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Rileggendo Madame Bovary di Gustave Flaubert

Rileggendo Madame Bovary di Gustave Flaubert

Rileggendo Madame Bovary di Gustave Flaubert

Professione lettore Di Davide Dotto. Rileggendo Madame Bovary di Gustave Flaubert, pubblicato per la prima volta nel 1856. Il capolavoro della letteratura francese in cui l’indole dei personaggi conduce e fatalmente sorregge il racconto.

Tra brani antologici, articoli, libri, riproduzioni cinematografiche, i protagonisti di Madame Bovary tornano spesso.
Nel rileggere il romanzo di Gustave Flaubert, si ritrova una storia che riteniamo – forse a torto – metabolizzata e acquisita. Tuttavia non è raro imbattersi in qualcosa di nuovo, per esempio in una parola che ricorre piuttosto spesso, e che assume diverse sfumature: fatalità. Essa si fonde con le scelte dei vari personaggi.
Emma acconsente a sposare Charles perché così può allontanarsi dalla casa paterna. Charles chiede in moglie Emma per porre fine alla recente vedovanza.

Si tratta di scelte che potevano non avvenire, solo che in quel determinato contesto, non sembra che le cose potessero andare diversamente.

Charles è responsabile dei malesseri di Emma più per quello che è e rappresenta che per ciò che fa, dice o vuole. Emma lo detesta per il modo di portare il cappello (calcato sulle sopracciglia), per le labbra tremolanti che aggiungono al viso qualcosa di stupido.
Pure la Anna Karenina di Tolstoj, a far mente locale, è infastidita dal modo di portare il cappello di Aleksej Karenin (di cui le orecchie sorreggono le falde).
Se è l’indole dei personaggi a condurre e sorreggere il racconto una volta avviato, si può ben parlare di fatalità.
Madame Bovary di Gustave Flaubert

Madame Bovary

di Gustave Flaubert
Feltrinelli
Narrativa
ISBN 978-8807900983
Cartaceo 9,50€
Ebook 1,99€
Leggi online gratis o Scarica PDF Pubblico Dominio

Emma si sente un’eletta.

Dà per scontato di consacrarsi al lieto fine, libera dai lacci della monotonia campestre o conventuale.
Solo in seguito impara (a sue spese) che la felicità che intende perseguire è una cosa mostruosa. Ma anche qui la sorprendiamo in attesa, nell’esito incerto delle sue traversie, di qualcosa di che giunga magicamente a toglierla dagli impicci: «E poi chi sa, quando meno te l'aspetti, potrebbe accadere un fatto straordinario, no? Poteva anche morire Lhereux…»
La lettera d’addio che Rodolphe verga di propria mano per liberarsi di lei, ricorre a questo vocabolo per autoassolversi: «È stata colpa mia? Accusi soltanto la fatalità».

"Fatalità" viene utilizzato da Charles Bovary più volte, con un’accezione simile e volta a discolpare se stesso, Emma e persino Rodolphe.

Nel suo caso, tuttavia, le implicazioni sono assai più drammatiche. Charles si discolpa per l’esito catastrofico dell’operazione compiuta al fine di correggere il piede equino di Hippolyte, lo stalliere dell’albergo di Yonville. Difende Emma da qualsiasi biasimo e rifiuta, fino all’ultimo, di muoverle il minimo rimprovero. Giustifica Rodolphe che non esita a considerare la sua bonarietà comica e vile.
Saremmo liberi di aderire al verdetto emesso da Charles Bovary se non contrastasse con quello di Flaubert. A ben vedere, il suo impeto a perdonare tutti, incolpando una presenza impersonale superiore, non collima con il giudizio del narratore. Il quale è lungi dall’assolverlo dell’amputazione della gamba del povero Hippolyte, né sembra intenzionato a prosciogliere Emma da ogni responsabilità. Se scusa qualcuno, ciò avviene nel corso del drammatico incontro tra Emma e Rodolphe: qui il narratore prende le difese di quest’ultimo precisando in tutta fretta che non mentiva nel dichiarare di non possedere gli ottomila franchi che l’avrebbero salvata dalle grinfie del merciaio Lhereux (o chi per esso).

Madame Bovary è pieno di interventi del narratore (se non di Gustave Flaubert stesso) che emendano le opinioni espresse dai suoi personaggi.

Un esempio. La suocera, che molto avrà da ridire su Emma, la trova raffinata. Il marchese di Andervilliers la considera graziosa e tutt’altro che contadina. Il farmacista Homais non è da meno: la ritiene una donna di grandi qualità che non avrebbe sfigurato in una sottoprefettura.
Di altro registro Rodolphe: «Com'è carina questa moglie del dottore, bei denti, occhi neri, piedino civettuolo…»
Se, come si dice, le borghesi ammirano la sua economia, i clienti la sua gentilezza, i poveri la sua carità, il narratore si affretta a precisare che il suo cuore era colmo di bramosia e di odio.
Emma, solo Emma è causa delle proprie traversie. È responsabile nella misura in cui si lascia abbindolare dalla peggiore letteratura dell’epoca, imbevendosi di romanzi dozzinali che parlano d’amore, di foreste cupe, cuori infranti, giovani forti come leoni, dolci come agnelli, corrompendo così la facoltà di giudizio non più affidabile. Quando si legherà a Léon o a Rodolphe interpreterà una parte, reciterà battute di un canovaccio mandato a memoria.
Di Rodolphe dirà: tu sei il mio re, il mio idolo, tu sei bello, tu sei buono, tu sei intelligente, tu sei forte. Neanche fosse, quello che leggiamo, un romanzo d’appendice.

La voce narrante ha da ridire un po’ su tutti.

Di Léon afferma che, se si è astenuto dagli eccessi, l’ha fatto per pusillanimità oltre che per delicatezza. Di Hippolyte dice che gira intorno gli occhi stupidamente, o ridacchia stoltamente a chi cerca di circuirlo per convincerlo della bontà dell’operazione al piede. La figura di Homais assume tratti ridicoli e pedanteschi.
Non mancano apprezzamenti nei riguardi di Charles Bovary: il suocero riconosce che è un brav’uomo anche se per Emma non rappresenta un gran partito; ha un buon aspetto, una discreta reputazione ed è ben voluto; Emma alla fine ammetterà la sua superiorità, ne avrà addirittura paura. Rimangono in piedi tutti i suoi difetti: è stato un bambino viziato e lento di comprendonio, nonché ottuso; la sua conversazione è piatta come un marciapiede e non ha un briciolo di ambizione. Non ci sono gli elementi perché possa divenire un luminare come il dottor Canivait – ed è vano illudersi, sarà capace di mettere al repentaglio la reputazione di ufficiale sanitario.
È nonostante questo che le sue qualità emergono: difende la prima moglie contro i genitori; lo vediamo in collera, alla morte di Emma, verso chi ha abbia da ridire sulle spese del funerale.

La fotografia che fa Dacia Maraini di Charles Bovary gli rende giustizia.

Rozzo, goffo e pigro, si direbbe persino scemo, in realtà si mostra capace di ciò che nessuno dei personaggi flaubertiani sa fare: amare con dedizione materna, con tenerezza protettiva, con generosità infinita, la persona che ha scelto di amare. Dacia Maraini, Cercando Emma. Gustave Flaubert e la signora Bovary: indagini attorno a un romanzo
Probabilmente fa di più. Muove accuse precise contro il narratore stesso. In fondo è lui (e nessun altro) che si nasconde dietro la fatalità.


Davide Dotto
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Rileggendo Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello

Rileggendo Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello

Rileggendo Il fu Mattia Pascal, di Luigi Pirandello

Professione lettore Di Davide Dotto. Rileggendo Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello, pubblicato per la prima volta nel 1904. Le vicissitudini di chi, creduto suicida dai suoi familiari, reinventa un nuovo se stesso, artefice del proprio destino. Libero in tutto, si accorgerà di aver inseguito un’illusione.

Il Fu Mattia Pascal (1904), primo del suo genere, è un romanzo novecentesco. In esso spicca un nuovo protagonista, lo scioperato, «uno che la vita se la sa godere spendendo senza misura».
Si tratta di una figura che, qualunque scelta intraprenda, non assurgerà mai alla grandezza. A impedirlo sono le situazioni paradossali, grottesche, che alimentano un registro da opera buffa, se non le fattezze medesime. Mattia Pascal ha una «faccia placida e stizzosa con grossi occhiali rotondi che indossa per raddrizzare un occhio che guardava altrove».
A fianco emerge una concezione del mondo che, come spiega Romano Luperini (Pirandello, Laterza 1999), non è il puro prodotto di speculazioni filosofiche. Essa rappresenta a pieno titolo il secolo appena iniziato, epilogo dell'esperienza risorgimentale. Da quest'ultima, anzi, deriva in massima parte la crisi di identità diffusa dei personaggi di Pirandello. Ovunque si vada, qualunque cosa si faccia, non sono d'aiuto il progresso, lo studio, né l'attività artistica.

Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello narra le vicissitudini di chi, creduto suicida dai suoi familiari, reinventa un nuovo se stesso.

Artefice del suo destino, comincia un’esistenza altrove. Sulle prime vorrebbe (e dovrebbe) mandare un telegramma al fine di smentire la notizia uscita sul giornale.
Libero in tutto, si accorgerà di aver inseguito un’illusione. La sfida davanti alla quale si trova non è cosa da poco: «Chi sono io ora? Bisogna che ci pensi» (cap. VII). E in seguito: «Chi sono io, cosa rappresento in questa casa?» (cap. IX).
Mattia Pascal indosserà i panni di Adriano Meis. Di costui immagina la storia, la riempie di personaggi nati dall'assemblaggio di tipi e di ritratti differenti. Ciò non significa raccontare panzane col rischio di venire smascherato? Questa l’altra faccia della medaglia, l’inconveniente della sua fortuna: non gli riuscirà di consolidare l’identità sostituta, per una serie di problemi pratici.
Impacciato nel confidarsi, è impedita qualsiasi intimità e amicizia, non può nemmeno tenere un cane (cap. XI).
Se subisce un torto, non può ricorrere all’autorità e far valere le proprie ragioni. Privo di legge, di un nome, e infine di una famiglia e di un patrimonio, è incapace di difendersi contro un’aggressione o un truffatore. Né può ottenere soddisfazione in duello (cap. XVI).
Può tradirsi ogni momento, qualora intervengano coincidenze diaboliche: imbattersi nello spagnolo visto a Montecarlo quando ancora si chiamava Mattia Pascal; incontrare un parente di Adriano Meis (e lui non è che colui che ha detto o inventato di essere).
Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello

Il fu Mattia Pascal


di Luigi Pirandello
Edizioni Theoria
Narrativa
ISBN 978-8867582310
cartaceo 4,00€
Ebook 0,49€

È in conflitto con se stesso prima che col mondo esterno.

Per non farsi riconoscere da chicchessia si rade la barba e ritrova il suo odioso mento, piccolissimo (cap. VIII). Oltre il mento c’è quel suo occhio che decide di operare, facendo a meno degli altrettanto detestati occhiali colorati, concedendosi, di nuovo, un paio di baffi e la barba. (cap. VIII e XI)
Lascia altre tracce di sé. Non possiede più l’anello nuziale, tuttavia l'abitudine di stropicciarsi l'anulare indica sia stato sposato.
E dire che poteva cavarsela. All'epoca mancavano banche dati da incrociare e non sarebbe stato un problema mantenere l'identità di Mattia Pascal (avendo cura di non imbattersi in facce conosciute). Una situazione, insomma, non molto diversa quando, rientrato a Miragno, il suo paese, decide di non far valere i suoi diritti, se proprio non l’avessero costretto (cap. XVIII).

Alla fine è un’ombra d’uomo, è la prima maschera nuda, vivo per la morte, ma morto per la vita (cap. XV).

Ebbene sì. Torna, ma non è più Mattia Pascal. Il suicida che riposa nella tomba gli ha sottratto il nome. Non è nemmeno Adriano Meis. È il fu Mattia Pascal. Non può fregiarsi delle insegne di Ulisse, né riappropriarsi di quel che gli appartiene: «Come mi ero illuso che potesse vivere un tronco reciso dalle sue radici» (cap. XVII).La sua storia è piuttosto grottesca, tanto da poterne ricavare un libro.
Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. Luigi Pirandello
Alla fine si risolve a raccontare le sue avventure, che di questo si tratta. Lo scopo è dimostrare una tesi, riapparire al mondo dal quale (si) è escluso. Soprattutto a causa di un sogno proibito: quello di ricominciare da capo, tirando una linea su quello che è o ha creduto di essere.
A proposito di scrittura, prendono vita personaggi indimenticabili, i cui ritratti sono degni di una mostra. Nell'ordine appaiono Pinzone, il precettore, il Malagna, l'amministratore disonesto, Guendalina, la prima moglie di lui, e poi Oliva, Romilda, il signor Romitelli, il bibliotecario che Mattia dovrebbe sostituire. Per non parlare di Marianna Dondi, la Vedova Pescatore: «Aveva tutta l'aria di una strega, ma la figliola, ci avrei giurato, era onesta».

Il romanzo intero è intessuto di vere e proprie novelle.

Tanto che non a sproposito gli giunge l'invito - per il tono - di leggerne qualcuna del Boccaccio (cap. III).
A volte tutto sta nel riuscire a dire le cose giuste nel momento giusto.
Potremmo chiederci, per esempio, quale sarebbe stata la sorte e il significato del romanzo se l'avesse scritto qualcun altro, o fosse circolato cinquant'anni prima, o cinquant'anni dopo, in Italia o altrove. Fino a un certo punto sembrano domande peregrine.
Si tratta, in fondo, di un racconto in parte già uscito dalla penna di Collodi, dove Mattia Pascal/Pinocchio si allontana dal suo ambiente, dimorando nella Montecarlo/Paese dei Balocchi, fino al ritorno in seno alla sua famiglia. Il risultato non può apparire così simile e così diverso. In entrambi i casi vi è il riconoscimento che gli affetti, il mondo da cui si è fuggiti, sono l’unico luogo nel quale trovare e ricevere protezione. A cambiare è lo spirito con il quale si perviene a tale conclusione: di sollievo e gratitudine per essere uscito indenne da un bel po' di avventure rocambolesche (Pinocchio), di amarezza e rassegnazione per chi non vede e non trova vie d’uscita alla propria condizione (il fu Mattia Pascal).


Davide Dotto
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«Sono nato in America»: ritratto di Italo Calvino

«Sono nato in America»: ritratto di Italo Calvino

«Sono nato in America»: ritratto di Italo Calvino

Professione scrittore Di Davide Dotto. Da Sono nato in America, un ritratto di Italo Calvino: la dimensione della realtà e quella del fantastico, il caos e l'ordine trasversali. Uno sguardo diagonale, di scorcio, mai frontale.

Nel 2012 per la Mondadori è uscito, a cura di Luca Baranelli (introduzione di Mario Barenghi), Sono nato in America. È un grande cantiere autobiografico che contiene una serie di interviste (101 per l'esattezza), un modo interessante per fare il punto su Italo Calvino.

Certo, una raccolta di interviste è spesso problematica, ben si comprende l’ansia dell’intervistato che non aveva molta simpatia per la "parola parlata".

Parlando mi sento molto svantaggiato e ogni volta che io dico una parola penso di cancellarla e di correggerla. A ogni frase che dico vorrei mettere un inciso per precisare meglio quello che penso. Comunque, insomma, spero che non ci sia un magnetofono che registra quello che dico… Tutto quello che verrà registrato non vale. Non lo riconosco e non lo firmo. Italo Calvino, Sono nato in America... Interviste 1951-1985
A proposito dell’esattezza, affermava: «Mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale e sbadato, e trovo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso», Lezioni americane.
Il problema più rilevante è legato alla ricerca della giusta intonazione.

Si scrive pure per correggere il tiro, gli sbalzi incontrollati della penna, eliminare le pause che non servono, le indecisioni e i lapsus che svelano troppo.

Non per niente le interviste che riempiono le seicento e più pagine di Sono nato in America sono state riviste e corrette, tanto nelle risposte quanto – a volte – nelle domande. Forse si è inteso stroncare sul nascere l'azzardo di chi un giorno le avrebbe raccolte, fissando per sempre ciò che, in fondo, non ha mai finito di dire. Cosa che ha molto in comune con la sorte dei classici.
Un’altra preoccupazione non da poco è legata ai riflettori. Averli puntati addosso significa diventare prigioniero dell’immagine pubblica di se stessi, a scapito del proprio temperamento. Coglie nel segno chi precisa: «In un’epoca in cui l’impegno dello scrittore costituiva un imperativo alla moda, Calvino è sfuggito alla trappola del didattismo e dell’edificazione in cui sono caduti tanti scrittori», Jean Starobinski.

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Sono casi in cui la scrittura si separa dallo scrittore, costringendolo a divenire altro, perché il mondo si è appropriato di lui.

Quella che appare una scorciatoia, l'eventualità di potenziare con l’immagine di sé il proprio messaggio, alla fine è una trappola: la "parola parlata" e soprattutto improvvisata non cede il passo all’artigianalità del testo meditato, editato con perizia.
Gli autori non andrebbero mai incontrati. La persona reale non corrisponde mai all’immagine derivata dai libri, e non è detto debba corrispondervi per forza. Tuttavia se incongruenza ci fosse, non deve essere tale da porre nel nulla la propria opera, o ciò che costituisce l’identità dello scrittore. Si fa presto, poi, a procedere lungo un campo minato, che è quello biografico o autobiografico, come insegna il caso di Emmanuel Carrère.
In parte è per questo che Calvino «si fa distante, fino a divenire una figura anomala nel panorama letterario, non inquadrabile in una cornice soddisfacente» – così Claudio Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino (Garzanti 1990).
Non sono necessarie grandi distanze. Basta un piccolo passo indietro (anche dal proprio presente) per guardare più lontano.
Io credo comunque che sia necessario un certo distacco dalla realtà storica del nostro tempo, non perché senta il bisogno d’evaderne, ma perché per vederla veramente bisogna che ci mettiamo dal punto di vista di chi contempla una prospettiva di secoli. Italo Calvino, Sono nato in America... Interviste 1951-1985

Allontanarsi dal mondo conosciuto per studiarlo, e giudicarlo, potrebbe significare mettere il piede in uno scenario tanto strabiliante da irretire a sua volta (così in T con zero).

È un rischio, tuttavia, che spesso il lettore è ben lieto di correre: quello di ritrovarsi in un luogo che si apra alla dimensione del fantastico e attiri la sua attenzione.
Nel caso del Barone rampante chi abita negli alberi potrebbe tralasciare di osservare ciò che capita sulla terra, subendo il fascino del merlo di cui non si è accorto e gli è volato via da sotto il naso; di quella specie di piante mai vedute; oppure incontrando i piccoli ladri di frutta accampati con lui; per non parlare dei nobili ed esuli spagnoli, fintanto che dura il decreto che li confina.
Insomma: tutto dipende da dove si direziona lo sguardo. Se verso la realtà trasfigurata dal fantastico, o verso il fantastico in sé (vero viaggio di evasione).
Nelle intenzioni non si tratta di abdicare al terreno della razionalità, anzi. Si entra, in fondo, nello stesso edificio. Non dalla porta, ma dalla finestra. Da una supposta e momentanea evasione può discendere una vera e propria rifondazione della realtà, sondando il terreno delle possibilità.
È qui che prende forma il labirinto: l’immaginazione permette di distanziarsi dalle cose per osservarle meglio, squadrarle da cima a fondo, e rientrarvi per altre strade. Ogni direzione è una strada verso una via d’uscita.



Qualcuno ha affermato, non a torto, che Italo Calvino sia, per la letteratura, un operatore cartesiano ortogonale. La relazione tra realtà e fantastico è la stessa che corre tra una dimensione orizzontale (la x) e una verticale (la y).

È in questo incontro-scontro che si situano le ascisse e le ordinate di alcuni procedimenti immaginativi calviniani. Silvio Perrella, Calvino (La terza 1999)
La cosa, almeno chiara in Calvino, è un instancabile mutare di prospettiva. In fondo, Cosimo Piovasco di Rondò può permettersi di non scendere dall’albero perché con i piedi ben fissati a terra c’è il fratello Biagio, senza il quale la figura del Barone rampante sarebbe impossibile da tratteggiare.
Va da sé che questo attraversare il mondo in diagonale significa mettere i piedi in dimensioni che si sostengono e si influenzano a vicenda. Fare a meno dell’una o dell’altra vuol dire segare la realtà in due, pretendere che le parti ottenute stiano in piedi e non manchino, invece, di qualche cosa.
In questo incontro-scontro, prendendo spunto dalla prima conferenza delle Lezioni americane, si gioca il rapporto tra leggerezza e pesantezza, con l’ovvio rimando a un romanzo di Milan Kundera. È un genere di leggerezza che lo scrittore crea contro l'opacità del mondo sottostante: ci si libra in volo, leggeri, si sta sugli alberi o a bordo di una mongolfiera.
Per vie diverse l'aveva compreso anche Jean-Paul Sartre, che – come abbiamo visto altrove – ha usato quasi le stesse parole.

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Concludendo, la narrativa di Italo Calvino è un'inesauribile evasione e un continuo ritorno. Con la realtà mantiene un legame fortissimo e indissolubile, non se ne distacca perché non può.

Essa è il fatidico punto “0” da cui originano i binari e le direzioni intraprese dal narratore. Il punto “0” non è una cosa da niente, è quella da cui origina il neo-realismo dal quale, tuttavia, Il sentiero dei nidi di ragno già non sta più di stanza. È quella in cui i ragazzi, appena ventenni, «hanno vissuto il ricatto delle autorità tedesche e repubblichine che prendevano in ostaggio i genitori dei giovani che non si presentavano alla chiamata alle armi», Mario Lavagetto, Dovuto a Calvino (Bollati Boringhieri, 2001).
Italo Calvino non abbandonerà il suo sguardo duplice e oscillante: quando di fronte ha la dimensione del fantastico, si muove in diagonale verso la realtà, quando davanti ha i problemi del reale, li trasfigura con la lente del fantastico.


Se con Il sentiero dei nidi di ragno guarda di scorcio al fiabesco partendo dal reale, con le Fiabe italiane compie il percorso contrario; riconduce infatti la tradizione orale alla realtà del suo e nostro tempo, e tiene aperta la porta tra due dimensioni.
È come vivere in due mondi saltandoci dentro e sgattaiolando via di corsa, senza farsene irretire. È, in altre parole, un continuo guardare in su e in giù, dentro e fuori.
La dimensione della realtà e quella del fantastico si muovono nelle direzioni del caos e dell’ordine trasversali. L’idea è quella di uno sguardo diagonale, di scorcio e mai frontale. Un po’ come Perseo che non rivolge direttamente lo sguardo a Medusa e tuttavia le taglia la testa.





Davide Dotto
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Ugo Foscolo e la funzione sociale della letteratura

Ugo Foscolo e la funzione sociale della letteratura

Ugo Foscolo e la funzione sociale della letteratura

Professione scrittore Di Tamara Marcelli. Ugo Foscolo: vocazione poetica, innata passione per la letteratura, capace di mediare tra passioni disgregatrici e ideali di concordia di un popolo.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
O materna mia terra.
Ugo Foscolo
Ugo Niccolò Foscolo nacque a Zante (l’antica Zacinto), una delle isole Ionie, il 6 febbraio 1778, da padre veneziano, un medico di nome Andrea, e madre greca, Diamantina. Frequentò il seminario arcivescovile a Spalato, in Dalmazia, dove la famiglia si era trasferita per il lavoro del padre.
La morte improvvisa del padre, avvenuta nel 1788, causò alla famiglia gravi difficoltà, costringendo la madre a chiedere il supporto dei parenti. Così, dopo un primo rientro nell’isola di Zante dalla zia materna Giovanna, si stabilirono definitivamente a Venezia nel 1792.
Qui, il giovane Foscolo riuscì ad assicurarsi, nonostante le difficoltà economiche, un corso di studi e la frequentazione degli ambienti culturali della città.

La sua padronanza con la lingua greca più che con l’italiano e il suo carattere particolare, spesso scontroso e aggressivo, non gli impedirono di essere ammesso presto nei salotti dell’aristocrazia.

In quel periodo iniziò la sua vocazione poetica, agevolata oltre che da una innata passione per la letteratura, dagli studi e dalla lettura dei classici greci, latini e italiani. Si affacciò, inoltre, alle esperienze settecentesche, leggendo i grandi illuministi come Rousseau.
Nel 1796 pubblicò la sua prima composizione poetica e frequentò l’università di Padova, legandosi ai circoli rivoluzionari dell’epoca.
Nel 1797, dopo la rappresentazione al Teatro Sant’Angelo della sua tragedia Tieste, caratterizzata da un certo furore libertario che gli causarono il sospetto del governo veneto, fuggì a Bologna dove pubblicò l’ode A Bonaparte liberatore. Vicino alle tesi francesi, si ritrasferì a Venezia poco dopo, quando si instaurò un governo rivoluzionario. Ma il disinganno arrivò presto, con il Trattato di Campoformio con cui i francesi di Napoleone cedevano Venezia all’Austria.

Fortemente deluso, partì in esilio e si recò a Milano dove conobbe letterati di notevole spessore come Parini e Monti. 

Collaborò alla redazione del Monitore italiano pubblicando articoli a difesa di una visione patriottica e italiana della rivoluzione. I francesi costrinsero il giornale alla chiusura e Foscolo tornò a Bologna dove cominciò la stampa delle Ultime lettere di Jacopo Ortis che vennero pubblicate nel 1802.
Nel 1804 partecipò, con il grado di capitano, alla spedizione di Napoleone contro l’Inghilterra.
Rimase a Calais, Valenciennes e Boulogne-sur-mer, fino al 1806, dedicandosi alle traduzioni dal greco dell’Iliade e dall’inglese del Viaggio sentimentale di Sterne.
Dopo un breve soggiorno a Parigi, dove conobbe Alessandro Manzoni, tornò a Milano, regalandosi un breve viaggio a Venezia per trovare la madre. In questo viaggio nacque in lui l’idea di comporre Dei sepolcri, che pubblicò nel 1807.

Nel 1808 ottenne la cattedra di Eloquenza all’Università di Pavia. 

Il 22 gennaio 1809 inaugurò il suo corso con la lezione “Dell’origine e dell’ufficio della Letteratura” che ebbe un enorme successo.
Nel 1816, dopo alcune difficoltà personali ed economiche, nonché di rottura verso gli austriaci, si trasferì per un periodo in Svizzera, a Zurigo, e poi a Londra, dove terminò i suoi giorni il 10 settembre 1827.
Parea verecondo, perché non era né ricco né povero.
Forse non era avido né ambizioso, perciò parea libero.
Ugo Foscolo

L’opera di Foscolo è caratterizzata da una continua ricerca di assolutezza e tratta temi molteplici, tra i quali la compassione, il sepolcro come simbolo della continuità tra vivi e morti, la patria, l’amore, l’amicizia, la bellezza, l’armonia.

Seppur presentati come illusioni, non trovando alcun fondamento oggettivo nella natura, la quale appare al poeta come indifferente ai desideri e alle passioni umane. Le illusioni per Foscolo rappresentano delle scelte personalissime in cui cercare consolazione e alle quali attribuisce un valore sociale. L’illusione primaria che riassume in sé tutte le altre è rappresentata dall’Arte e in particolare dalla Poesia, che ha il potere di trasformare le illusioni soggettive in una forza impressa nella collettività. Per tramite dell’Arte, sarà possibile quindi superare i conflitti sociali.
Illusioni! Ma intanto senza di esse non sentirei la vita che nel dolore,
o nella rigida noiosa indolenza.
Ugo Foscolo

Nelle società più sviluppate le lettere «ministre delle immagini, degli affetti, della ragione dell’uomo» hanno una funzione di “persuasione” fondata sulla verità, carattere imprescindibile cui il Foscolo attribuisce un valore intrinseco. 

Il letterato «deve far conoscere ed amare la verità eccitando passioni e fantasmi», inserendosi nel più complesso sistema di equilibrio sociale tra oppressori e oppressi, padroni e leggi, con il compito di «dire il vero».
Nell’orazione inaugurale del suo corso presso l’Università di Pavia “Dell’origine e dell’ufficio della letteratura” del 22 gennaio 1809, si intravede chiaramente questa funzione sociale attribuita dal Foscolo alla Letteratura. Da segnalare inoltre le lezioni scritte: ”Lezioni su la letteratura e la lingua” e “Della morale letteraria”, in cui partendo dall’origine storica del linguaggio, sviluppa la sua teoria sull’importanza della Letteratura per la collettività, della sua capacità di mediare tra passioni disgregatrici e ideali di concordia ed equilibrio, portando allo sviluppo delle facoltà morali e intellettuali di un popolo.
Elementi della società furono, sono e saranno perpetuamente il principato e la religione; e il freno non può essere moderato se non dalla parola che sola svolge ed esercita i pensieri e gli affetti dell’uomo.
Ugo Foscolo

L’estrema attualità del Foscolo è evidente sia nelle tematiche affrontate sia nella sua personalissima teoria dell’arte come risolutrice dei rapporti sociali. 

Una rilettura attenta delle opere di questo immenso letterato italiano dell’ottocento, potrebbe, forse, aiutare una società inquieta e in balìa delle mutevoli condizioni economiche mondiali, a superare i tremendi contrasti e a raggiungere un qualche auspicabile equilibrio. Ritornare alla verità sembra, ancor oggi, l’unica chiave per aprire le porte di un futuro altrimenti, quantomeno, instabile.
Tutto quello che è deve essere,
e se non dovesse essere, non sarebbe.
Ugo Foscolo

Tamara Marcelli
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Le mille vite di Dante Alighieri, biografie a confronto

Le mille vite di Dante Alighieri, biografie a confronto

Le mille vite di Dante Alighieri, biografie a confronto

Professione Lettore Di Davide Dotto. Le mille vite di Dante Alighieri: il “personaggio storico”, il “poeta” e il “protagonista della commedia” nelle biografie pubblicate nel corso dei secoli.

Non si contano le vite di Dante Alighieri scritte nei secoli. Chi volesse orientarsi in qualche modo è destinato a perdersi in un intricato labirinto. Scriveva infatti Giuseppe Lando Passerini, nel 1929:
La storia delle vite di Dante è una matassa così arruffata, che sarebbe temerarietà ridicola lo accingersi a dipanarla.
Tuttavia qualche riflessione in merito si è in grado di farla. Per esempio si potrebbe pensare, per liberarsi dall'impiccio, che le memorie più prossime al poeta siano le più affidabili. Nulla di più fallace: la vita di Dante scritta da Giovanni Boccaccio è più un elogio che una biografia, non poco viene taciuto, anche per proteggere il poeta dall'accusa di eresia. Lo stesso Dante, in fondo, di sé tace molto. Non è loquace quando si tratta di parlare della moglie Gemma, dei figli o di altri parenti. Se qualcosa dice, è per rispondere a Farinata quando gli domanda, nel canto X dell’Inferno, «Chi fuor li maggiori tui?»
Non meno problematiche appaiono le biografie che, con mero intento compilatorio, si rifanno alle antiche, perpetuando errori e imprecisioni, fino a impegolarsi nel campo malfido delle ipotesi o inventando di sana pianta.
La vita di Dante di Giuseppe Lando Passerini

La vita di Dante

di Giuseppe Lando Passerini
Vallecchi editore
1929
ASIN B002KO9VX6
cartaceo 9,10€

Ogni biografia fa storia a sé, insieme al periodo e al contesto in cui è stata scritta. Dante diventa, di volta in volta, personaggio storico e non solo letterario, paladino dei movimenti risorgimentali.

Non manca chi, in maniera oggettiva e distaccata, ritiene che Dante in fondo sia un personaggio letterario anagraficamente accertato e storicamente irrilevante (Giampaolo Dossena). E sembra proprio così: prima del Risorgimento Dante aveva un peso più letterario che storico. È tramite il primo (il peso letterario) che di generazione in generazione è nato l’interesse ad approfondire la conoscenza di molti personaggi giunti fino a noi (Cacciaguida, Farinata degli Uberti, Brunetto Latini –  costui «più grammatico e uomo di stato che non buon poeta», scriveva Cesare Balbo).
Dante di Giampaolo Dossena

Dante

di Giampaolo Dossena
Longanesi
1995
ISBN 978-8830412811
cartaceo 15,50€

Con gli ideali risorgimentali il vento cambia: non solo i poeti, anche gli storici si interessarono a lui.

Così scriveva per esempio Cesare Balbo nella sua Vita di Dante del 1852:
Se Dante non fosse stato altro che poeta o letterato, io lascerei l’assunto di scriverne a tanti, meglio di me esercitati nell’arte divina della poesia… Ma Dante è gran parte della storia d’Italia, l’italiano che più di niun altro raccolse in sé l’ingegno, le virtù, i vizi, le fortune della sua patria…
Vita di Dante  di Cesare Balbo

Vita di Dante 

di Cesare Balbo
Rondinella editore
1852
ASIN B07KCK3PHG
cartaceo 30,00€
Nella biografia di Giuseppe Lando Passerini si leggono, invece, passi di questo tipo (edizione Vallecchi, anno 1929):
Utopia, dunque – se così piace chiamarlo – l’Impero dantesco: fallito come vedremo tra poco, con gli amari disinganni del 1313, ma al quale il cuore del Poeta, dovea tuttavia serbar fede sino alla morte: utopia derivata dalle idee del tempo; ma utopia soltanto in quanto l’Alighieri dovea ingannarsi nello sperare che Arrigo o altri potessero allora rendere al mondo e all’Italia, non ancora a ciò ben preparata e disposta, la molt’anni lagrimata pace: non in quanto la dottrina dantesca ha ancora vivo per noi, in quanto essa contiene già il principio dell’autonomia dello Stato moderno, vi si intravede anzi lo Stato che si sta oggi per grazia di Dio formando in Italia, auspice il vero Veltro dantesco, meravigliosamente.

Vita di Dante, una biografia possibile di Giorgio Inglese, ne fa soprattutto una questione di fonti e di ricerca storiografica. 

L’intento è quello di mettere da parte voci, congetture – impossibile non farne – per lasciar parlare i documenti d’archivio, i riferimenti e le allusioni autobiografiche, e in parte le vite di Dante tramandateci dagli scrittori più vicini a Dante stesso.
Impresa sicuramente non facile perché, pur basandosi su dati solidi e in apparenza incontrovertibili, si deve prendere atto di una cronologia di massima piuttosto scarsa. Inoltre si dovrebbe, ora come allora, scartabellare parecchio per vagliare fatti di pubblico dominio o addirittura fatti notori (o almeno tali all’epoca). Potremmo per esempio dubitare dell’esistenza dello stesso Cacciaguida per mancanza di un atto di nascita, se non fosse per un contratto giunto fino a noi. Ma a distanza di settecento anni, anzi, di settecentocinquanta dalla nascita di Dante, cosa possiamo pretendere?

Distinguere tra il terreno del possibile e quello delle congetture (se non del pettegolezzo) può apparire un’impresa disperata. 

Sono cambiati la lingua, il lessico; il significato delle stesse parole pronunciate è rimasto sepolto nel sedimento di “significati secondi, terzi e quarti” aggiunti nel frattempo.
Un solo esempio. L’Italia per Dante era un modo diverso di chiamare il Lazio. La parola italiano era perlopiù sinonimo di latino. Per contro Dante non sarebbe stato in grado di comprendere parole come Stato, nazione, sovranità, trattandosi di concetti nati molto più tardi e cioè con le identità nazionali.
Vita di Dante Una biografia possibile di Giorgio Inglese

Vita di Dante
Una biografia possibile

di Giorgio Inglese
Carocci
2018
ISBN 978-8843092512
cartaceo 15,00€

Va da sé che il libro di Giorgio Inglese Vita di Dante – Una biografia possibile accetta, in fondo, una sfida impegnativa. 

Quella che si porta dietro tutta una serie di implicazioni che rischiano di porre il personaggio Dante in secondo piano. Perché non c’è solo il “personaggio storico”, e nemmeno solo il “poeta”, ma anche il “protagonista della commedia” (il personaggio di chi scrive, come lo chiamava Contini), cioè colui che ha affrontato il viaggio ultraterreno e al quale Beatrice si rivolge nel canto XXX del Purgatorio (vv. 55-57):
Dante, perché Virgilio se ne vada, /non pianger anco, non piangere ancora;/ ché pianger ti convien per altra spada.

Non va taciuto nemmeno che la vita di Dante sia per forza di cose storia di città.

La sua figura fa da sfondo a Firenze, Pisa, Pistoia, ma anche a Bologna, Verona, Treviso, Ravenna, con il loro stuolo di antefatti per chi abbia la pazienza di seguirne gli sviluppi. Antefatti che partono da beghe, brighe e contese personali che diventano questioni di carattere generale e di governo.
Non è certo cosa trascurabile sapere com’era e come stava diventando la Firenze che ha dato i natali al Poeta. Essa stava vivendo un periodo di grandi trasformazioni: si sviluppavano i commerci, il credito, le attività bancarie (e la connessa finanziarizzazione dell’economia). Stretta tra le sue cerchie di mura, Firenze aveva bisogno di uscire dalle sue porte, non solo di allargarle. Basti pensare che la Firenze di Cacciaguida era sui seimila abitanti, quella di Dante ne conteneva cinque volte di più. Emergevano a poco a poco coloro che vivevano nei borghi, artigiani, commercianti (la borghesia). Insomma, era destino che Firenze si allontanasse sempre più da quello che era un tempo: sobria e pudica.
Firenze era luogo di passione politica, culturale, religiosa, di conseguenza in guerra permanente, testimone di golpe, rovesciamenti, giri di boa spaventosi, tra Guelfi sempre più forti e Ghibellini in lotta contro la supremazia di quelli, tra le discordie di Cerchi e Donati (di casata in casata) giunti alle vie di fatto, senza contare le macchinazioni di papa Bonifacio VIII.

Come si vede è un po’ arduo distinguere tra personaggio storico e personaggio letterario. Così facendo dovremmo fare i conti con un Dante dimezzato.

Mettiamoci il cuore in pace: le fonti storiche non ci diranno granché del Poeta, e le fonti letterarie ci diranno ben poco del Dante storico. Ciò che va assolutamente evitato è slegare il poeta dall’uomo che è stato (del suo tempo). La sua passione letteraria e culturale è un tutt'uno con quella politica e civile, tanto che la prima non può prescindere dalla seconda.
Sarà proprio l'esilio a restituirci il Dante che conosciamo, a dargli gli strumenti che gli consentiranno di porre mano alla Commedia, per non parlare del De vulgari eloquentia.
Con l'esilio l'uomo e il poeta si faranno le ossa: conosceranno sulla propria pelle fatiche e affanni, e impareranno una lezione importante e, paradossalmente, attualissima:
Ha sperimentato come una società il cui obiettivo primario è l’utile economico non conosca altre regole che la concorrenza, e come un capitalismo che mira all'accumulo sia indifferente ai valori della cultura e dell’etica pubblica [Marco Santagata].
Dante Il romanzo della sua vita di Marco Santagata

Dante
Il romanzo della sua vita

di Marco Santagata
Mondadori
2012
ISBN 978-8804620266
ebook 7,99€
cartaceo 9,50€

Insomma, Dante vive su di sé l'archetipo dell'homo viator: per ritrovare la strada (e soprattutto il suo significato), prima deve perderla. Questo è forse il senso dell'intera commedia.

Anche il figliol prodigo, prima sulla retta via, ha dovuto abbandonarla per ritornare rinnovato e con qualche punto in più rispetto al fratello maggiore (che questo viaggio iniziatico, chiamiamolo così, non l'ha compiuto).
A un certo momento Dante guarda altrove, va alla ricerca di Beatrice: «io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna».
Il fatto di aver perso la retta via è colpa necessaria, è l'inizio di un viaggio senza il quale non sarebbe andato da nessuna parte. Non avrebbe vissuto, se non nell'anonimato, nient'altro che un'esistenza senza merito, una tra un milione.

Davide Dotto
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Rileggendo I Malavoglia di Giovanni Verga

Rileggendo I Malavoglia di Giovanni Verga

Rileggendo i Malavoglia di Giovanni Verga

Professione lettore Di Davide Dotto. Rileggendo I Malavoglia di Giovanni Verga: il racconto di un'anima sola distribuita tra tanti personaggi, individui e famiglie che fanno paese, una piccola nazione ai margini del Risorgimento ormai concluso.

Tu hai paura del lavoro, hai paura della povertà; e io che non ho più né le tue braccia né la tua salute non ho paura, vedi!
«Il buon pilota si prova alle burrasche.»
Tu hai paura di guadagnare il pane che mangi; ecco cos’hai! Quando la buon’anima di tuo nonno mi lasciò la Provvidenza e cinque bocche da sfamare, io era più giovane di te e non aveva paura [...] Tua madre l’ha fatto anche lei il suo dovere, povera femminuccia, nascosta fra quelle quattro mura; e tu non sai quante lagrime ha pianto, e quante ne piange ora che vuoi andartene; che la mattina tua sorella trova il lenzuolo tutto fradicio.
Giovanni Verga, I Malavoglia

I Malavoglia di Giovanni Verga narra «le prime irrequietudini del benessere».

L’ansia di ottenerlo; la paura di perderlo; il fermento al fine di assicurarselo di nuovo, in un ciclo senza fine.
I  Toscano  (detti Malavoglia)  sono gente semplice e operosa, abitano il piccolo mondo di Aci Trezza. Già Catania è una città in cui ci si perde quanto è grande. Da qui la discontinua ricerca del meglio, la storia dei vincitori di oggi destinati a essere travolti. Se è vero che le virtù degli umili si rivoltano contro, diverse appaiono quelle di chi non fa che i propri interessi.
Emblematica la figura di zio Crocifisso (Campana di legno), aggrappato ai propri averi, il quale richiama il Mazzarò di una celebre novella («Roba mia, vientene con me!»)
Non è da meno la Vespa (sua nipote e in seguito consorte) quando dice: «Chi ha la roba in mare non ha nulla, ci vuole terra al sole, ci vuole».
I Malavoglia di Giovanni Verga

I Malavoglia

di Giovanni Verga
Feltrinelli
Narrativa
ISBN 978-8807900549
Cartaceo 8,07€

Vi è un’anima sola distribuita fra tanti e pittoreschi personaggi, principali e gregari, individui e famiglie che fanno paese, una piccola nazione ai margini del Risorgimento ormai concluso.

Va a finire brutta, va a finire, con questi italiani.
Giovanni Verga, I Malavoglia
La responsabilità di tutto ricade sul governo, la leva obbligatoria che toglie braccia per tirare avanti. È per questo che padron ‘Ntoni si imbroglia con lo zio Crocefisso nell’affare dei lupini, presi a credito e perduti – col figlio Bastianazzo – nel naufragio della Provvidenza.
I Malavoglia si guadagnano da vivere in mare: ci sono la casa del nespolo, la barca, figlie da maritare. Lottano comunque per mantenersi sul filo della sopravvivenza. Qualcuno –  ‘Ntoni di padron ‘Ntoni –   non è contento della propria condizione, invidia chi campa senza fatica e pensieri. Vorrebbe fare il salto, smettere di fare e disfare, di lavorare duro per un pezzo di pane.
Non servono i consigli, gli espliciti rimproveri del nonno, che si deve vivere come e dove si è nati. In mancanza, chi volesse emergere a tutti i costi ne pagherebbe le conseguenze, estraniandosi dalla stessa incondizionata solidarietà famigliare che funziona come le dita di una mano: quella che ti viene a trovare in carcere, ti va a cercare nelle bettole, ti mette in guardia dai pericoli che non vedi.
Finché vi aiuterete l’un l’altro i guai saranno meno grandi.
Giovanni Verga, I Malavoglia

Se non bastano le parole del nonno, sono le donne a non risparmiarsi e a mostrare giudizio. 

Non aprono bocca però storcono il naso; stanno zitte «ma ti leggono nella testa», non dicono nulla ma esprimono tutto. Perché – come si dice – è proprio con le disgrazie che viene il giudizio, e le disgrazie fioccano in casa Malavoglia. Le donne di questo piccolo mondo sono Maruzza (la Longa), nuora di padron ‘Ntoni, le figlie Mena (sant’Agata) e Lia. Gli altri figli sono ‘Ntoni – novello figliol prodigo – e Luca, poi c’è Alessi che estinguerà – finalmente – il debito riscattando la casa del nespolo.

Per quanto riguarda la scrittura, i proverbi, le metafore, le espressioni colorite rimangono fortemente impressi, poco importa quanto tempo sia trascorso dalla prima lettura.

È un romanzo in grado di dare ancora oggi una sferzata e una proficua lezione di scrittura. Cosa non scontata perché un classico, sotto questo profilo, non sempre può fare da modello.
Va riletto senza aggiungere parole di commento, al di là degli apparati critici ai quali tornare quando se ne ha voglia o necessità.

Davide Dotto
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Storici e romanzieri a confronto: questione di punti di vista

Storici e romanzieri a confronto: questione di punti di vista

Storici e romanzieri a confronto: questione di punti di vista

Professione lettore Di Davide Dotto. Questione di punti di vista, storici e romanzieri a confronto: accertare la verità storica è di fatto impossibile, a meno di accontentarci di raccontare storie, se non vere, verosimili.

[Abu Ja'far Muhammad at-Tabari] non voleva narrare una versione di ogni fatto, ma tutte le versioni che gli uomini raccontano di ogni evento, così che il suo libro diventasse quell'intreccio di realtà e di eventualità, di possibilità e di impossibilità, o di possibilità opposte, che forma l'universo.
- Pietro Citati, Israele e Islam, le scintille di Dio (Mondadori)
Il punto di vista è la prospettiva con cui si guardano le cose. Ve ne è sempre uno. Difficile dire se esso sia distaccato, distante, oggettivo. Uno storico quale Federico Chabod, quando considera la Francia e il suo ruolo in Europa, ne parla come francese e, nel farlo, non può evitare di affermarne le peculiarità. Ciò pur riflettendo (egli stesso) sui rischi insiti nell’«esaltare la missione di un particolare popolo, anzi, il suo primato» (Storia dell’idea d’Europa). Il riferimento non è solo al Primato civile e morale degli Italiani di Vincenzo Gioberti, ma riguarda un po' tutta l'avventura coloniale e post coloniale.

Storia dell'idea d'Europa di Federico Chabod

Storia dell'idea d'Europa

di Federico Chabod
Laterza
ISBN 978-8842046707
Cartaceo 7,50€


Storici e romanzieri a confronto: nel caso di vicende che coinvolgono più parti si pone un problema rilevante: a chi è dato tramandarle? 

L’esigenza è quella di dar ascolto a tutte le campane, sperando che ciascuna sia in grado di pronunciarsi.
Emblematico è il conflitto arabo-israeliano. I punti di vista non si contano: non sono soltanto quello palestinese o israeliano. Si devono aggiungere fazioni, schieramenti degli uni e degli altri, di cui è arduo avere completa contezza. E non parliamo di quello asettico dei media che giorno per giorno ne riportano la cronaca, ricorrendo al registro scabro, proprio di realtà sufficientemente lontane da non comprometterci troppo, e in cui gli stessi interessati difficilmente si riconoscono.
E che dire delle Crociate, a noi note esclusivamente dalla prospettiva Occidentale? Vi sono almeno due libri da ricordare: La conquista del Paradiso. Una storia islamica delle crociate di Paul M. Cobb, e  Le crociate viste dagli Arabi di Amin Maaluf. Entrambi aggiornano, da un'angolazione diversa, quanto dovremmo già sapere dai libri di storia. In particolare Amin Maaluf ci parla di città messe a ferro e a fuoco, di atti di cannibalismo a seguito di una spaventosa carestia (a Ma’arra). L'occupazione di Gerusalemme è una pagina tragica per chi vi trova la morte e per chi la racconta. Vengono alla luce fatti sconosciuti perché non divulgati in Europa. È la faccia della medaglia che completa il quadro, cogliendo dinamiche che stanno dietro, proprie delle guerre di conquista. Lo scontro religioso, pur sembrando una giustificazione secondaria, non appare un pretesto: segue a posteriori.

La conquista del Paradiso Una storia islamica delle crociate di Paul M. Cobb

La conquista del Paradiso
Una storia islamica delle crociate

di Paul M. Cobb
Einaudi
ISBN 978-8806228927
Cartaceo 27,20€


Storici e romanzieri a confronto: in genere c’è sempre una versione che emerge.

Sebastiano Vassalli in Terre selvagge rielabora la guerra tra Romani e Cimbri, combattuta nel 101 a.C. nei Cammpi Raudii, tra Novara e Vercelli.
Prendendo posizione contro Plutarco che si basa sulle memorie di Silla,  lo scrittore esplora ciò di cui inevitabilmente si tace, dando voce a chi non l’ha mai avuta.
È quello che fa pure Franz Werfel, il quale dedica alla tragedia del genocidio armeno l'imponente I quaranta giorni del Mussa Dagh (Corbaccio).

Terre selvagge di Sebastiano Vassalli

Terre selvagge

di Sebastiano Vassalli
Rizzoli
ISBN 978-8817080729
Cartaceo 8,10€


Ci inoltriamo così in un campo minato, avvicendandosi i punti di vista dello storico e del romanziere.  

Essi si confondono nel momento in cui seguiamo Stendhal: egli ritiene l'opera letteraria lo strumento migliore per avvicinarsi alla verità storica più profonda, laddove lo storico, prigioniero delle fonti, esiterebbe davanti a una congettura di troppo. Il terreno si rimescola ulteriormente nel dar voce a quelle che Carlo Ginzburg chiama microstorie (proprio perché il protagonista di queste è un illustre sconosciuto, è vano stabilire quali differenze vi siano rispetto a un romanzo storico). Da una di queste (Il formaggio e i vermi)  è tratto per esempio il film Menocchio, attualmente nelle sale.


Tutto questo per significare che, lungi dal condurci allo scetticismo più spinto e inconcludente,  accertare la verità storica è di fatto impossibile, a meno di accontentarci di raccontare storie, se non vere, verosimili; sicuri che di qualunque cosa, purtroppo o per fortuna,  non si dirà mai nulla di definitivo.


Davide-Dotto

Davide Dotto
Sono nato a Terralba (OR) vivo nella provincia di Treviso e lavoro come impiegato presso un ente locale. Ho collaborato con Scrittevolmente, sono tra i redattori di Art-Litteram.com e curo il blog Ilnodoallapenna.com. Ho pubblicato una decina di racconti usciti in diverse antologie.
Il ponte delle Vivene, Ciesse Edizioni.
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