militanti hanno attaccato basi militari dell’Idf e comunità civili, tra cui 260 persone che stavano partecipando a un festival musicale a Re’im. Era l’inizio dell’Operazione Al-Aqsa Flood.
L’attacco a sorpresa ha portato a una brutale carneficina e al rapimento di ostaggi civili disarmati e di soldati israeliani, portati nella Striscia di Gaza. Il giorno seguente, Israele ha dichiarato formalmente guerra a Hamas.
L’azione è avvenuta al termine della festa ebraica di Sukkot, a cinquant’anni dall’inizio della guerra dello Yom Kippur (1973). Il livello di violenza tra le parti non era così alto da allora.

Hamas, considerata organizzazione terroristica da molti Paesi, governa la Striscia di Gaza dal 2007.

Negli ultimi due anni, i rapporti con Israele si erano ridotti ai minimi storici. L’organizzazione ha affermato di aver ricevuto sostegno dall’Iran, per quanto Israele stesso e gli Usa abbiano dichiarato che non ci siano prove concrete di un coinvolgimento. Un modo – secondo alcuni – con cui tentare di non estendere il conflitto da regionale a globale.
Israele ha avviato una campagna di attacchi aerei sulla Striscia di Gaza, che al momento ha portato a oltre 5.000 morti palestinesi.
Ha anche messo sotto assedio l’area, interrompendo le forniture di cibo, acqua, elettricità e carburante. Anche il confine della Striscia con l’Egitto è rimasto chiuso a lungo, segnatamente al valico di Rafah, dove solo di recente sono passati alcuni veicoli delle Nazioni Unite con beni di prima necessità.

Israele ha esortato oltre un milione di abitanti a evacuare dal nord di Gaza, mentre Hamas ha bloccato le strade che portano a sud, spingendo i residenti a restare e a morire da martiri.

La crisi umanitaria si fa sempre più grave, mentre si attende l’imminente arrivo dell’Idf, con l’obiettivo dichiarato di cancellare Hamas, ma non di occupare la Striscia di Gaza, che sarebbe peraltro quasi impossibile da gestire.
Sul fronte di coloro che sono riusciti a fuggire, la scarsa solidarietà di Paesi islamici come il confinante Egitto si spiega in breve. Hamas è nata da un braccio dei Fratelli Musulmani, un’entità politica, fondata nel 1928, che ha portato a molti stravolgimenti nel Medio Oriente, minacciando o detronizzando le monarchie regionali. Per questo, ancora oggi, i Fratelli Musulmani sono considerati fuorilegge in diversi Paesi mediorientali come Egitto e Arabia Saudita e Hamas viene visto con diffidenza, a partire dalla monarchia giordana. Nessuno di questi Paesi, inoltre, è propenso ad accogliere migliaia o milioni di profughi palestinesi, che da un lato costituirebbero un costo ingente per la casse di Stati in difficoltà, dall’altro comporterebbero una variazione sociale e demografica capace di minare la stabilità interna, come suggeriscono gli esempi di Siria e Libano.

Una quarantina di Paesi hanno denunciato le azioni di Hamas, definendole terroristiche; gli Stati mediorientali hanno perlopiù chiesto una de-escalation; l’Iran, infine, ha gettato benzina sul fuoco, minacciando un intervento contro Israele.

Dal Libano, i militanti di Hezbollah, sostenuti dall’Iran, hanno lanciato razzi sul territorio israeliano come segnale di sostegno. Il 25 ottobre, leader di Hamas, di Hezbollah e del gruppo Jihad islamica si sono riuniti per un vertice a Beirut.
Israele ha poi compiuto azioni militari in Cisgiordania e in Siria, dove ha bombardato gli aeroporti di Aleppo e di Damasco.
L’attacco del 7 ottobre ha congelato il delicato processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e i Paesi arabi, cominciato anni prima con la firma degli Accordi di Abramo (2020), patrocinati dagli Stati Uniti. Da allora, nazioni come il Marocco e l’Arabia Saudita stavano facendo passi importanti per portare a una pace solida nell’area, partendo dal presupposto del diritto all’esistenza di Israele. A rallentare il processo, tuttavia, ha contribuito l’occupazione illegale da parte di Israele di diversi territori palestinesi, tra cui quelli della Cisgiordania, come denunciato dalle Nazioni Unite. Gli attentati di Hamas, invece, hanno costituito l’ennesimo rifiuto del dialogo di una parte estremista del mondo islamico. Hamas, infatti, è tra coloro che nel loro “statuto” ha come missione l’eliminazione di ogni traccia di Stato israeliano nell’area.

Sul piano politico, la storica socialdemocrazia laica israeliana è sempre stata più favorevole a trovare un punto di incontro, come dimostrano gli Accordi di Oslo (1993).

All’epoca, però, l’assassinio del premier israeliano Yitzhak Rabin, da parte di un ultranazionalista israeliano, seguito a una serie di tensioni, portò alla dichiarazione di guerra dell’Anp (Autorità Nazionale Palestinese) a Israele, nel corso della seconda intifada.
Da allora, la sinistra palestinese ha perso gradualmente potere e, in parallelo, la destra nazionalista israeliana si è rafforzata, con la sesta rielezione di Benjamin Netanyahu (29 dicembre 2022), sostenuto dai voti dell’ala oltranzista del Paese.
Nel suo ultimo governo, Netanyahu ha intensificato la costruzione di insediamenti nella Cisgiordania occupata, mentre, sul fronte interno, la riforma giudiziaria ha portato migliaia di israeliani a protestare per le strade. Dopo l’attacco di Hamas, il presidente ha aperto a un governo di unità nazionale con l’opposizione e alla costituzione, l’11 ottobre, di un gabinetto di guerra. Netanyahu ha infine sospeso a tempo indeterminato il divisivo iter legislativo sul campo della giustizia.

Per quanto concerne le elezioni palestinesi, Hamas ha vinto le legislative del 2006 e il gruppo ha condotto una guerra vittoriosa con la rivale Fatah nel 2007, portando al controllo su Gaza.

Così Egitto e Israele hanno imposto un blocco della Striscia di Gaza, per evitare il commercio di materiale bellico.
Inoltre, è proprio dal 2006 che l’Autorità Palestinese non tiene elezioni nazionali per il timore di una nuova vittoria di Hamas.
L’ala moderata ha perso terreno tanto in Israele quanto tra i palestinesi e, secondo diversi sondaggi, la maggior parte dei palestinesi ritiene oggi che l’uso della forza sia indispensabile per ottenere concessioni da Israele. Nell’ultimo anno, si sono infatti intensificati gli scontri tra le parti, come ho raccontato in un precedente The Week.

Le tensioni tra Israele e Hamas erano già al culmine almeno dallo scorso settembre, con Nazioni Unite, Qatar ed Egitto che stavano tentando una mediazione per scongiurare il conflitto aperto.

Sembra che proprio l’Egitto avesse avvertito Israele, giorni prima, di un imminente attacco dalla Striscia. Molti i dubbi interni al riguardo, ma si presume che, nel prossimo futuro, Netanyahu dovrà rispondere ai cittadini per questa impreparazione della famosa intelligence israeliana, il Mossad.
Al momento, continuano le incursioni aeree israeliane e il lancio di razzi dalla Striscia: Israele può contare sull’ottimo sistema di difesa Iron Dome, mentre i palestinesi si trovano a vivere in una delle aree più densamente popolate del pianeta, con i miliziani di Hamas che spesso li impiegano come scudi umani, creando obiettivi militari a ridosso delle zone civili.

Gli sviluppi di questa guerra sono quanto mai incerti. Ci sono attori interessati a un allargamento del conflitto e altri alla ricerca di un compromesso.

È una fase troppo confusa per definire, una volta per tutte, gli schieramenti, ma certo è indicativo il fatto che al summit per la pace del 21-22 ottobre, in Egitto, i partecipanti non siano riusciti a firmare nemmeno una bozza di dichiarazione congiunta.
In questo momento del conflitto, non ci resta che mantenere vivo il nostro senso critico, attendere ore o giorni prima di commentare un qualsiasi evento dato per certo e, infine, leggere il più possibile non per schierarsi, ma per comprendere che non esiste soluzione alla questione che non includa la convivenza tra i due popoli in due Stati. Affinché questo sia possibile, Israele dovrà essere capace di non abusare della propria forza militare – come gli Stati Uniti e altri gli hanno intimato – e il mondo islamico, almeno in questo lembo di terra, dovrà riconsiderare la propria deriva estremista, che sta annientando ogni genere di progresso nel mondo arabo e mediorientale.
Per quanto ci riguarda, come italiani e come europei, dobbiamo respingere l’antisemitismo di certe manifestazioni, come quella di Milano con cori che non si sentivano dal tempo del nazismo («Apriteci i confini, così possiamo uccidere gli ebrei»), e aprire un dialogo serio con l’Islam moderato in Europa, per fare in modo che la radicalizzazione non coinvolga anche le nostre democrazie. Non possono prevalere ideologie o fedi i cui princìpi siano più importanti sulla sacralità di ogni vita umana.


Sugli argomenti d’attualità – haaretz.com, adl.org, cnn.com, washingtonpost.com, travelingisrael.com, ilfoglio.it e euronews.com


Argyros Singh
Leggi >
4 weeks, settembre 2023: notizie dal mondo

4 weeks, settembre 2023: notizie dal mondo

4 weeks, settembre 2023: notizie dal mondo

4 weeks Di Argyros Singh. Cosa è successo nel mondo a settembre? Il terremoto in Marocco e l’alluvione in Libia, la “questione migranti”, la situazione nel Nagorno Karabakh, il G20 in India e l’Assemblea generale dell'ONU.

The Week diventa 4 Weeks, notizie dal mondo: ogni mese, il focus sui principali eventi accaduti durante le quattro settimane precedenti.
Nel 4 Weeks di settembre affronto le due grandi tragedie del Nordafrica: il terremoto in Marocco e l’alluvione in Libia. Tratto poi degli ultimi sviluppi della “questione migranti” nel Mediterraneo e la situazione nel Nagorno Karabakh, per concludere con il G20 in India e l’Assemblea generale delle Nazioni Unite.



Il terremoto in Marocco

L’8 settembre, nella regione di Marrakech-Safi, c’è stato un terremoto di magnitudo 6,8 MW. L’epicentro è stato un punto a una cinquantina di chilometri dalla stazione sciistica di Oukaimeden, sulla catena montuosa dell’Alto Atlante.
Nelle prime ore successive alle scosse, la stima dei morti era compresa tra le mille e le duemila persone, ma in pochi giorni si è attestato a quasi tremila morti e a oltre cinquemilacinquecento feriti.
Alcuni villaggi sono stati rasi al suolo o danneggiati gravemente, ma anche aree più urbanizzate sono state colpite, da Marrakech alle province di Ouarzazate, Azilal, Chichaoua e Taroudant.

L’evento ha coinvolto circa trecentomila persone.

È stato il più forte evento sismico registrato del Marocco, più mortale del terremoto di Agadir del 1960. Secondo lo United States Geological Survey (USGS), le perdite economiche potrebbero raggiungere il 9% del Pil.
Sono state danneggiate quasi seicento scuole; sono crollate parti della medina di Marrakech, che è patrimonio mondiale dell’Unesco e risale al XII secolo. Nei primi giorni, le attività commerciali sono state chiuse, perché la popolazione preferiva restare all’aperto nel timore di nuove scosse.
Nelle zone rurali, però, è stato complicato far arrivare gli aiuti, perché le strade erano bloccate dai veicoli o ostruite dai massi. Per questo, i marocchini hanno dovuto trovare soluzioni alternative. I cittadini comuni sono stati parte attiva nel portare un primo soccorso a chi era rimasto incastrato sotto le macerie. Sulle montagne dell’Atlante, lungo le strade, sono poi nate postazioni improvvisate della Mezzaluna Rossa per il primo soccorso.

Diversi Stati hanno offerto assistenza al Marocco.

In particolare, l’Olanda ha stanziato cinque milioni di euro di aiuti, la Croce Rossa cinese ha donato duecentomila dollari per l’assistenza umanitaria e la Commissione Europea ha stanziato un milione di euro per le operazioni di soccorso. Sul territorio, però, sono stati accettati solo soccorsi provenienti da Regno Unito, Spagna, Qatar ed Emirati Arabi Uniti.
Su questo punto sono nate delle polemiche, affiancate dalle critiche per l’assenza di soccorsi nelle aree più impervie e per il discorso del re Mohammed VI, giunto solo a diciotto ore dal terremoto. I funzionari hanno risposto che il mancato coordinamento delle squadre di soccorso internazionali avrebbe potuto creare confusione.
Significativo è stato però il rifiuto dell’aiuto proposto dalla Francia, a causa dei rapporti diplomatici complicati tra i due Paesi. D’altra parte, l’Algeria ha aperto il suo spazio aereo al Marocco per la prima volta dalle tensioni del 2021, facilitando l’arrivo degli aiuti umanitari. Le tensioni tra Rabat e Algeri si erano accentuate con il riconoscimento da parte di Israele della sovranità marocchina sul Sahara occidentale, a luglio 2023, come conseguenza della normalizzazione dei rapporti tra Marocco e Israele, promossa dagli Usa alla fine del 2020.

Nei prossimi mesi, il Marocco dovrà cercare di limitare i danni economici a medio termine del sisma.

Il Paese viveva già situazioni complicate legate all’aumento dell’inflazione, al costoso approvvigionamento di petrolio, alle ripetute fasi di siccità.
Negli ultimi anni, il governo ha introdotto delle misure soprattutto per cercare una soluzione alla crisi idrica. Inoltre, il settore turistico era in decisa ripresa, con entrate aumentate oltre il 170% nel 2022 rispetto all’anno precedente, con livelli superiori anche alla fase pre-pandemica. Importante anche il dato delle rimesse dei marocchini all’estero, aumentate del 16% nell’ultimo anno. Ora, questi dati incoraggianti sono stati stravolti dal sisma.
Il Paese potrà contare su diversi alleati, tra cui la Spagna, che nel 2007 ha rinunciato alla sua equidistanza sulla questione del Sahara occidentale, accogliendo con favore il piano di autonomia per la regione presentato dal Marocco. Sul piano diplomatico, la candidatura congiunta di Marocco, Spagna e Portogallo per ospitare i mondiali di calcio del 2030 è un altro segnale dei buoni rapporti con gli iberici.

Discorso diverso per la Francia, accusata dal Marocco di essere troppo equidistante tra Rabat e Algeri sulla questione del Sahara occidentale.

Il posto dell’ambasciatore francese in Marocco è vacante dal mese di gennaio e non sembrano esserci schiarite all’orizzonte. Sul piano dell’Ue, l’istituzione rappresenta il primo partner marocchino per interscambio commerciale ed è stato lanciato un “partenariato verde”, a ottobre 2022. Sul fronte africano, Rabat cerca di mantenere una prudenza diplomatica in merito alle trasformazioni politiche. Il timore di ripercussioni sulla questione del Sahara occidentale ha probabilmente spinto il Marocco a non esprimersi sugli sviluppi politici degli ultimi anni in Mali, Guinea Conakry, Burkina Faso e, soprattutto, in Niger, con il recente colpo di stato. Inoltre, è dal 2017 che il Marocco ha presentato domanda di adesione alla Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale). Ciò che è certo è che il sisma ha scatenato nuove turbolenze diplomatiche.

L’alluvione in Libia

La tempesta Daniel è stata il ciclone tropicale mediterraneo più mortale mai registrato e il peggiore evento meteorologico del 2023. Formatasi il 4 settembre, ha colpito Grecia, Bulgaria e Turchia, per poi spostarsi sulla Libia, dove ha provocato inondazioni e il cedimento di due dighe vicino alla città di Derna.
Ci sono stati oltre tremila morti, con un calcolo dei dispersi tra le diecimila e le centomila persone, a seconda della fonte. Il numero delle vittime potrebbe però aumentare di molto nelle prossime settimane. La stima delle Nazioni Unite, al 17 settembre, era di oltre quattromila morti. Il disastro in Libia è stato provocato non soltanto dall’intensità delle piogge, ma dalla guerra civile, che ha portato a trascurare la manutenzione delle infrastrutture critiche, tra cui le dighe che hanno ceduto, risalenti agli anni Settanta.

Osama Hamada, primo ministro del governo di stabilità nazionale, che controlla la Libia orientale, ha dichiarato lo stato di emergenza il 9 settembre.

Sono state sospese le lezioni; ai cittadini era stato imposto un coprifuoco che gli impediva di muoversi; la National Oil Corporation ha chiuso per tre giorni quattro porti petroliferi.
Secondo il ministro dell’aviazione, Hisham Chkiouat, il 25% di Derna è scomparsa e il resto della città è stata come trascinata nel Mediterraneo. Gli ospedali e gli obitori si sono riempiti a tal punto che i corpi sono stati distesi per le strade e nella principale piazza della città. In seguito, si è optato per la sepoltura in fosse comuni. Squadre navali hanno poi recuperato altri corpi trascinati in mare.

Oltre a Derna, l’alluvione ha colpito anche Tobruk, Tacnis, Al-Bayada, Battah, Mechili e altre città.

Sono stati colpiti anche i siti archeologici nei pressi di Cirene. L’International Crisis Group ha parlato di un rischio di collasso per gli scavi, per l’erosione delle pareti e dei canali di drenaggio. Altri danni sono stati segnalati ai siti archeologici di Apollonia e di Athrun. Al netto di questi danni e delle vittime, una cosa è certa: i contrasti politici tra Stati risultano controproducenti nel momento in cui gli eventi climatici estremi – sempre più frequenti – si abbattono su un territorio come la Libia. Non a caso, l’Organizzazione meteorologica mondiale ha dichiarato che le vittime dell’inondazione avrebbero potuto essere evitate se in Libia fosse stato operativo un servizio meteorologico funzionante. Ha inoltre aggiunto che i suoi tentativi di aiutare le autorità libiche sono stati infruttuosi, per le stringenti misure di sicurezza adottate.

Secondo l’Autorità libica per le strade e i ponti, il 70% delle infrastrutture civili è andato distrutto; l’80% del sistema idrico è fuori servizio; il 50% delle strade è impraticabile.

Il Governo di unità nazionale (GNU), riconosciuto a livello internazionale con sede a Tripoli, ha indetto il lutto nazionale. Il primo ministro Abdulhamid al-Dbeibah ha promesso un’indagine per vagliare le responsabilità e ha stanziato 2,5 miliardi di dinari libici (circa 500 milioni di dollari) per favorire la ricostruzione.
Nel frattempo, il sindaco di Derna è stato sospeso dall’incarico; il consiglio comunale è stato sciolto e sottoposto a indagini, su ordine del premier Hamada.

L’Agenzia libica per il controllo delle malattie ha posto l’attenzione sulla diffusione della diarrea a Derna, a causa delle acque contaminate.

Le autorità hanno così diviso la città in quattro distinte aree sanitarie, per circoscrivere eventuali epidemie. In parallelo, il Ministero della Salute ha annunciato l’inizio di una campagna di vaccinazione in città.
Il 18 settembre, i residenti di Derna hanno iniziato a protestare davanti alla moschea Al Sahaba, denunciando il governo di Hamada. I manifestanti hanno chiesto la caduta del governo, l’istituzione di un ufficio delle Nazioni Unite e un’indagine sui bilanci comunali degli scorsi anni. In risposta, l’Esercito nazionale libico, guidato da Khalifa Haftar, vero leader dell’Est del Paese, ha impedito ai giornalisti di entrare a Derna; l’accesso a internet è stato interrotto per trentasei ore.
Squadre dell’Onu operano in città, ma gli spostamenti sono complicati dalle tensioni politiche. Solidarietà è giunta da diversi Paesi arabi e dell’Unione Europea. In particolare, l’Italia ha potuto inviare nel Paese una squadra di soccorso e attrezzature sanitarie e tecniche, mostrandosi come potenziale ponte tra i due governi libici.

La “questione migranti” nel Mediterraneo

Il governo italiano, guidato dalla premier Giorgia Meloni, ha disposto una serie di misure sull’immigrazione, tra cui la possibilità di trattenere i migranti arrivati illegalmente fino a diciotto mesi (finora erano tre) e la costruzione di nuovi centri per ospitarli, distribuiti su tutta la Penisola. Inoltre, sono state aggiunte nuove possibilità per l’espulsione, come per chi mente sulla minore età e per chi compie reati.
Il decreto-legge è nato a seguito dell’incremento repentino del numero di sbarchi, con più di diecimila persone giunte a Lampedusa nell’ultimo mese. I colpi di stato nel Sahel, i disastri naturali e la guerra del grano hanno aumentato la pressione su una Tunisia in crisi economica. In parallelo, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, visitando Lampedusa, ha annunciato un nuovo piano in dieci punti, che includerebbe una missione navale europea per sorvegliare il Mediterraneo e per bloccare le partenze.
Per rendere il piano efficace, però, ci vorrebbe perlomeno la collaborazione della Tunisia, con cui l’Ue ha siglato un accordo a luglio, che deve ancora entrare in vigore.

Scettica l’opposizione italiana, con la segretaria del PD Elly Schlein che ha definito odiosa la scelta di creare campi di detenzione e che la misura, in passato, non aveva portato a un aumento dei rimpatri.

Per la Coalizione Italiana per i Diritti e le Libertà Civili (CILD), i centri di detenzione sarebbero luoghi in cui avvengono gravi violazioni dei diritti fondamentali, oltre a essere costosi e inefficienti.
Secondo il think tank OpenPolis, tra il 2014 e il 2020, solo il 20% delle persone soggette a un ordine di rimpatrio hanno poi lasciato il Paese. Stando ai dati del governo, quest’anno sarebbero giunti in Italia circa 130mila migranti, quasi il doppio rispetto allo stesso periodo del 2022. I migranti provengono soprattutto da Bangladesh, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Egitto, Guinea, Pakistan e Tunisia.

Ma quali sono i numeri dell’immigrazione in Italia?

L’Istat ha stimato che, nel 2021, vivessero nella Penisola circa cinque milioni di cittadini stranieri (l’8,7% della popolazione), una cifra che non include gli immigrati clandestini, stimati in almeno 670mila persone.
Le provenienze dei cittadini stranieri, sempre al 2021, sono così distribuite: Europa (47,6%), Africa (22,25%), Asia (22,64%), Americhe (7,49%) e Oceania (0,04%). La distribuzione sul territorio è disomogenea: nel 2020, il 61,2% degli stranieri viveva nel Nord Italia, soprattutto a Nordovest.
Mentre la premier Meloni ha portato la questione migranti anche all’ultima Assemblea generale delle Nazioni Unite, la principale difficoltà è quella di riuscire a stabilire un modello aggiornato sull’argomento, che spinga per esempio Francia e Austria a non “chiudere” i confini e i Paesi dell’Europa orientale (Ungheria e Polonia su tutti) a mostrarsi più aperti in tema di redistribuzione.

Sviluppi in Nagorno Karabakh

Tra il 19 e il 20 settembre, l’Azerbaigian ha lanciato un’offensiva contro l’autoproclamato stato separatista dell’Artsakh. La regione interessata, il Nagorno-Karabakh, è riconosciuta a livello internazionale come parte dell’Azerbaigian, pur abitandovi gli armeni.
Il conflitto nell’area era esploso nel 1988: gli armeni del Karabakh avevano chiesto il passaggio della regione all’Armenia; negli anni erano intervenute le truppe russe per congelare la situazione, ma, alla fine del 2020, si era scatenata la seconda guerra su larga scala, che aveva portato a una vittoria dell’Azerbaigian con conseguente armistizio.
In quel conflitto, l’Azerbaigian aveva revocato l’offerta di status speciale ai residenti armeni, insistendo per una completa integrazione. Nel dicembre 2022, l’Azerbaigian aveva bloccato l’accesso alla Repubblica dell’Artsakh, adducendo una violazione dell’accordo sul cessate il fuoco. Aveva poi sabotato le infrastrutture civili critiche come gas, elettricità e rete Internet.
Il blocco ha portato a una crisi umanitaria che ha coinvolto 120mila residenti. Le truppe russe, definite peacekeepers, non sono intervenute per riportare l’ordine e l’inazione può essere letta come una violazione dell’accordo tripartito del cessate il fuoco.

Il governo azero del presidente Ilham Aliyev ha affermato di aver allestito corridoio umanitari e punti di accoglienza sulla strada per Lachin e altrove, per garantire l’evacuazione della popolazione armena.

La leadership del Nagorno-Karabakh ha chiesto di aprire un negoziato e gli azeri si sono detti pronti per un confronto nella città di Yevlakh. Hanno però aggiunto che l’offensiva sarebbe durata fino allo scioglimento degli organi governativi e delle forze armate separatiste.
Il 20 settembre, le forze russe hanno stabilito un cessate il fuoco; il governo armeno ha lamentato il fatto di non essere stato coinvolto. Dopo questo accordo, ci sono stati nuovi momenti di tensione, tra cui il bombardamento di Stepanakert. Il Ministero della Difesa russo ha dichiarato che sono stati uccisi diversi militari russi vicino al villaggio di Chankatagh. Con la cooperazione azera, le truppe russe hanno arrestato i sospetti e un comandante azero è stato sospeso.
In un discorso serale alla televisione, il presidente Aliyev ha ribadito l’appartenenza del Karabakh all’Azerbaigian, rivendicando il pugno di ferro.

Terminati i combattimenti, l’Azerbaigian ha riaperto il territorio dopo mesi di blocco, lasciando fuggire gli armeni dal corridoio di Lachin.

A Yevlakh si sono tenuti dei negoziati tra le parti, con il coinvolgimento delle forze russe e del capo dell’Osservatorio congiunto russo-turco, Oleg Semyonov. I colloqui non hanno portato a un accordo congiunto, ma il governo azero si è detto soddisfatto e ha affermato che si terranno ulteriori negoziati.
Nella riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’Armenia ha proposto una missione di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, chiedendo l’istituzione di un meccanismo internazionale per il dialogo tra Azerbaigian e rappresentanti armeni della regione. Al medesimo incontro, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato: «Come tutti ormai riconoscono, il Karabakh è territorio dell’Azerbaigian. L’imposizione di un altro status non sarà mai accettata». Aggiungendo che la Turchia «sostiene i passi compiuti dall’Azerbaigian, con cui agiamo in collaborazione, all’insegna del principio di “una nazione, due Stati”, per difendere la propria integrità territoriale». L’Azerbaigian è infatti uno Stato la cui storia è legata al mondo turco, a partire dalla lingua azera, appartenente alla famiglia delle lingue turche; è inoltre uno Stato laico, ma con una maggioranza religiosa islamica, della corrente sciita.

Il 23 settembre è stato avvistato un primo convoglio di aiuti della Croce Rossa; il giorno seguente è iniziata l’evacuazione di massa di civili di etnia armena.

Secondo il governo armeno, oltre 78mila persone sono fuggite dal Nagorno-Karabakh, circa il 65% della popolazione residente, ma i numeri potrebbero crescere nelle prossime settimane.
L’Ue ha ospitato a Bruxelles un incontro tra Armen Grigoryan, capo del Consiglio di sicurezza dell’Armenia, e Hikmat Hajiyev, consigliere per la politica estera del presidente azero, per trattare dell’accesso nell’area alle organizzazioni umanitarie e per i diritti umani.
Il 27 settembre, Matthew Miller, portavoce del Dipartimento di Stato degli Usa, ha annunciato che il governo azero accoglierà con favore una missione di monitoraggio internazionale. Sembra che, al momento, la situazione sia tornata nelle mani della diplomazia.

Il G20 in India

Tra il 9 e il 10 settembre, si è tenuto il primo summit del G20 in India, a New Delhi.
È stato un incontro difficile sotto il profilo diplomatico: la guerra in Ucraina e le tensioni tra Cina e Stati Uniti stanno alimentando una spaccatura sempre più profonda sullo scenario globale. L’India, però, sotto la guida di Narendra Modi, è riuscita a costruire un delicato equilibrio.
Quell’aggettivo, “delicato”, è la chiave di lettura della dichiarazione finale firmata dai vari leader. Perché su temi come la guerra in Ucraina, il documento conclusivo è rimasto vago, non citando il nome dell’aggressore – la Federazione russa – al punto che il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha potuto definire l’incontro un successo.

Al vertice non hanno preso parte i presidenti russo e cinese, che continuano a portare avanti la loro idea di una crisi delle organizzazioni internazionali e della necessità di fondare un nuovo ordine globale “multipolare”, un modo per rendersi attrattivi verso i Paesi del Sud del mondo, spesso esclusi dalle decisioni del G20.

In tal senso, è stata positiva la decisione – su proposta di Modi – di far ammettere l’Unione Africana al format. A ciò si aggiungono accordi sulla ristrutturazione del debito dei Paesi poveri e sulla riforma delle banche multilaterali. L’India ha voluto porsi così come mediatore tra Oriente e Occidente e tra Nord e Sud del mondo.
In risposta alla Belt and Road Initiative (BRI) cinese, un piano infrastrutturale che si estende dall’Asia all’Africa, fino all’America Latina, gli Usa hanno avanzato la proposta della Partnership for Global Infrastructure Investment (PGII), un progetto – ribattezzato “Via del cotone” – che vorrebbe collegare India, Penisola arabica, Israele e Unione Europea. Al summit è stato raggiunto un memorandum d’intesa; ora si dovranno valutare i finanziamenti. La PGII è inoltre in linea con la Global Gateway, un progetto infrastrutturale del 2021 della Commissione europea, rivolto ai Paesi in via di sviluppo, che ha già stanziato 300 miliardi di euro.

Il prossimo summit del G20 si terrà in Brasile, a novembre 2024.

Il presidente Luiz Inácio Lula da Silva ha affermato che, in quell’occasione, Vladimir Putin non verrà arrestato, pur gravando su di lui un mandato di cattura internazionale. Ha poi corretto la dichiarazione, dicendo che sarà la magistratura brasiliana a valutare la questione. Per il momento, nella competizione con la Cina, l’India si è posta come leader dell’area indo-pacifica. Ha inoltre gettato ombra sull’allargamento dei Brics, che hanno deciso di aggiungere sei nuovi membri ad agosto, seguendo la strategia di Mosca e Pechino di far perdere importanza al formato del G20.
Tra i vari punti proposti dall’India e sottoscritti nella dichiarazione finale, c’è il tema della cooperazione globale in merito a problemi come il cambiamento climatico, la carenza di cibo e l’aumento dei prezzi dell’energia.

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite

Il 5 settembre si è aperta la settantottesima sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, mentre la fase del dibattito generale è iniziata il 19 settembre e si è conclusa il 23 dello stesso mese. Il presidente Dennis Francis ha scelto il tema del dibattito dell’anno: «Ricostruire la fiducia e riaccendere la solidarietà globale: accelerare l’azione sull’Agenda 2030 e i suoi obiettivi di sviluppo sostenibile verso la pace, la prosperità, il progresso e la sostenibilità per tutti».
Nel dettaglio, tra i dossier sul tavolo: la guerra in Ucraina, i colpi di stato nel Sahel, le sfide climatiche.
Il Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha chiesto ai leader «soluzioni pratiche e reali» e meno «approcci formali». Lo stesso segretario ha messo in luce l’obsolescenza di istituzioni multilaterali come il Consiglio di Sicurezza, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, chiedendo una riforma strutturale del sistema delle Nazioni Unite.

In un certo senso, l’ultimo dibattito generale è stato simile a una seduta collettiva di psicanalisi.

Come con il G20 di New Delhi, il presidente cinese Xi Jinping non ha preso parte al dibattito. Assente anche il premier indiano Narendra Modi, il presidente francese Emmanuel Macron (impegnato a Parigi con la visita del re Carlo d’Inghilterra) e il premier britannico Rishi Sunak. Dei cinque membri permanenti (Usa, Uk, Francia, Cina, Russia) del Consiglio di Sicurezza, soltanto il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha partecipato all’Assemblea generale.
Ciò che si teme è che possa esserci una «Grande Frattura» (sono parole di Guterres) tra Nord e Sud del mondo e tra Oriente e Occidente, qualora le istituzioni dell’Onu non venissero riformate per tempo. Tra le principali esigenze, ci sarebbe la messa in discussione del potere di veto e l’allargamento del numero di Paesi nel Consiglio di Sicurezza, con l’inclusione di membri permanenti come l’Unione Africana, il Brasile e l’India.


Per approfondire

Sul terremoto – aljazeera.com, bbc.com e ilpost-it | Sull’alluvione – france24.com, bbc.com e aljazeera.com | Sulle migrazioni nel Mediterraneo – politico.eu, reuters.com e aljazeera.com | Sul Nagorno Karabakh – theguardian.com, cnn.com e ilfoglio.it | Sul G20 – ispionline.it, ilpost.it e washingtonpost.com | Sull’Assemblea generale – cnn.com, euronews.com e ispionline.it



Argyros Singh
Leggi >
ARTICOLO PRECEDENTE >>
Post più vecchi
Home page