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Recensione: Grande seno, fianchi larghi, di Mo Yan

Recensione: Grande seno, fianchi larghi, di Mo Yan

Recensione: Grande seno, fianchi larghi, di Mo Yan

Libri Recensione di Alessandra Nitti. Grande seno, fianchi larghi di Mo Yan (Einaudi). Dall'autore premio Nobel per la letteratura con "Sorgo rosso", «un affresco rurale e mitologico», la storia di una famiglia matriarcale che attraversa le tante vicissitudini della storia cinese del Novecento.

Gaomi è un anonimo distretto di campagna nella provincia dello Shangdong, la penisola della Repubblica Popolare dove producono la birra Tsing Dao che servono in ogni ristorante cinese. Non fosse stato per l’autore Mo Yan che ci ha ambientato tutta la sua produzione, nessuno saprebbe che esiste. È nato lì e ha deciso di raccontare al mondo intero la sua intensa storia.
La Cina non è solo Pechino, con il Palazzo Proibito e la strage di Tiananmen; né solo Shanghai, fulcro della bella vita e dei palazzi futuristici. La Cina sono i polverosi villaggi del Nord e le lussureggianti foreste del Sud, la Cina è Shenzhen – la Silicon Valley asiatica – e Gaomi, che ha subito l’invasione dei tedeschi, la distruzione dei giapponesi, il passaggio delle truppe nazionaliste e la fame portata dal Partito Comunista. Infine ha vissuto la rinascita, l’arricchimento della classe media, il mondo capitalista che dagli anni ’80 si è infiltrando in Cina spazzando via gli sciami di biciclette per piazzarvi impiegati in completo elegante, gente arricchita e corrieri in motorino.

Mo Yan è la mente fertile della letteratura cinese contemporanea, produce tanto ed è tradotto in ogni lingua.

Non sempre fa comodo al Partito ma ciononostante, o forse proprio grazie a questo, nel 2012 ha vinto il Premio Nobel con il romanzo Sorgo Rosso.
Oggi però parlerò di un’altra sua epopea edita per noi da Einaudi: Grande seno fianchi larghi (1997), è una saga familiare di oltre mille pagine che racconta la storia di Gaomi dal 1938 (con un flashback nel 1900) al 1995, coprendo i decenni più sofferti della Cina.
Al centro della narrazione c’è Casa Shangguan, famiglia di fabbri, il cui ultimo genito prende in moglie Shangguan Lü dai piedi di loto. Sebbene il romanzo sia stato scritto dal punto di vista del loro nono figlio – l’unico maschio tanto agognato – a parer mio è lei stessa la protagonista vera e propria.

Congiunta a un uomo sterile in un’epoca in cui la donna non aveva altra funzione che quella di partorire e di servire i suoceri, Shangguan Lü concepisce nove figli con sette uomini diversi sempre nella speranza di ottenere un maschio.

Shangguan Jin Tong, il “bambino d’oro”, arriva dopo circa vent’anni di matrimonio. Nasce apparentemente morto ma viene salvato da un medico giapponese mentre i suoi commilitoni, all’esterno, ammazzano quasi tutti gli abitanti del paese, compresa la famiglia Shangguan, lasciando solo Lü, le sette figlie e gli ultimi due gemelli concepiti con un prete svedese.
L’arrivo del maschietto dai capelli biondi è la gioia più grande per Shangguan Lü, che lo allatta fino all’adolescenza. Jin Tong cresce viziato, fannullone e ossessionato dai seni. Il suo unico merito è quello di raccontarci cosa avveniva nella penisola dello Shangdong: l’invasione dei giapponesi, la carestia e la fame, la vendita di due sue sorelle. L’arrivo dell’esercito di liberazione che porta un po’ di sollievo, la guerra con l’esercito nazionalista, le morti e le stragi, le fucilazioni di altre sorelle e dei loro bambini, le accuse di essere “antirivoluzionari”, il germe della pazzia che attacca quasi tutte le ragazze della famiglia Shangguan.

E ancora, la vittoria del Partito Comunista, le comuni di lavoro, le morti d’inedia, i soprusi, le esecuzioni e tutto l’orrore che portò Mao Zedong tra la rivoluzione culturale e il grande balzo in avanti.

Quando il grande dittatore muore, la Cina si apre al mondo esterno e viene travolta dalla corsa alla ricchezza tipica dell’occidente, stravolgendo ancora una volta anche Gaomi. Jin Tong, uno dei pochi superstiti, è così confuso dal nuovo modello di vita, che la sua nullafacenza diventa totale e a niente servono gli aiuti del fratellastro arricchitosi misteriosamente, che durante la rivoluzione si è visto fucilare tutta la famiglia che militava nel partito nazionalista.
Shagguan Lü passa a miglior vita a 95 anni, lasciando un figlio di mezza età inutile persino a se stesso e con l’ossessione dei seni, dopo essersi vista perire tutte le figlie e aver vissuto le grandi tragedie della Cina del ventesimo secolo.
In un mix di realismo e superstizioni, Mo Yan si siede accanto a noi ogni sera per raccontarci le vicende del dragone rosso che sta facendo tremare il mondo economicamente, ricordandoci le sue ferite così profonde che ancora non si sono sanate del tutto. E proprio grazie a esse il Paese delle pagode e delle fenici è divenuto ciò che è oggi.


Grande seno, fianchi larghi

di Mo Yan
Einaudi
Narrativa
ISBN 978-8806182984
Cartaceo 15,20 €
Ebook 6,99€

Sinossi 

Una prolifica famiglia matriarcale, governata da una madre dolce ed energica, attraversa le tante vicissitudini della storia cinese del Novecento. Dagli anni Trenta dell'invasione giapponese a oggi, figli, nipoti e parenti acquisiti degli Shangguan si confrontano con gioie e dolori dispensati da una terra estrema e primordiale. Con questo dichiarato omaggio alla propria madre e alle proprie radici, Mo Yan torna all'affresco rurale e mitologico di "Sorgo rosso".
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Recensione: Diario di una scrittrice, di Virginia Woolf

Recensione: Diario di una scrittrice, di Virginia Woolf

Recensione: Diario di una scrittrice, di Virginia Woolf

Libri Recensione di Alessandra Nitti. Diario di una scrittrice di Virginia Woolf (Minimum Fax): una raccolta di passaggi dei diari dal 1918 al 1941, scelti dal marito Leonard dopo il suicidio dell’autrice.

Uno dei più bei passatempi  a Venezia è quello di andare in giro per librerie. Stranamente in questa città turistica e violentata sopravvivono ancora librerie indipendenti e di libri usati, fra cui la celeberrima e scenica Libreria Acqua Alta.
In una di queste, immersa nell’odore di carta e umidità che si può annusare solo in tali magici luoghi veneziani, scavando tra gli scaffali, scorrendo con i polpastrelli sui dorsi dei volumi, le dita piene di polvere, ho trovato Diario di una scrittrice di Virginia Woolf. Un libro che è stato per me una rivelazione.

Diario di una scrittrice di Virginia Woolf, pubblicato da Minimum Fax, è una raccolta di passaggi scelti dal marito Leonard dopo il suicidio dell’autrice dai diari che vanno dal 1918 al 1941. 

Come dice Leonard Woolf nella prefazione, molte pagine non sono state rese pubbliche, poiché comprendevano descrizioni di persone all’epoca ancora viventi, o passaggi non interessanti per il lettore.
In ogni caso ha provato a raccogliere quelli più significativi seguendo questa logica: le più belle descrizioni di luoghi e persone; le critiche e le analisi dei libri che leggeva la Woolf (non dimentichiamoci che era una critica letteraria per il Times); i resoconti sulla sua attività di scrittrice, il rapporto con i propri romanzi, le gioie e i dolori delle pubblicazioni, come affrontava le critiche che le venivano rivolte.
Il lettore viene risucchiato dal vortice di vita reale di una scrittrice così importante per la letteratura contemporanea. Grazie a questi scritti, la Woolf scende nel mondo di noi comuni mortali, condivide con noi le stesse esperienze: rabbia, momenti felici, incontri con gli amici, persino alcuni calcoli economici per capire come arrivare a fine mese.

Diario di una scrittrice è una lente sulla vita inglese del primo Novecento, schiacciata tra l’ombra della Prima Guerra Mondiale e la minaccia della Seconda, che riempivano di orrore la quotidianità.

Oltre agli esercizi di scrittura, in Diario di una scrittrice ci sono le emozioni che la Woolf provava durante la stesura di ogni libro: nei primi anni gioiva, mentre negli ultimi soffriva. Ogni opera che oggi apprezziamo era un travaglio troppo faticoso per la sua fragile psiche. E poi le lodi che la rendevano felice e le critiche che la gettavano nel baratro della disperazione: anche queste ci sono narrate. Le sue letture, l’ammirazione per Shakespeare ed Eliot e il disgusto per l’Ulisse di Joyce, che definisce: «Un’opera noiosa e irritante di un nauseabondo studente universitario che si gratta i brufoli».
Era caustica nei suoi giudizi, ma anche chiara e decisa, una Virginia Woolf così diversa dai toni morbidi e dai voli pindarici delle sue opere.
Veniamo a conoscenza di quanto guadagnava come critica letteraria per il Times e come scrittrice; ma anche di come andavano gli affari della Casa editrice, la Hogart Press, che gestiva con suo marito. Scopriamo piano piano come venivano scritti i libri all’epoca, quando non esisteva il PC: a mano, con penna e calamaio a casa, con la matita in viaggio. Poi le bozze venivano viste e riviste prima di essere copiate interamente a macchina per essere inviate all’editore. Un lavoro dieci volte più duro di oggi!
Eppure Virginia Woolf annota di quanto godeva a vedere le lettere e le frasi uscire e piegarsi sotto le dita, come se fosse un artigiano.
Appena metto in moto le rotelle nella mia testa non ho molto più bisogno di soldi o di vestiti, neppure di una credenza, un letto a Rodmell o un divano.
Virginia Woolf, Diario di una scrittrice

Le ultime pagine del romanzo sono molto dolorose, la sua depressione la risucchiava sempre più e scrivere, ormai, era solo fonte di tormento.

Le Onde e Gli Anni sono stati scritti sotto grande pressione mentale che non dipendeva da elementi esterni, almeno fino al 1939.
Quando iniziano gli ultimi due anni della sua vita, colmi di paura, bombardamenti e raid aerei. Vediamo con i suoi occhi la dimora di Londra distrutta, la casa editrice in pezzi, i vicini di casa che vedeva sul balcone esplosi sotto una bomba.
Riparano nella casa di campagna e anche lì sentiamo con lei l’angoscia degli aerei diretti a Londra che volano sulla sua testa mentre gioca a bocce: così capivano quando la loro avrebbe subito un nuovo attacco.
Le ultime sono le pagine più dolorose, ma anche le più intense. L’ultima annotazione risale all’8 marzo 1941, un paio di settimane prima della sua morte. Rimaniamo così appesi a un filo, mentre lei parla del merluzzo e della cena che avrebbe preparato a cena, ignara – forse – che la sua vita era ormai solo un mozzicone.
Così mi sono immersa nel mio gran lago di malinconia. Dio com’è profondo! Che natura malinconica è la mia! L’unico mezzo per stare a galla è lavorare.
Virginia Woolf, Diario di una scrittrice


Diario di una scrittrice

di Virginia Woolf
Minimum Fax
Memoir
ISBN 978-8833891187
Cartaceo 17,10 €
Ebook 7,99€

Sinossi 

Nel 1941, dopo aver dato alla letteratura del Novecento alcune delle sue opere più belle, Virginia Woolf si toglie la vita annegandosi nel fiume Ouse. Nel 1958 Leonard Woolf decide di raccogliere in volume una selezione tratta dai diari della moglie, incentrata su tutto ciò che riguarda lo scrivere e la sua attività di romanziera e critica letteraria. Ne esce un testo affascinante e ricco di sfaccettature: nella sua quotidiana "mezz'ora dopo il tè" dedicata al diario, che considera al tempo stesso un modo per esercitarsi e un messaggio diretto alla se stessa di domani, la Woolf intreccia riflessioni legate ai testi che sta scrivendo o leggendo, appunti di carattere stilistico o strutturale, descrizioni di luoghi, amici ed eventi pubblici o privati, ma anche le amare considerazioni su un mondo lacerato dalla guerra, l'alternarsi tra sfiducia e orgoglio per il proprio lavoro e gli accenni alla tortura delle crisi nervose, sempre più frequenti col passare degli anni. A metà strada fra letteratura e vita, queste pagine offrono la rappresentazione penetrante di un'autrice simbolo e della sua epoca. Il volume raccoglie gli interventi critici di Valeria Parrella (su "Orlando"), di Elena Stancanelli (su "La signora Dalloway") e di Carola Susani (su "Gita al faro"). Prefazione di Ali Smith e Introduzione di Leonard Woolf.


Alessandra Nitti
Sinologa, viaggiatrice, appassionata lettrice, yogini e scrittrice. Trascorro le giornate nel mio mondo di poesia inventando trame di racconti, progettando viaggi intorno al mondo o in posizioni yoga a testa in giù. Laureata in lingue e letteratura straniere solo per il gusto di conoscere lingue difficili. Vivo a Canton, nel sud-est della Cina, per insegnare italiano a giovani cinesi.
 Tra una lezione e l’altra gestisco Durga – Servizi editoriali.
L’amuleto di giada, Arpeggio Libero Editore.
Faust – Cenere alla cenere, Arpeggio Libero Editore.
Esilio, Arpeggio Libero Editore.
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Recensione: In viaggio con i Diari ucraini, di Andrei Kurkov

Recensione: In viaggio con i Diari ucraini, di Andrei Kurkov

Recensione: In viaggio con i Diari ucraini, di Andrei Kurkov

Libri Recensione di Alessandra Nitti. Diari ucraini di Andrei Kurkov (Keller). La Rivoluzione di Maidan del 2014 in Ucraina, uno spaccato di storia contemporanea intrecciata alla vita dell'autore.

La scorsa estate passeggiavo tra le calli di Venezia con un paio di amici appassionati di libri come me. Le misure anti-covid si erano allentate e non solo ero riuscita a rimpatriare, ma potevo anche andare a zonzo per la città con chi volevo. I negozi erano di nuovo tutti aperti, quindi siamo entrati in libreria: su uno scaffale in bella vista c’era un piccolo volume che proprio non potevo perdere, Diari ucraini di Andrei Kurkov, edizioni Keller.
Ho scorso la trama solo brevemente, perché sapevo che lo avrei preso comunque. L’ho messo nel mio zaino verde e l’ho portato fino a dove è stato scritto: a Kiev, capitale dell’Ucraina. 

In questo libro sono raccolte le pagine del diario personale dell’autore da novembre 2013 ad aprile 2014 e coprono gli avvenimenti più importanti della Rivoluzione di Maidan – altrimenti conosciuta come Euromaidan – narrati in prima persona e alternati a passaggi sulla vita privata di Kurkov stesso.

Lo stile è davvero molto leggero, tipico del diario, tuttavia pone grande attenzione alla situazione politica. È comprensibile anche a chi se ne intende poco e nelle ultime pagine c’è una mappa di orientamento ben approfondita che spiega chi sono i vari personaggi, i luoghi, le aziende e gli eventi menzionati nel libro, accompagnati da una cartina del Paese.
Ho adorato leggerlo e ripercorrere le vie dell’autore: il viale Kreshchatik, la piazza Maidan Nezalezhnosti – piazza dell’Indipendenza, fulcro delle proteste – la piazza Europa con il vicino e antico complesso religioso di Lavra, il bellissimo Palazzo Marinski, simile al Palazzo d’inverno di San Pietroburgo, che si affaccia sul Dnipro e sui suoi isolotti disabitati.

Ho compreso ancora meglio la tragedia del 2014, l’Euromaidan, la presa della Crimea da parte della Russia, i combattimenti ancora attuali nel bacino del Donbass. 

Ho scoperto perché metà del Paese parla una lingua e una metà ne parla un’altra, perché alcuni abitanti sono nazionalisti e altri aperti alla loro parte russa, perché Putin vuole riprendersi i territori dell’ex Unione Sovietica e il suo modo di sobillare rivolte interne in Ucraina. Ho dato una storia alle foto dei “Cento beati” installate in ogni piazza e in ogni chiesa delle città ucraine, coloro che si sono immolati per la libertà del loro paese nel febbraio del 2014.
Un libro consigliato a chi vuole saperne di più di storia contemporanea, a chi è interessato alle vicende del proprio vicino e a chi vuole scoprire questa magnifica capitale europea – Kiev – con i palazzi zaristi e gli obbrobri comunisti, i viali di ippocastani, le decine di cupole dorate e gli immensi parchi.

Diari ucraini

Diari ucraini

di Andrei Kurkov
Keller
Saggio storico | Reportage
ISBN 978-8889767672
Cartaceo 15,20 €

Sinossi 

La crisi in Ucraina si sta trascinando da quasi un anno, restando lontana e pressoché incomprensibile agli occhi di noi occidentali. Andrei Kurkov, uno dei più importanti scrittori ucraini di lingua russa, ha sentito il bisogno di scrivere "un libro che raccontasse l'Ucraina agli stranieri e li aiutasse a liberarsi dei cliché che spesso giornalisti e politici hanno contribuito a creare sul Paese". Da questa urgenza sono nati i Diari ucraini, una narrazione in presa diretta di quanto è successo nella piazza principale di Kiev dal 21 novembre 2013 alla fine dell'aprile di quest'anno.


Alessandra Nitti
Sinologa, viaggiatrice, appassionata lettrice, yogini e scrittrice. Trascorro le giornate nel mio mondo di poesia inventando trame di racconti, progettando viaggi intorno al mondo o in posizioni yoga a testa in giù. Laureata in lingue e letteratura straniere solo per il gusto di conoscere lingue difficili. Vivo a Canton, nel sud-est della Cina, per insegnare italiano a giovani cinesi.
 Tra una lezione e l’altra gestisco Durga – Servizi editoriali.
L’amuleto di giada, Arpeggio Libero Editore.
Faust – Cenere alla cenere, Arpeggio Libero Editore.
Esilio, Arpeggio Libero Editore.
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Cina: il lavoro forzato e il genocidio demografico degli Uiguri

Cina: il lavoro forzato e il genocidio demografico degli Uiguri

Cina: il lavoro forzato e il genocidio demografico degli Uiguri

Di Alessandra Nitti. Cina, lavoro forzato e genocidio demografico: le sterilizzazioni coatte per prevenire le nascite nella minoranza musulmana cinese degli Uiguri e il loro sfruttamento come manodopera a basso costo.

Sin dalla sua fondazione, il Partito Comunista Cinese (PCC) si è definito il protettore di tutte le 56 etnie raccolte sotto la sua bandiera. Mille colori, un unico stato.
Il 92% della popolazione del Regno del Centro è composta dagli Han 汉, i cinesi come li conosciamo. Quando si è in Cina le agenzie turistiche propongono tour nei villaggi delle minoranze etniche – siano esse i Miao dai grandi copricapo d’argento o gli Yao con i capelli lunghi fino a terra che vivono sui monti del Guizhou. Queste etnie sono così piccole e così abituate a essere oramai solo un gioco per turisti che non cercano di ribellarsi. O, almeno, non tutte. Tibetani e Hongkongesi ci hanno insegnato che non è bello essere una minoranza in Cina, oggi.

Immaginiamo cosa significhi essere un’etnia di lingua turca dai lineamenti quasi occidentali e di religione islamica sotto la morsa del PCC. È questa la situazione in cui versano gli Uiguri.

Essi costituiscono solo lo 0,6% dell’intera popolazione cinese ma sono una delle principali fonti di preoccupazione per Pechino.
Nel Nord Ovest della Cina si estende la più vasta provincia, lo Xinjiang 新疆维吾尔自治区, che comprende il bacino del Tarim con il deserto del Taklamakan e il bacino Dzungariam divisi dal monte Tianshan. In esso si raggiungono il punto più basso sotto livello del mare (-155 m) e quello più alto (8611 m).
I suoi confini sono delimitati da una ricchezza che spetta a pochi fortunati: il Tibet a Sud, le regioni cinesi dello Qinghai e del Gansu a Est, la Mongolia a Nord Est, la Russia a Nord, Kazakistan, Kirghizistan e Tajikistan a Nord Ovest, il corridoio del Vacan (Afghanistan), il Karakorum (Pakistan) e il Kashmir indiano a Sud Ovest.
Nei vecchi libri di scuola qualcuno lo ha sentito chiamare “Turkestan Cinese”. Il nome Xinjiang fu dato dalla dinastia Qing e significa “Nuova frontiera”.
Questo luogo arido, caldissimo d’estate e freddissimo d’inverno, attraversato in passato dalle carovane della via della Seta è la patria degli Uiguri. Costituiscono almeno la metà dei 22 milioni di abitanti della regione, eppure si stima che fino a un milione potrebbero essere detenuti in campi “rieducativi”.

I centri di detenzione per gli Uiguri.

Sono ormai più di due anni che un’inchiesta del New York Times ha portato alla luce le problematiche dei centri di detenzione dello Xinjiang, tenute nascoste per – si stima – quattro anni, secondo l’istituto di geopolitica Jameson Foundation.
Nei campi si praticano diverse torture, dalla violenza fisica al waterboarding, dall’isolamento alla privazione del sonno. I detenuti sono inoltre costretti a cantare inni nazionali cinesi, è vietato loro pregare e farsi crescere le barbe
Anche chi non è detenuto deve partecipare periodicamente a delle cerimonie in onore del PCC e a condannare come “fanatici” amici e familiari accusati di estremismo.

L’obiettivo del PCC è quello di cancellare la cultura degli Uiguri, la loro storia, la loro dignità?

Una detenuta trentenne è stata deportata per aver indossato un velo e letto libri sulla storia uigura. Uno degli intervistati del New York Times racconta di essere stato incarcerato per aver letto un versetto del Corano durante un funerale. Spesso, però, vengono compiuti arresti al solo scopo di raggiungere la quota prefissata dal governo.
Nelle città dello Xinjiang – Hotan, la più religiosa di tutte, il capoluogo Urumqi, la mitica Kashgar – non si vedono più barbe lunghe e le moschee sono vuote.
Quella che Xi Jinping chiama “lotta al terrorismo” è una vera e propria repressione etnica messa in atto sin dall’infanzia, o prima: infatti i bambini vengono separati dei genitori per crescere ignari della propria cultura e molte donne vengono costrette ad abortire o a essere sterilizzate.

Genocidio demografico: le sterilizzazioni forzate delle donne uigure.

Grazie a un’inchiesta dello scorso giugno di Associated Press è venuto alla luce il problema delle sterilizzazioni forzate delle donne uigure. Si va dall’iniezione di contraccettivi all’inserimento di una spirale posizionata in modo da essere impossibile estrarla senza un’operazione chirurgica – pratica che può portare all’infezione. Secondo l’antropologo tedesco Adrian Zenz, il 2,5 per mille delle donne uigure è stato sterilizzato nel 2018. Il tasso di natalità in Xinjiang, che fino al 2015 era il più alto dell’intera Cina, tre anni dopo era il più basso – complice anche la fuga di molti uiguri all’estero.
Fino al 2016 – anno dell’abolizione della legge del figlio unico – le minoranze etniche non avevano alcun limite sulla procreazione al contrario dei cinesi Han. Da allora le cose si sono capovolte: se i cinesi dell’etnia maggioritaria possono avere fino a due bambini, tutti gli altri al massimo tre. Ricordiamo che gli Han costituiscono il 92% della popolazione cinese.

Il lavoro forzato.

I campi di detenzione si sono, inoltre, trasformati in luoghi di lavoro forzato da parte delle aziende cinesi. È qui che vengono lavorati cotone, tessuti, petrolchimici e viene soddisfatta l’alta richiesta di mascherine di questi tempi. Ciò ha condotto Trump a sanzionare, lo scorso luglio, le aziende che vendono prodotti e componenti alle aziende cinesi accusate di sfruttare la manodopera uigura.
Tornata in Italia per l’estate, ho notato come gran parte dei prodotti anti-covid – mascherine usa e getta, termometri, guanti in lattine – fossero prodotti in Cina. Da anni il “made in China” non ci sorprende più: ma se esso fosse, in realtà, “made in Xinjiang”?
Una nuova indagine del New York times ha svelato come almeno 17 delle 51 aziende di prodotti di protezione sanitaria in Xinjiang si occupino del trasferimento coatto dei “dipendenti” nelle altre provincie, dove sono costretti a imparare il mandarino e a omaggiare il Partito con varie cerimonie.
Amy K. Lehr, direttrice dell’Iniziativa dei diritti umani dello Center for strategic and International studies, dichiara che «Queste sono misure coercitive che obbligano le persone a stare in fabbrica contro la propria volontà. Secondo la legge internazionale ciò può essere considerato lavoro forzato».
In breve, il partito comunista cinese coarta una minoranza etnica e religiosa a divenire un esercito di lavoratori a bassissimo costo. I prodotti di queste industrie non sono solo per uso domestico ma anche mondiale. Una mossa economica e, soprattutto, politica: in questo modo gli Uiguri sono costretti a stare tutto il giorno in una fabbrica, senza la possibilità di ribellarsi, trasformati in ubbidienti robot che adorano il Partito dopo un buon lavaggio del cervello.

Controllo tecnologico costante.

Il Xinjiang è una delle aree più sorvegliate al mondo. Oltre alle telecamere per strada, nei taxi e nei locali pubblici, come nel resto della Cina, gli abitanti di questa provincia sono sottoposti al riconoscimento facciale prima di poter usufruire dei servizi pubblici, come fare la benzina, e a un controllo quotidiano da parte della polizia, che ha il diritto di fare irruzione nelle case. Tutte le chiamate in entrata e in uscita sono registrate dal governo centrale e un’app installata obbligatoriamente permette alle forze dell’ordine di esaminare con facilità il traffico dei cellulari.

L’importanza dello Xinjiang per la Cina.

Perché Pechino si accanisce così tanto contro questo angolo di mondo? Storicamente esso è sempre stato il confine occidentale dell’Impero, prima di divenire una zona cuscinetto tra la Cina e l’Unione Sovietica. Inoltre questa vasta area poco popolata ha un sottosuolo estremamente ricco: 13.000 trilioni di m3 di gas naturale, 2190 di carbone e altre risorse fossili rappresentano il 20% del potenziale energetico cinese insieme ai 23,4 miliardi di tonnellate delle riserve petrolifere.
Nel 2009 le tre aziende di oro nero PetroChina, Gazprom e Shell hanno firmato un accordo per la costruzione di un gasdotto attraverso lo Xinjiang per fornire gas ai diversi paesi dell’Asia centrale.
Oltre alle risorse energetiche, lo Xinjiang è l’unico sito dove la Cina può condurre test nucleari nell’aerea disabitata di Lop Nor, un antico lago salato ora prosciugato.
Se secoli or sono il Turkestan Orientale era attraversato dalla Via della Seta, allo stesso modo oggi è di importanza strategica per la Nuova Via della Seta, la Belt and Road initiative che collega il commercio cinese al resto del mondo.

La risposta di Pechino alle accuse mondiali.

Ufficialmente Pechino si impegna a sradicare i terroristi che negli anni passati hanno provocato disordini in alcune città cinesi, come Kunming, Hotan, Kashgar e addirittura in Piazza Tiananmen sotto la sacra immagine di Mao Zedong.
Diverse organizzazioni internazionali hanno accusato il governo cinese di violare i diritti umani, alle quali è stato risposto che la loro è solo una lotta contro il terrorismo e che le indagini non sono altro che fake news – nel seguente video un giornalista della BBC chiede all’ambasciatore cinese del Regno Unito, Liu Xiaoming, di rendere conto di un gruppo di persone bendate mentre vengono fatte salire su un treno e della testimonianza di una donna uigura.


Alessandra Nitti
Sinologa, viaggiatrice, appassionata lettrice, yogini e scrittrice. Trascorro le giornate nel mio mondo di poesia inventando trame di racconti, progettando viaggi intorno al mondo o in posizioni yoga a testa in giù. Laureata in lingue e letteratura straniere solo per il gusto di conoscere lingue difficili. Vivo a Canton, nel sud-est della Cina, per insegnare italiano a giovani cinesi. Tra una lezione e l’altra gestisco Durga – Servizi editoriali.
L’amuleto di giada, Arpeggio Libero Editore.
Faust – Cenere alla cenere, Arpeggio Libero Editore.
Esilio, Arpeggio Libero Editore.
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Weekend a Leopoli, in Ucraina

Weekend a Leopoli, in Ucraina

Weekend a Leopoli, in Ucraina

Viaggi Di Alessandra Nitti. Weekend a Leopoli, in Ucraina. Storia, piacere e fascino della decadenza in una città polacca dal gusto mitteleuropeo.

Leopoli, L’viv in ucraino, è una delle maggiori città dell'Ucraina. È così diversa dalla capitale; piccola, accogliente, storica: me ne sono innamorata a prima vista.
Le quattro parole che so di russo qui, al contrario di Kiev, non mi aiutano perché a ovest si parla solo ucraino con tante influenze polacche. Polacca era infatti questa città dal gusto tutto mitteleuropeo.
Il centro storico è molto contenuto, con le sue fatiscenti case d’epoca e le vie lastricate.
È forse il suo aspetto decadente e quasi trasandato ad avermi ammaliata. Le costruzioni dall’intonaco scrostato e i tetti strettissimi l’uno all’altro sopra il reticolato di vicoli senza macchine mi ricordano la mia Venezia, anche se osservo il tutto da una Lada – macchina sovietica d’epoca –installata sul tetto dell’House of legend, anziché dalla Scala del Bovolo.

Questo storico bar a quattro piani è un must se si viene a Leopoli. 

Le sue anguste scale si snodano tra le salette a tema, fin sul tetto e ancora più su, se ci si arrampica nel comignolo per osservare i tetti della città e i campanili.
Di chiese ce ne sono a centinaia: cristiane, ortodosse, polacche, armene, queste ultime con i dipinti di angeli dallo sguardo duro o di fantasmi che accompagnano i feretri. Non mancano le mura medioevali, dietro al quartiere ebraico, lì dove della sinagoga distrutta dai tedeschi non rimane altro che le fondamenta e le placche commemorative.

Il teatro e uno scorcio di Leopoli

Alle spalle della città vecchia sorge la collina del castello, che si può percorrere nel silenzio degli alti ippocastani.

Tra le fronde, dall’alto, filtrano i raggi a illuminarne i fiori come candele.
Giunti in cima si ammira la città. Per assaporarla ancora meglio si possono noleggiare dei binocoli da un signore che, avvolto nel suo giaccone militare sia in inverno che in primavera, ascolta musica assurda dal suo altoparlante offrendo un servizio abusivo ai turisti.
Vagando per i vicoli di Leopoli si possono scorgere sui muri dipinti e bassorilievi di leoni, simbolo della città. Un leone anche qui: è come essere a casa.
Il mercato dei libri usati – in cirillico – non è lontano dal cortile dei giocattoli, uno squallido angolo dove vengono raccolti giocattoli abbandonati che, zuppi di pioggia, ti guardano con gli occhioni angosciati. Nessuno vi vuole più e io sento la vostra melanconia in questo surreale pezzo di mondo, in questa sconosciuta Ucraina dal sapore europeo.

Leopoli: prezzi bassi, ottimo cibo, vodka e masochismo. 

A Natale la Piazza del Mercato, la piazza principale, si affolla di mercatini e avventori infreddoliti: riscaldarsi con una tazza di vin brûlé è d’obbligo. In primavera, invece, si approfitta dei patii all’aperto. Leopoli è infatti città di locali: abitanti e turisti non fanno altro che assaporare le bontà dei Carpazi o bere birra e vodka. I prezzi sono assurdamente bassi e il cibo buonissimo.
Per finire, non si può non fare un salto al Bar Masoch, dedicato allo scrittore Leopold Ritter von Sacher Masoch, austriaco di origini ucraine nato qui nel Diciannovesimo secolo. Dal suo nome è stato coniato il termine masochismo. Incluso nel prezzo della vodka al peperoncino o di qualsiasi altro drink ci sono le frustate da parte delle cameriere e, se siete fortunate, potete leccare la panna dal corpo di un avvenente sconosciuto.
Storia, piacere e fascino della decadenza, questa è Leopoli. 


Alessandra Nitti
Sinologa, viaggiatrice, appassionata lettrice, yogini e scrittrice. Trascorro le giornate nel mio mondo di poesia inventando trame di racconti, progettando viaggi intorno al mondo o in posizioni yoga a testa in giù. Laureata in lingue e letteratura straniere solo per il gusto di conoscere lingue difficili. Vivo a Canton, nel sud-est della Cina, per insegnare italiano a giovani cinesi. Tra una lezione e l’altra gestisco Durga – Servizi editoriali.
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31 anni dopo: Hong Kong come Tiānānmén?

31 anni dopo: Hong Kong come Tiānānmén?

31 anni dopo: Hong Kong come Tiānānmén?

Di Alessandra Nitti. Trentun anni fa, tra il 3 e il 4 giugno 1989, l’esercito cinese ha massacrato migliaia di studenti e operai raccolti in piazza Tiānānmén per manifestare contro le restrizioni sulla libertà di parola e di stampa. Oggi, sono i giovani di Hong Kong a protestare per avere maggiore libertà.

L’anno scorso, in onore del trentesimo anniversario della strage di Tiānānmén a Pechino, ho raccontato di come la Cina si sforzi di rimuovere dalla memoria collettiva quella violentissima notte. Tra il 3 e il 4 giugno 1989 l’esercito cinese ha massacrato migliaia di studenti e operai che si erano raccolti nella piazza principale della capitale, davanti alla Città Proibita, per manifestare pacificamente contro le restrizioni sulla libertà di parola e di stampa e in favore di alcune riforme economiche anti-corruzione. Almeno fino a che l’esercito non è arrivato con i suoi carri armati per attaccare i manifestanti.


Secondo la Cina e lo smemorato popolo cinese assoggettato a questo “neo-regime”, quel giorno non è successo niente, sebbene da trent’anni l’accesso a piazza Tiānānmén sia a numero limitato e i turisti vengano controllati con il metal detector come se fosse un aeroporto. Lo scorso agosto ho trascorso del tempo a Pechino e sono rimasta sorpresa quando ho dovuto persino scannerizzare il mio passaporto elettronico per poter accedere alla piazza.
Ma la grande tragedia non è questa.

Hong Kong, quest’anno, non commemorerà le vittime di Tiānānmén, morte per la libertà (di parola), perché la Cina sta negando questa possibilità anche a loro.

La grande tragedia è che oggi, trentun anni dopo, non solo la Cina non ha mai confessato la morte di quelle cinquecento, mille o tremila (ancora non si sa) persone, non solo ha deciso di non riconoscere la libertà di parola tanto bramata, ma la sta togliendo anche a quell’unico porto di libertà che è Hong Kong.
Hong Kong, quest’anno, non commemorerà le vittime di Tiānānmén, morte per la libertà, perché la Cina sta negando questa possibilità anche a loro.

Facciamo un salto indietro: nel 1997 la Corona inglese ha deciso di lasciare la sua colonia al Regno del Centro, con la clausola che per 50 anni nulla sarebbe cambiato. 

Da allora Hong Kong (e da due anni dopo anche la vicina Macao) è zona a statuto speciale, con un proprio governatore, libertà di commercio e di stampa.
Varcare il confine tra Shenzhen, nella Cina continentale, e Hong Kong è un’esperienza quasi mistica per chi vive nello stato di dittatura del Paese a lungo: niente più polizia che entra all’improvviso nei locali per chiederti il passaporto, niente più restrizioni sull’uso di internet, niente più paura di dire qualcosa fuori posto. Ma per quanto ancora?


Da un anno a questa parte, infatti, dopo che il Partito Cinese ha stabilito che i cittadini di Hong Kong possono essere soggetti a estradizione, gli abitanti dell’isolotto asiatico hanno deciso di fare rimostranze contro Pechino.

La Cina non vedeva proteste intestine da quel 4 giugno del 1989. I movimenti hongkonghesi sono iniziati in modo pacifico: chiedevano l’annullamento della nuova legge sull’estradizione, il cambio della ex-governatrice Carrie Lam posta lì da Pechino stessa e maggiore libertà di stampa.
Il Partito ha allora inviato l’esercito al confine a Shenzhen mentre a Hong Kong la polizia sparava proiettili di gomma sulle folle (una ragazza ha perso un occhio) e malmenava i giovani. Da allora fino a gennaio ci sono stati vari scontri e la bandiera rossa a cinque stelle è stata bruciata con grandissima indignazione da parte del popolo cinese.
Le proteste si sono fermate durante la pandemia, ma ora che la Cina ha quasi “debellato il virus”, o così fa intendere, gli hongkonghesi sono tornati a farsi sentire su Hennessy Road.

Hong Kong: vietata la tradizionale fiaccolata in onore della strage di Tiānānmén a Victoria Park, nel cuore dell’isola, ufficialmente a causa della pandemia.

Richard Tsoi, vicepresidente della Hong Kong Alliance in Support of Patriotic Movements in China, ha annunciato che la polizia locale ha vietato la tradizionale fiaccolata in onore della strage di Tiānānmén a Victoria Park, nel cuore dell’isola, a causa della pandemia.
Ma in Cina le misure contro la diffusione del Covid-19 non ci sono quasi più: le scuole hanno riaperto, la gente è tornata a lavorare e il governo distribuisce coupon sconto per spingere il popolo a frequentare i centri commerciali.
Chi vuole, però, domani sera alle 20.09 (GMT +8) potrà collegarsi online per partecipare a una veglia live. Questo è tutto ciò che viene concesso agli Hongkonghesi e a chi è morto per la libertà.


Alessandra Nitti
Sinologa, viaggiatrice, appassionata lettrice, yogini e scrittrice. Trascorro le giornate nel mio mondo di poesia inventando trame di racconti, progettando viaggi intorno al mondo o in posizioni yoga a testa in giù. Laureata in lingue e letteratura straniere solo per il gusto di conoscere lingue difficili. Vivo a Canton, nel sud-est della Cina, per insegnare italiano a giovani cinesi. Tra una lezione e l’altra gestisco Durga – Servizi editoriali.
L’amuleto di giada, Arpeggio Libero Editore.
Faust – Cenere alla cenere, Arpeggio Libero Editore.
Esilio, Arpeggio Libero Editore.
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La casa museo di Michail Bulgakov a Kiev

La casa museo di Michail Bulgakov a Kiev

La casa museo di Michail Bulgakov a Kiev

Viaggi Di Alessandra Nitti. A Kiev, la casa di Michail Bulgakov, scrittore e drammaturgo russo. Nel museo, un’alternanza di fiction e concretezza, tra gli oggetti personali di famiglia e quelli dipinti dei personaggi del suo romanzo, La guardia bianca.

In un bel lunedì mattina di sole, sono andata a visitare la casa d’infanzia di Michail Bulgakov – autore di Il maestro e Margherita – qui a Kiev. L’abitazione si trova al numero 13 della discesa di Sant’Andrea, nel cuore della capitale ucraina nel vecchio quartiere di Podil. Con la ruota panoramica da un lato e la chiesa turchese bordata d’oro sulla cima della collina, questa zona è la mia preferita.
Dal boschetto di Sant’Andrea, dove gli artisti dipingono, i musicisti suonano e le persone si rilassano in compagnia, si ha una bella vista su Kiev e sul fiume Dnipro. È qui che inizia la discesa di Sant’Andrea, dove Michael Bulgakov trascorse gli anni dal 1906 al 1919, fino a che partì per il Caucaso arruolato come medico militare. Non avrebbe mai più fatto ritorno nella sua città natale, se non con il cuore. È infatti proprio in questa casetta che ambientò il suo unico romanzo pubblicato mentre era ancora in vita: La guardia bianca.

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La casa museo di Michael Bulgakov è uno dei must se si visita Kiev.

Non è la solita esposizione di oggetti personali dell’autore, ma un curioso mix tra la vita vera dei bambini Bulgakov a quella fantasiosa del romanzo. Infatti la bella casetta da famiglia perbene dei Bulgakov racchiude in sé la gioventù dell’autore e la ricostruzione degli ambienti de La Guardia Bianca.
Per inglobare entrambe le storie, quella reale e quella immaginaria, ogni stanza è raddoppiata: nella stanza del pianoforte, dalle finestre con i vetri blu per ricreare il crepuscolo della prima scena del romanzo, sono messi insieme l’arredamento dei Bulgakov e quello dei Turbin, i protagonisti: quest’ultimo è totalmente dipinto di bianco per distinguerlo dai mobili della realtà. Da un lato vediamo un pianoforte dell’inizio del secolo con le foto di Michail e dei suoi fratelli da piccoli, dall’altro uno dipinto di bianco con due sedie a indicare lo strumento utilizzato dai Turbin.

La chiesa turchese e oro e la discesa di Sant’Andrea

Tutta la casa è così, in un’alternanza di fiction e concretezza.

Dallo studio da lavoro dell’autore-medico – dove visitava i pazienti affetti da sifilide – alla libreria di Akeksej Turbin. Nella camera da letto di Elena, ricostruita nella stanza delle quattro sorelle Bulgakov, appare l’icona davanti la quale l’eroina del romanzo prega per la vita del fratello; nella stanza dei bambini, invece, c’è il tavolo da lavoro di entrambi, i Bulgakov e i Turbin.
Sul cortile interno al primo piano affaccia una bella veranda con vetrata nella quale una volta al mese gli amanti di Bulgakov si riuniscono per parlarne e per bere un tè.
Insomma, una tappa da fare se si visita Kiev. E se non si può viaggiare fisicamente, non si può non leggere questo romanzo ambientato nell’inverno del 1918-1919, nel pieno della Rivoluzione russa e di una Kiev accerchiata dai cosacchi e dai bolscevichi.

La casa museo di Michail Bulgakov a Kiev: la statua di fronte la casa, lo studio e il pianoforte



Alessandra Nitti
Sinologa, viaggiatrice, appassionata lettrice, yogini e scrittrice, trascorro le giornate nel mio mondo di poesia inventando trame di racconti, progettando viaggi intorno al mondo o in posizioni yoga a testa in giù. Al momento, nonostante la struggente nostalgia per la mia laguna veneziana, vivo a Canton, nel sud-est della Cina, insegno italiano a giovani cinesi che non vedono l’ora di venire nel nostro Bel Paese. Tra una lezione e l’altra gestisco “Durga – Servizi editoriali”, ma soprattutto porto avanti i miei progetti letterari.
L’amuleto di giada, Arpeggio Libero Editore.
Faust – Cenere alla cenere, Arpeggio Libero Editore.
Esilio, Arpeggio Libero Editore.
Memorie. La serenissima tradita, Arpeggio Libero Editore.
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