
Libri Recensione di Elena Genero Santoro. La città autistica di Alberto Vanolo (Einaudi). Un saggio breve che non impone soluzioni definitive ma propone sfide ai progettisti di oggi e domani, per ripensare spazi e ambienti accoglienti e stimolanti anche per persone neurodivergenti, dando vita a città che tengano conto anche della salute mentale e non solo dei vincoli fisici.
Quando alla facoltà di Ingegneria Edile del Politecnico di Torino seguivo i corsi di architettura e urbanistica, ci veniva spiegato che, per la gestione della disabilità, bisognava rispettare dei criteri progettuali, peraltro normati rigidamente dai regolamenti italiani, al pari delle norme antincendio con cui andavano a braccetto.E così ci trovavamo a disegnare porte mai più strette di ottanta centimetri e bagni in cui una carrozzina potesse fare un giro completo. Il bagno largo con lavandino basso e la tazza alta era un obbligo nei locali pubblici e in certi tipi di alloggi, se di nuova progettazione o nel momento in cui venivano ristrutturati. Per strada non so se qualcuno di voi ha mai notato che a volte, sui marciapiedi, ci sono delle piastrelle rigate da grosse scanalature o con dei punti in rilievo: queste servono per gli ipovedenti e i non vedenti, che possono percorrere le strade della città con l’ausilio di un bastone. E che dire delle rampe dei raccordi delle discese dei marciapiedi? Ancora una volta la normativa prevede determinate pendenze e un numero massimo di centimetri di dislivello per le carrozzine.
In realtà, già quando studiavo, trovavo che fossero soluzioni più teoriche che pratiche.
Spesso, su quei marciapiedi, era difficile persino spingere un passeggino, figuriamoci se un paraplegico poteva percorrere le stesse strade in modo indipendente.Le leggi esistono, ma i lavori non sempre sono realizzati a regola d’arte.
Tuttavia, queste misure a favore della disabilità, sacrosante peraltro, considerano solo un tipo di disabilità: quella fisica. La persona che non può camminare, la persona che non può vedere.
Non viene tenuto conto in nessun modo quanto un ambiente possa essere penalizzante per chi ha una neurodivergenza o una disabilità intellettiva.
Alberto Vanolo è un professore di geografia economico politica con un figlio di nove anni autistico.
Teo, il bambino, è un autistico di quelli che venivano non troppo tempo fa definiti "gravi", “a basso funzionamento”, oggi di “livello due o tre". Insomma, Teo è un bambino non autosufficiente, con comportamenti “strani“.Alberto Vanolo, scrive La città autistica, parlando di autismo non dal punto di vista delle neuroscienze, a cui concede solo un breve excursus, ma da un punto di vista paterno e soprattutto geografico, spaziale e ambientale, attingendo alla propria formazione. Vanolo tocca diversi punti raccontando l’autismo, e se da un lato non ama particolarmente le definizioni, le etichette diagnostiche, anzi, abbraccia un approccio "queer", in cui la diversità dovrebbe essere il più possibile normalizzata, dall’altro offre alcuni spunti di riflessione su come ambiente e geografia potrebbero in effetti rendere la disabilità meno gravosa.
Approccio queer: la causa dell'inclusione delle neurodivergenze è accostata, per alcuni versi, a quella LGBTQI+.
Un mero inciso, che anche la disforia di genere è stata di recente inclusa nel grande insieme delle neurodivergenze, ne parlo nel mio precedente articolo.L’autismo, dunque, non è qualcosa da curare, da guarire, da contenere, ma è un modo di essere che in certi ambienti può costituire un limite, mentre in altri ambienti assolutamente no.
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Alberto Vanolo parte a raccontare delle "esplorazioni psico geografiche" o "passeggiate situazioniste" che compie con suo figlio Teo.
Vivendo in una città di una certa dimensione, gli stimoli per un autistico sono tanti, talvolta eccessivi, e possono costituire sia qualcosa di costruttivo, sia un vero disturbo. Vivere in una grande città per una persona autistica presenta pro e contro, ma l’isolamento della pacifica campagna non costituisce sempre la soluzione migliore. Vanolo ipotizza una città non voglio dire utopica, ma ristrutturata a beneficio delle persone autistiche. Magari progettata da persone neurodivergenti, che comprendano le necessità da un punto di vista interno, come sul Maremagnum di Barcellona architetti in carrozzina avevano progettato, negli anni Novanta, tutti i ponti in legno di raccordo in modo che le carrozzine potessero scorrere senza intoppi.Le persone neurodivergenti sono molto sensibili ai sovraccarichi sensoriali.
Non tutte sensibili in equal modo agli stessi stimoli, ma mediamente infastidite. Troppe sollecitazioni uditive, olfattive, emotive possono portarli a un’overdose, che li conduce dritti a una fase di meltdown, una crisi in cui tutte queste emozioni e sensazioni causano una reazione fisica e psicologica scomposta. Quindi, sarebbe bello se nelle città fossero previste delle aree di "decompressione sensoriale" per le persone più sensibili, autistiche o meno. È uno è uno spunto che ha portato la mia mente di – un tempo aspirante urbanista – a sognare dei padiglioni delle costruzioni insonorizzate, a cui poter accedere per tirare il fiato. Non è detto che non gioverebbero persino ai neurotipici. E così, ciò che studiavo un quarto di secolo fa alla facoltà di Ingegneria Edile, troverebbe la sua estensione proprio con una città che tenga conto anche della salute mentale e non solo dei vincoli fisici. Sarebbe una meravigliosa evoluzione dell’attenzione verso la difficoltà che in fase progettuale si è iniziata a sentire qualche decennio addietro per chi stava in carrozzina.Alberto Vanolo spiega che esistono anche dei locali pubblici in cui in certe fasce orarie vengono appositamente ridotti tutti gli stimoli sensoriali, rumori e luci, affinché, anche chi è più sensibile possa sentirsi a proprio agio.
La libertà di essere se stessi, quindi.Come celiaca madre di due celiaci, sono pratica di locali inclusivi quando si parla di glutine. Luoghi in cui anche chi è diverso (nel nostro caso in senso alimentare) possa godersi un pasto, della compagnia, un’atmosfera piacevole, alla stessa stregua degli altri. Quindi capisco il bisogno di avere isole felici e ben vengano, anche se, da celiaca madre di celiaci, l’auspicio sarebbe una cultura inclusiva generalmente più diffusa. In un luogo in cui si tende al comfort per tutti quanti, i risvolti negativi di disabilità, diversità, modi di essere queer, vengono tutti attenuati.
A volte vedo la faccenda con pessimismo.
Viviamo in una società in cui i bambini, anche quelli “normali“, vengono percepiti con molto fastidio. Mi è capitato numerosissime volte di leggere interi dibattiti sui social con contro i bambini al supermercato, contro i bambini che piangono sugli aerei, contro i bambini al ristorante. E se da un canto esistono i locali child-free, proprio per quegli adulti che per una sera non vogliono essere disturbati dal pianto di un moccioso capriccioso, ci sono situazioni, come i voli intercontinentali, o come la spesa del sabato pomeriggio, in cui un bambino che frigna non si può semplicemente cancellare dalla faccia della Terra. C’è un’intolleranza diffusa verso l’infanzia, una condanna verso i genitori che non educano. E se da un canto è vero che vedere un bambino in età scolare, scorrazzare per il ristorante, scontrandosi coi camerieri, non depone a favore delle capacità educative moderne, è anche vero che il pianto di un bambino molto piccolo non si può stoppare a comando, e che un bambino anche in età più grande, può avere degli atteggiamenti molesti se è autistico. Peraltro, per onestà intellettuale, va detto che molti degli adulti "intolleranti" verso un infante che urla potrebbero a loro volta essere neurodivergenti e infastiditi da pianti e urla.Alberto Vanolo si pone il problema, soprattutto quando il figlio Teo mostra una propensione per l’approccio fisico e desidererebbe toccare tutte le donne che vede.
Su questo punto Vanolo spiega che ha dovuto contenere suo figlio, perché se lui è autistico ciò non significa che ogni ragazza sia disponibile a essere molestata da lui. Ma per tutte le altre circostanze, stranezze, modi di parlare esprimersi, stimming (movimenti ripetuti che fungono da sfogo per un autistico), crisi, Manolo non intende mettere un freno a suo figlio. Intanto non sarebbe giusto, e poi sarebbe persino controproducente. Certo, se a fronte di un comportamento socialmente disturbante, quando il genitore si giustifica (“chiedo scusa, mio figlio è autistico“), il disgustato spettatore non potrà più prendersela con la mancanza di educazione e scuoterà le spalle con un’espressione compassionevole. Ma è proprio questo il punto.La vera inclusione si avrà quando le "stranezze" di un autistico saranno normalizzate, saranno accettate come un diverso e rispettabile modo di esistere e di sentire.
Non è questione di voler romanticizzare la neurodivergenza, è la necessità di doverci interfacciare civilmente tutti noi su questo pianeta.Alberto Vanolo, nel suo breve saggio La città autistica, lancia alcuni ami. Propone alcune sfide. Non impone soluzioni definitive. Starà ai progettisti di oggi e di domani ripensare a spazi e ambienti accoglienti e confortevoli e stimolanti anche per chi non ha le parole giuste né le capacità pratiche per chiederlo.
La città autistica
di Alberto VanoloEinaudi
Saggio breve
EAN 9788806261108
Cartaceo 12,35€
Usato 7,15€
Ebook 4,99€
Quarta
Alberto Vanolo offre una serie di proposte provocatorie per la città autistica, una sorta di manifesto con principî generali per immaginare realtà urbane più semplici e sostenibili, non solo per chi vive una condizione di neurodivergenza.
Che cos'è una città «autistica»? È uno spazio per immaginare e sperimentare modi diversi di intendere le diversità, incluse quelle neurologiche, anche al di là del linguaggio delle categorie, delle diagnosi e delle disabilità. Il mondo ha bisogno di città del genere: «autistico» non va inteso in senso peggiorativo e la condizione di neurodiversità può offrire molto per progettare città più vivibili e aperte. Costruire realtà urbane migliori significa anche sovvertire le categorie morali e i linguaggi comunemente associati all'autismo.
Elena Genero Santoro |