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Articoli di Davide Dotto
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La metamorfosi di un testo musicale: «Rain Rain Rain» di Simon Butterfly

La metamorfosi di un testo musicale: «Rain Rain Rain» di Simon Butterfly

La metamorfosi di un testo musicale: il caso di «Rain Rain Rain» di Simon Butterfly

Musica Di Davide Dotto. Di cover in cover, un viaggio tra le versioni di Rain Rain Rain: da Simon Butterfly a Marie Laforêt, tra traduzioni, riscritture affettive e poetiche, una trasformazione che non è solo linguistica, è soprattutto narrativa, poetica, culturale. E riflette la vitalità stessa dell’atto interpretativo, quando abbandona l’imitazione per farsi scrittura originale.

Nel vasto e variegato mondo musicale, prima o poi ci siamo imbattuti nel termine cover, un fenomeno più complesso di quanto possa sembrare. Una cover può essere molte cose: un gesto di appropriazione, una rilettura che getta nuova luce, una riscrittura radicale capace di infondere nuova anima a un brano.

Tradotta e reinterpretata, una canzone può davvero trasformarsi in qualcos’altro, in una nuova storia.

Il dibattito sul significato e sul valore delle cover non appartiene solo al passato: continua ad animare la scena musicale contemporanea. Ne è prova la recente querelle tra Laura Pausini e Gianluca Grignani a proposito del brano La mia storia tra le dita, che ha riportato al centro la questione della paternità di un testo, della melodia e del diritto all’interpretazione.
Alcune canzoni che oggi consideriamo iconiche sono, in realtà, cover.
Non mancano adattamenti totali che spostano il punto di vista, cambiano il genere, riscrivono l’emozione. In questi casi, una voce maschile diventa femminile (o viceversa), un lamento amoroso si trasfigura in invocazione familiare, una metafora meteorologica si dissolve in una narrazione drammatica: il testo si emancipa proponendo una nuova storia, nuovi protagonisti e un differente destinatario emotivo.

Rain, rain
Oh, rain, rain
Oh, rain, rain va, la
Oh, rain, rain va, la

Oh, rain, rain
Since you went away
Oh, rain, rain
Beating down all day
Oh, rain, rain
Never seen such rain
Oh, rain, rain
Everything in rain

Lovers often fight about fat smallic quarrel
Making up will be born right that′s the moral
When we parted that mind you, you're mine
Did our hearts mean goodbye
So lovers separate and hurt one another
Leaving all to fate and then they discover
They believe it makes two lovers same
So they must start again

Oh, rain, rain
Since my love has gone
Oh, rain, rain
Sun has never shone
Oh, rain, rain
Hear it beating down
Oh, rain, rain
Feel like I′m gonna drown
Oh, rain, rain
Wonder where you are
Oh, rain, rain
Never see the star
Oh, rain, rain
Can it start the strain
Oh, rain, rain
Life is only rain

Say we meet again I can't live without you
Every dream I ever dream is about you
I shall know when I see your eyes shine
You will always be mine

Oh, rain, rain
Since you went away
Oh, rain, rain
Beating down all day
Oh, rain, rain
Flooding through my brain
Oh, brain, brain
Driving me insane
Insane, insane.

Ne è un esempio emblematico Viens Viens di Marie Laforêt, riscrittura profonda di Rain Rain Rain di Simon Butterfly, entrambe pubblicate nel 1973.

Il brano originale, Rain Rain Rain di Simon Butterfly, non parla che della pioggia, usata come metafora – ossessiva e prevedibile – di una delusione amorosa. Nella rielaborazione francese, il testo firmato da Ralph Bernet mette in scena la supplica straziante di una figlia rivolta al padre assente.
Il punto di vista narrativo si ribalta: non è più quello di un innamorato deluso. Il tono si fa più lirico e disperato, l’evocazione della pioggia scompare, lasciando spazio a un dialogo interiore intimo e doloroso. Questo effetto è reso ancor più intenso dalla capacità recitativa di Marie Laforêt, artista poliedrica che riesce a dare voce a emozioni complesse e sfumate.
Con una filmografia che conta circa 50 titoli, Laforêt era innanzitutto un'attrice affermata, e questo si percepisce chiaramente nella sua interpretazione – in Italia la ricordiamo, tra l’altro, nella serie La Piovra 3 (1987) e nell’adattamento di A che punto è la notte di Nanni Loy, tratto dall’omonimo romanzo di Fruttero e Lucentini (miniserie del 1994). L'interpretazione data è talmente intensa e autentica da suggerire che il vissuto personale di Marie Laforêt si sia fuso con le parole del brano, conferendo alla supplica una profondità e un'emotività uniche.



Esiste anche una versione italiana (adattata da Gian Pieretti), Lei Lei, incisa dalla stessa Marie Laforêt e successivamente ripresa da Dalida.

Lei Lei di Dalida rispecchia in larga parte la struttura e il contenuto di Viens, Viens, ma introduce variazioni che ne modificano la percezione.
Una differenza rilevante emerge nel verso «torna a casa se puoi»: una formula che introduce un margine di dubbio, una possibilità sospesa – forse una forma di pudore emotivo.
L’intensità non si attenua, ma si traduce in una malinconia più trattenuta, scandita da un lirismo delicato e convenzionale.

Viens, viens

Viens, viens, c'est une prière
Viens, viens, pas pour moi mon père
Viens, viens, reviens pour ma mère
Viens, viens, elle meurt de toi.
Viens, viens, que tout recommence
Viens, viens, sans toi l'existence
Viens, viens, n'est qu'un long silence
Viens, viens, qui n'en finit pas.

Je sais bien qu'elle est jolie cette fille
Que pour elle tu en oublies ta famille
Je ne suis pas venue te juger
Mais pour te ramener...
Il parait que son amour tient ton âme
Crois-tu que ça vaut l'amour de ta femme
Qui a su partager ton destin
Sans te lâcher la main?

Viens, viens, maman en septembre
Viens, viens, a repeint la chambre
Viens, viens, comme avant ensemble
Viens, viens, vous y dormirez.
Viens, viens, c'est une prière
Viens, viens, pas pour moi mon père
Viens, viens, reviens pour ma mère
Viens, viens, elle meurt de toi
Sais-tu que Jean est rentré à l'école
Il sait déjà l'alphabet, il est drôle
Quand il fait semblant de fumer
C'est vraiment ton portrait.

Viens, viens, c'est une prière
Viens, viens, tu souris mon père
Viens, viens, tu verras ma mère
Viens, viens, est plus belle qu'avant.
Viens, viens, ne dis rien mon père
Viens, viens, embrasse moi mon père
Viens, viens, tu es beau mon père
Viens, viens.

Lei, lei

Lei, lei canta una preghiera
Lei, lei che ritorni spera
Lei, lei si sta consumando
Lei, lei torna o morirà

Lei, lei ogni primavera
Lei, lei è bella come era
Lei, lei sola si dispera
Lei, lei aspetta solo te

Io io so che l'altra è molto graziosa
E per lei tu scordi la tua famiglia
Io non voglio giudicarti pero
Torna a casa se puoi

E sembra quasi che il suo amore ti leghi
E la mano di chi t'ama rinneghi
Ll destino di chi è stato con te
Tu scordare non puoi

Lei, lei un giorno di settembre
Lei, lei tinse la tua stanza
Lei,lei non puo stare senza
Lei, lei torna o morira
Lei, lei canta una preghiera

Lei, lei che ritorni spera
Lei, lei si sta consumando
Lei, lei torna o morirà

Il più piccolo è tornato già a scuola
Ci diverte quando legge qualcosa
Se fa finta di fumare pero
Ci ricorda un po te

Lei, lei torna padre mio
Lei, lei sto aspettando anch'io
Lei, lei nella nostra casa
Lei, lei manchi solo, solo, solo, solo, solo tu

Lei, lei non mi dire niente
Lei, lei oggi è più contenta
Lei, lei oggi è insieme a te
Lei, lei oggi è insieme a te

Lei, lei torna padre mio
Lei, lei sto aspettando anch'io
Lei, lei nella nostra casa
Lei, lei manchi solo tu.

Le versioni a confronto: Viens Viens e Lei Lei

È possibile che anche alcune scelte linguistiche abbiano contribuito alla minore incisività del brano: espressioni come “tinse la tua stanza” o “E la mano di chi t'ama rinneghi” risultano  leggermente auliche, e poco adatte alla naturalezza emotiva che ci si aspetta da un pezzo pop.
Questo registro, più vicino alla lingua letteraria che  parlata, potrebbe aver reso Lei Lei meno immediata, limitandone la presa sul pubblico italiano.
Il ritornello di Lei Lei introduce un effetto straniante: invece di rafforzare il coinvolgimento emotivo, come accade con il francese, tende a frammentare la narrazione, creando distanza con l’ascoltatore. In Viens Viens, «Maman en septembre... a repeint la chambre», la presenza esplicita della madre rafforza il legame affettivo, rendendo la scena più vivida. L'interpretazione italiana, invece evoca una figura terza, un’impersonalità  che attenua l’impatto drammatico.
Questa scelta, unita al lessico ricercato (“tinse”, “rinneghi”), contribuisce a un’eleganza formale che però ne raffredda l’emozione. Tuttavia, è proprio grazie all'interpretazione altrettanto intensa di Dalida che questa rilettura lascia un segno, colmando le incertezze linguistiche con una vocalità drammatica e avvolgente. Dove le parole non arrivano, arriva la voce.



Ciò emerge con ancora più forza nell’ultima strofa, dove si intuisce un cambiamento di atmosfera: il ritorno sembra imminente, forse è già avvenuto.

È un finale aperto, ma segnato da una fiducia trattenuta – una possibilità di riconciliazione che Viens Viens non contempla.
È una scelta che può essere letta anche alla luce del contesto storico italiano degli anni Settanta, segnato dall’approvazione della legge sul divorzio (1970) e dal successivo referendum abrogativo (1974). In quegli anni, l’idea di famiglia veniva profondamente ridefinita, tra nuove forme di rottura e il bisogno di elaborare in modo diverso il dolore affettivo.
L'adattamento riflette proprio questo clima: da un lato, il riconoscimento della sofferenza di una donna abbandonata; dall’altro, la speranza che la frattura possa essere ricomposta. Un messaggio che, nella sua apparente semplicità, traduce poeticamente la tensione tra un mondo che cambia e una visione ancora saldamente radicata nella tradizione.

L'originale inglese di Simon Butterfly presenta un approccio puramente sentimentale.

Rain Rain Rain procede per ripetizioni insistenti che creano un effetto ipnotico, costruendo l'intera composizione attorno a una metafora meteorologica essenziale e di per sé scontata. La pioggia diventa il correlativo oggettivo di una condizione emotiva, sviluppata su un nucleo tematico circolare.
La versione Viens Viens aggiunge invece l'aspetto narrativo, un abbozzo di caratterizzazione e lo sviluppo di un vero e proprio racconto con dignità letteraria.
Ma c'è di più.

Il testo di Rain Rain Rain è costruito su una serie di stereotipi che mal si prestano a una riproduzione diretta in altre lingue senza perdere mordente.

Per poter funzionare in altri contesti, la canzone ha dovuto essere rimodellata e adattata con decisione.
È diventata, insomma, una matrice da cui si sono generate versioni autonome e profondamente differenti. La trasformazione non è quindi solo linguistica: è narrativa, poetica, culturale. E riflette la vitalità stessa dell’atto interpretativo, quando abbandona l’imitazione per farsi scrittura originale.

Traduzioni parallele o progetto condiviso?

C’è un dato che colpisce per la sua forza simbolica e logistica: Rain Rain Rain, Viens ViensLei Lei, e persino la versione spagnola Ven ven di Marisol, sono tutte pubblicate nel 1973. Non si tratta di semplici adattamenti successivi, ma di varianti coeve, nate quasi in parallelo in diversi Paesi europei. A distanza di mesi (e talvolta settimane) l’una dall’altra, rivelano l’esistenza di una vera e propria operazione editoriale continentale, pensata per plasmare un brano-matrice.
Il successo non precede le versioni: le crea. Assistiamo alla diffusione sincronica di una melodia essenziale – di fatto un brogliaccio – che si lascia riscrivere.
Al tempo stesso, questa pluralità di voci imprime una dimensione corale, rendendo ciascuna versione parte di una costellazione narrativa che attraversa confini, generi e sensibilità.

Nel mondo della canzone d’autore, non era raro che un brano venisse lanciato su più mercati attraverso versioni parallele in diverse lingue, a volte con il coinvolgimento diretto di artisti di nazionalità diverse. 

Questa strategia di co-creazione e adattamento internazionale era già prassi consolidata negli anni Sessanta e Settanta, soprattutto per brani destinati al grande pubblico europeo. Canzoni come Comme d’habitude (ripresa poi da Frank Sinatra nella versione My Way) o Tornerò dei Santo California (riproposta poi come Apprends-moi da Mireille Mathieu) sono esempi noti. Tuttavia, in quei casi la dinamica sembra più lineare: esisteva un originale riconoscibile, da cui derivavano versioni successive.

Nel caso di Rain Rain Rain ci troviamo di fronte a un fenomeno atipico per intensità, simultaneità e diffusione.

Non è solo il segno di una buona intuizione commerciale, ma l’espressione di una collaborazione creativa transnazionale, capace di rendere un’idea musicale in apparenza modesta in un successo europeo multiforme. Un caso che anticipa, sotto molti aspetti, le logiche globali della musica pop contemporanea.
È possibile che il fenomeno abbia seguito una dinamica a effetto domino: il successo di Viens Viens nella versione di Marie Laforêt avrebbe dimostrato il potenziale commerciale del materiale melodico, innescando una reazione a catena che ha portato alla diffusione quasi simultanea delle altre.
La matrice musicale di Simon Butterfly – inizialmente poco considerata dai produttori – avrebbe trovato legittimazione proprio nel trionfo francese.

Zitas: la risposta greca.

Ogni nuova interpretazione – dalla spagnola Ven ven di Marisol alla greca Zitas di Marianna Toli –  nasce dal desiderio di replicare un successo adattandolo ai propri mercati linguistici. Il risultato è un fenomeno spontaneo di amplificazione culturale: una canzone che diventa europea non per pianificazione, ma per contagio artistico.
Alla mappa si aggiunge, grazie alla versione greca, un ulteriore tassello prezioso: essa prende una direzione autonoma rispetto sia alla matrice inglese sia alla riscrittura francese. Il titolo stesso, che significa “Chiedi”, inaugura una poetica del desiderio e della ricerca, sostituendo la ripetizione ossessiva di Rain Rain Rain con una litania matura, fatta di appelli e invocazioni per ricucire un legame spezzato.



Non c’è traccia del dramma familiare della versione di Marie Laforêt, né della malinconia liquida dell’originale inglese.

Il testo greco si presenta come una risposta consapevole e stilisticamente elaborata al lamento dell’amante abbandonato. Dove Simon Butterfly piange nella pioggia e si sente sopraffatto dalla perdita, Marianna Toli restituisce una maggior complessità. È il punto di arrivo di un processo di metamorfosi testuale che passa dal vittimismo all’introspezione attiva, dalla nostalgia alla possibilità di rinascita.
Volendo, potremmo ora leggere il trittico europeo come una vera e propria sequenza di narrazioni complementari, generate da una stessa base melodica ma autonome nei contenuti.



Metamorfosi a confronto: tre voci, tre prospettive.

Questo conferma che non ci troviamo di fronte a semplici adattamenti, ma a un processo di rielaborazione profonda del testo che ha seguito percorsi paralleli.
La traduzione del testo greco rivela la dimensione più affascinante dell'operazione: l'interpretazione di Marianna Toli non si limita a nobilitare il materiale grezzo, ma risponde al lamento inglese. Se Simon Butterfly geme «rain, rain, since you went away», la cantante greca replica con «ζητάς» (chiedi), convertendo la passività in azione, il vittimismo in proposta. Non è più piango perché te ne sei andato, ma chiedere, aprire alla possibilità di un ritorno (riallacciandosi al testo francese). È alchimia narrativa: ribalta i ruoli. Mentre Marie Laforêt modifica il genere (da amoroso a familiare), Marianna Toli ribalta la prospettiva (da passiva ad attiva).
La versione greca Zitas – ripresa nella cover di Evridiki del 1991 – non si limita a riscrivere il brano originale, ma lo contraddice silenziosamente, rispondendo a un certo immaginario sentimentale tipico della canzone d’autore maschile anni Sessanta e Settanta. Un universo in cui l’uomo, abbandonato, si dispera e sublima la donna assente, elevandola a figura angelicata e silenziosa, mentre evita ogni dialogo.

La donna diventa un’assenza decorata di fiori, mentre l’emotività maschile occupa tutta la scena.

È l’immaginario di brani come Fiori bianchi per te interpretata da Salvatore Adamo – già esso stesso riscrittura di un originale francese – o Rose rosse di Massimo Ranieri.
Anche Rain Rain Rain si muove in questo solco, una forma di autoassoluzione passivo-aggressiva. La donna è evocata come colpevole e inaccessibile, e la pioggia dell’abbandono diventa un alibi per non agire.
Contro questa narrazione, Zitas propone un controcanto: una donna che si interroga, che cerca, che chiede, ma che non si annulla. È una voce che tenta di ricostruire un legame su basi nuove, senza indulgere nel lamento o nella mitizzazione. In questo senso, la versione greca è una risposta culturale e poetica a un lessico sentimentale datato.

I testi esaminati diventano specchio di epoche e di modelli relazionali che la lingua veicola e cristallizza, senza che nessuno possa dirsi dominante sugli altri.  

Non è solo questione di stile, ma di posizionamento dell'io: chi parla, a chi, e perché? Il linguaggio da cui queste riscritture sembrano affrancarsi è quello del controllo, della colpa, del non-ascolto — un immaginario che non scompare, ma si evolve attraverso i decenni.
Dalla vittimizzazione sentimentale degli anni Sessanta e Settanta ("piango perché mi hai lasciato") si passa, talvolta, alla sacralizzazione dell’io creativo: un artista che reclama spazi inviolabili anche dagli affetti più prossimi, e che talvolta — l'ha messo in luce in un suo testo Roberto Vecchioni — riduce figli e compagna a vuoti dettagli sacrificati al trenino della letteratura.
È un’altra forma di autoreferenzialità, più colta ma non meno problematica: il soggetto-poeta si erge a custode del senso, e in questo stesso gesto rischia di dissolvere l’altro — non più assente per dolore, ma marginale per struttura. L’evoluzione è emblematica: dai fiori per l’assente ai monologhi del genio incompreso, il denominatore comune resta l’io al centro, che pretende comprensione senza offrirla, ascolto senza restituirlo.

Forse è proprio questo il destino delle canzoni: non restare mai ferme.

Passano da una lingua all’altra, cambiano voce, prospettiva, funzione. Si piegano ai codici del tempo e, nel farlo, ne rivelano le crepe. Ogni nuova rielaborazione è una domanda rivolta al presente: che cosa possiamo ancora dire dell’amore, della perdita, del ritorno?
E così, dalla pioggia sentimentale di Simon Butterfly al pudore filiale di Marie Laforêt, fino alla fermezza poetica di Marianna Toli, non assistiamo soltanto a un gioco musicale. Assistiamo alla riscrittura del linguaggio affettivo.
Non si può dire, al momento, molto di più: le fonti disponibili sulla genesi e la diffusione di Rain Rain Rain sono piuttosto lacunose. La stessa voce di Wikipedia si limita a riportare dati essenziali su autore, anno e adattamenti principali, senza approfondire le dinamiche editoriali o gli aspetti narrativi e poetici delle letture che ne sono derivate.
Cercando online, ci si può imbattere in molte altre versioni, persino in una in lingua tedesca dello stesso Simon Butterfly, coeva a quella inglese.

In fondo, si potrebbe dire che il brano originale sia la cover di se stessa, un paradosso che ne rivela la natura più autentica: non un testo, ma un’idea musicale in costante metamorfosi.

Tra gli altri testi in circolazione, si segnala quello cecoslovacco di Karol Duchon, Šiel šiel (si potrebbe tradurre con "se ne andò" o "partì"), che assume un'accezione quasi eroica, trasformando il lamento in un viaggio epico, solenne.
Poi c'è quello polacco di Lidia Stanisławska, Wiem wiem (un verbo che richiama Viens viens come la spagnola Ven ven, ma che si deve tradurre con "So so")  che si focalizza su una nuova introspezione.
Merita un cenno la turca di Füsun Önal, Gel gel, che ha un tono più leggero e quasi giocoso.
Infine,  la rielaborazione orchestrale di Paul Mauriat che, pur facendo a meno di un testo, veicola un'emozione profonda sottolineando, in fondo, la versatilità  e la forza intrinseca della melodia originaria.





Davide Dotto
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Studio Ghibli e OpenIA: tra creatività e appropriazione

Studio Ghibli e OpenIA: tra creatività e appropriazione

L'eco dello Studio Ghibli nell'era dell'IA: tra creatività e appropriazione

Di Davide Dotto. L'eco dello Studio Ghibli nell'era dell'Intelligenza Artificiale, un’ondata visiva e digitale sui social: implicazioni artistiche ed etiche, tra creatività e appropriazione.

Da qualche giorno, i social sono stati inondati da immagini generate da OpenAI nello stile inconfondibile dello Studio Ghibli. Un fenomeno che ha riacceso un dibattito complesso. I punti critici non mancano.

Il fulcro della discussione riguarda l’appropriazione e la possibile violazione dei diritti d’autore.

Hayao Miyazaki, co-fondatore dello Studio Ghibli, si è espresso chiaramente in passato, opponendosi all’utilizzo dell’IA nella propria opera.
La questione, tuttavia, è ben più ampia dell’uso di nuove tecnologie per la creazione di contenuti. Il rischio più profondo è lo svilimento della creazione artistica: si vorrebbe ‘strucar un botòn’ e bypassare riflessione, artigianato, e il tempo indispensabile alla maturazione di un’opera. È forse il lato più emblematico della pop art: non una celebrazione, ma una critica sottile alla ripetitività della cultura di massa.


Ma questo non è il cuore del problema. Dalla stampa a caratteri mobili alla diffusione dei libri, la tecnologia ha sempre accompagnato la cultura.

Il vero nodo emerge quando ci si ferma a forma, numero, superficie, dimenticando la sostanza. Già tra XVIII e XIX secolo, l’evoluzione tecnologica ha avuto un impatto profondo sul lavoro degli artisti e sul rischio di omologazione culturale, spingendo alla definizione di nuove normative – welfare compreso.
Per approfondire le sfide poste dall’Intelligenza Artificiale – non solo nell’arte – si consiglia il saggio di Dennis Yi Tenen, Teoria letteraria per robot, che offre una panoramica storica ampia e penetrante.
Non si vuole certo sminuire la complessità della questione, né gli interessi contrapposti in gioco.


Per lo Studio Ghibli, il problema si pone fino a un certo punto: lo stile è riconoscibile e riconosciuto, senza che venga intaccato il diritto morale d’autore.

Ma la querelle attuale tocca solo la superficie: la forma. E le storie?
Per comprendere appieno la portata di questa discussione, basta pensare a opere come Quando c'era Marnie, che ho visto di recente. Le immagini, pur evocando uno stile che abbiamo imparato ad amare e riconoscere, sono indissolubilmente legate a una narrazione di rara intensità emotiva e psicologica. È innegabile che la 'matita' di Hayao Miyazaki, e più in generale l'approccio creativo dello Studio Ghibli, abbiano sempre fuso un'estetica affascinante con storie di profonda umanità, capaci di lasciare un segno duraturo nello spettatore. Se questi due elementi – l'immagine e la narrazione – non coesistono in armonia, se lo stile viene estrapolato dal suo contesto narrativo ed emotivo, i disegni rischiano di perdere la loro anima, il loro significato più intrinseco.
Viene davvero voglia di rivedere i film dello Studio Ghibli. I meme e le riproduzioni possono rappresentare - senza esagerare, però - un’occasione per scoprire o riscoprire un mondo che merita attenzione.


Quando c'era Marnie Studio Ghibli
La città incantata Studio Ghibli

Creatività e pensiero divergente: ciò che l’algoritmo non sa.

L’IA elabora statisticamente il passato, non conosce la scintilla del pensiero divergente, quella che apre nuove vie. I film Ghibli non sono prodotti “in serie” perché nascono dalla pazienza, dal tempo, dalla cura artigianale: elementi che l’IA traduce in schemi, ma non comprende.
Ad esempio, per dipingere come Rembrandt un algoritmo deve scandagliare e classificare milioni di pennellate. Di certo non ne coglie l'esitazione, o l'incertezza che diventa stile. Ecco perché certe forme di “appropriazione” disturbano: l’IA guarda al già fatto, al catalogato. È sempre un passo indietro.
Se OpenAI fosse nata con la Rivoluzione Industriale, avremmo senz'altro un sapere sofisticato, una Encyclopédie di Diderot e D'Alembert cento volte più estesa. Ma forse ci saremmo fermati a Lavosier, a una conoscenza settecentesca, a un non tanto romantico steampunk. Chissà.



AI: un passo indietro, ma anche un’opportunità, tra imitazione e originalità.

Ma proprio qui sta il potenziale positivo. L’IA può essere una risorsa, se messa al servizio di una visione creativa solida, come strumento per ampliare e perfezionare un lavoro già avviato. Woody Allen stesso ha adottato le riprese digitali in 4K per migliorare la fotografia dei suoi film, senza snaturare il suo stile.
Mettere tali strumenti in mano a chi improvvisa, a chi "gioca", beh, è legittimo, ma la cosa può sfuggire di mano. Di fronte alla mole crescente di contenuti che invadono il mercato, diventa sempre più difficile distinguere un'autentica ricerca artistica da un mero surrogato.
Ecco, di nuovo, lo sminuire il lavoro altrui, la banalizzazione, la volgarizzazione, l’omologazione. Un po’ è il rischio di trasformare una poesia, un incipit o una canzone d’autore in un tormentone.



Finché si tratta di meme, di un gioco collettivo, la questione resta tutto sommato accettabile.

Si potrebbe perfino dire che la viralità di queste immagini, pur sfuggita un po’ di mano, contribuisce a mantenere viva l’attenzione su uno stile narrativo e visivo unico. Ma quando quello stesso stile viene assorbito dal marketing per lanciare campagne pubblicitarie del tutto estranee allo spirito Ghibli il discorso cambia radicalmente.
Qui non siamo più nel territorio della libera ispirazione o del tributo affettuoso, ma in quello dell’appropriazione sistematica a fini commerciali , dove il confine tra omaggio e sfruttamento si fa sottile, se non addirittura inesistente.

Lo stile Ghibli non è solo un’estetica, è una poetica della narrazione, un modo di guardare il mondo e le relazioni.

Trasformarlo in un marchio da utilizzare per catturare click o vendere prodotti significa disinnescarne il senso profondo.
In questo scenario, la questione dei diritti d’autore va oltre la legalità: è una questione di giustizia culturale.
Lo Studio Ghibli, tuttavia, mantiene intatto il proprio immaginario. Difficilmente la IA potrà sostituirsi alla sua capacità di infondere umanità e complessità emotiva, elementi che nessun algoritmo è in grado di replicare. L’IA può tendere allo stile visivo, ma non la profondità narrativa, né il cuore delle storie.
E non è molto diverso da certi approcci alla scrittura creativa, dove si insiste eccessivamente sui segreti per padroneggiare un canone inafferrabile fino alla paranoia e all’angoscia dell’influenza di cui parla Harold Bloom.

Verso un equilibrio tra ispirazione e tutela.

Consapevole delle critiche, OpenAI sembra aver introdotto restrizioni alla generazione di immagini eccessivamente fedeli allo stile di artisti viventi. Trovare un equilibrio tra libertà creativa e tutela del diritto d’autore non sembra troppo facile, né scontato.


Davide Dotto
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Dal libro al documentario: Il mestiere di vivere, di Cesare Pavese

Dal libro al documentario: Il mestiere di vivere, di Cesare Pavese

Dal libro al documentario: Il mestiere di vivere, di Cesare Pavese

Professione lettore | Cinema Di Davide Dotto. (Ri)leggere oggi Il mestiere di vivere di Cesare Pavese, portato al 42° Torino Film Festival nel documentario di Giovanna Gagliardo: il ritratto intimo di uno scrittore inquieto.

Rileggere oggi Il mestiere di vivere di Cesare Pavese significa confrontarsi con un testo di una densità e di una intensità cui non siamo troppo abituati. È un'opera profondamente biografica, una incessante e ossessiva confidenza con sé stesso. Un diario non destinato alla pubblicazione – forse – ma a un percorso estremo di autoconsapevolezza. Qui Pavese è veramente scrittore-autore che si immerge nella propria anima, nelle proprie istanze creative, inabissandosi in un tutto senza distinzioni. E questo tutto (esistenza vissuta o non vissuta, promesse non mantenute, pagine scritte, letteratura, poesia, studio, la professione editoriale) diventa “mestiere”.

Il mestiere di vivere

Il mestiere di vivere

di Cesare Pavese
Rizzoli | BUR
Narrativa autobiografica
ISBN 978-8817155656
cartaceo 9,60€
Ebook 0,99€


Il rischio è quello di leggere Il mestiere di vivere attraverso una lente puramente autoreferenziale o narcisistica.

La tentazione è forte, specialmente nelle parti iniziali in cui Pavese appare più che mai ripiegato su se stesso, in un circuito chiuso dove la letteratura e l'arte, anziché offrire salvezza, si fanno specchio delle sue contraddizioni. Ma esse, tappe di un viaggio, di una progressione, di una complessità cui non si può ovviare, sono necessarie.
Non si può tollerare che una cosa avvenga indifferentemente, per caso, fuori della nostra impronta (17/01/1937). Cesare Pavese, Il mestiere di vivere

Ciò che ci attira e ci conquista nel diario è, nell'ordine, la profondità dell'analisi introspettiva, la capacità di rendere universale l'esperienza personale, la qualità letteraria della scrittura, anche nel raccogliere semplici appunti.

Vita, letteratura, poesia si intrecciano in un modo talmente inestricabile che non ne riesce a uscire. La dimensione spirituale in cui è immerso rende difficile e dolorosa l'esistenza. Gli stessi luoghi cui Pavese sa di appartenere – le Langhe – rappresentano una sfida per il suo stesso mestiere di vivere e di scrivere, oltre a un insanabile conflitto tra aspirazioni intellettuali egregiamente perseguite e le esigenze della vita pratica.

Tra giovinezza e maturità: il peso della consapevolezza precoce.

Non si può nascondere che vi siano momenti in cui il sentimento si trasforma in risentimento, e non solo quando si rispecchia nella propria opera. Essa sembra consolidarsi presto in una forma in cui Pavese si sente intrappolato. Forse perché il percorso era già tracciato, e ciò che gli mancava era la spiegazione, il significato, la legge universale. Ma una volta trovata, gli sarebbe bastata?
Non è detto che conquistata una dimensione diversa, magari più elevata, si raggiunga la pace dell'anima.
Tutta l'arte è un problema di equilibrio tra due opposti (14/12/1939). Cesare Pavese, Il mestiere di vivere

Si oscilla ma non si cambia la propria natura.

Questa può essere la fonte di certi pensieri oggi scomodi: quelli di chi ha inteso qualcosa di definitivo e importante anzitempo, assai precocemente, fino a considerare che qualcosa a un certo punto si è arenato, nel passaggio dalla giovinezza alla maturità.
Certe idee maturano quando si sono fatte strada da tempo: «Aver fiducia che noi siamo più definitivi di quanto noi sappiamo (3/12/1938)». È un'intuizione che suggerisce come la consapevolezza arrivi sempre dopo, quando il percorso è già stato tracciato nell'ombra.
E in effetti nelle prime pagine del diario (datate 1935) ha poco più di ventotto anni - oggi sarebbe un ragazzo, ma allora era un uomo fatto. Sperimentava, con vent'anni di anticipo, la linea d'ombra di Conrad, o il malessere del protagonista dell'éducation sentimentale di Flaubert. A conti fatti: non bastava ancora a sé stesso e non aveva l'età per una simile svolta.

La ricerca di una metafisica: Cesare Pavese cerca un nuovo punto di partenza, uno snodo, il segreto di un altro meccanismo creativo.

Non vuole essere succube di uno schema, di una formula di cui pure si strugge di trovare il senso. Lo si capisce quando confida – abbastanza presto – come si senta nell'aver saccheggiato la vena (15-10-1935).
È qualcosa di assai lontano dall'arte combinatoria di Italo Calvino anche se è alla ricerca – se non di spiegazioni – di connessioni.
La differenza sostanziale è che l'attenzione si sposta dall'esigenza di preservare un mondo a quella di crearne uno del tutto nuovo, in cui però è impensabile trovare una qualche unità nello spirito. La letteratura del mondo borghese non lo consente, a meno di vivere a buon mercato, senza pagarne il prezzo, o metterlo in conto a qualcun altro.

Anche il suo malessere è un passo necessario.

Quale sarà il passo successivo? Difficile rispondere, perché sembra mancare del tutto una soluzione, quella che forse scioglierebbe la tensione.
Non gliene sarebbe bastata  una in apparenza semplice, come quella che anni dopo Italo Calvino avrebbe espresso ne Le città invisibili.
In fondo, sulla carta, Pavese aveva tutti gli elementi. Mancando di questa c'è forse una porta che non ha mai aperto. Ma non è detto che avrebbe potuto - come in un celebre racconto di Kafka - varcarla.
L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Italo Calvino, Le città invisibili


Il mestiere di vivere
Dal libro al documentario: Il mestiere di vivere, di Cesare Pavese

Il mestiere di vivere

REGIA Giovanna Gagliardo
SCENEGGIATURA Giovanna Gagliardo
PRODUTTORE/PRODUZIONE Luce Cinecittà, Film Commission Torino Piemonte, Ente Turismo Langhe Monferrato Roero
MONTAGGIO Emanuelle Cedrangolo
FOTOGRAFIA Roberta Allegrini
ANNO 2025
CON Cesare Pavese, Emanuele Puppio

Il documentario di Giovanna Gagliardo al 42° Torino Film Festival.

È proprio questa complessità che il recente documentario di Giovanna Gagliardo, presentato al 42° Torino Film Festival, cattura con straordinaria sensibilità.
Giovanna Gagliardo, evitando la facile tentazione di concentrarsi sul tragico epilogo, sceglie di esplorare quella totalità che per Pavese era "mestiere": i suoi ruoli di scrittore, poeta, traduttore ed editore diventano capitoli di un racconto che rivela quanto profondamente questi aspetti fossero interconnessi nella sua vita.
Non è una scelta casuale: lo stesso Pavese, il 20 novembre 1937, riflettendo sulla poesia pura, si domandava: «Ai fatti concatenati sostituire il paesaggio interiore? Tornare all'idea di dare il pensiero in movimento?» La scelta di una struttura tematica anziché cronologica del documentario rispecchia proprio questa tensione verso un'esplorazione non lineare dell'interiorità.
Il documentario, attingendo a preziosi materiali d'archivio, restituisce le testimonianze di un'autoanalisi spietata e senza compromessi. Non è certo facile ricomporre la stratificazione di esperienze e riflessioni che formano questo vasto mosaico esistenziale.


Oltre l'individuo. Un mestiere universale.

Il ritratto di Pavese emerge potente fin dalle riprese delle Langhe, a riprova che il mestiere di vivere va ben oltre la dimensione puramente individuale perché le questioni sul tappeto riguardano – o possono riguardare – ciascuno. La scelta di produrre un film per capitoli tematici rivela il tentativo estenuante di attribuire un senso al pesante sentimento di sconfitta interiore che lo tiranneggia. La sua è una battaglia tutta interiore, che lo spinge al di là del contesto storico (anche bellico) in cui il diario è scritto (tra il 1935 e il 1950), rendendo la sua voce più vicina alla nostra sensibilità contemporanea.
Il Mestiere di Vivere così inteso si rivela uno specchio in cui si riflette la modernità, che troppo spesso tenta di uscire dall'impasse attraverso facili semplificazioni.
Se si ha un ideale, un principio, questo si sgretola nelle mani dato che la realtà esige di vivere la pesante oscillazione di chi deve fare – per vivere – esperienza di ogni cosa prima di coglierne le connessioni. Questa, alla fine, è la trappola dentro il mestiere di vivere. E non potrebbe essere altrimenti.




Davide Dotto
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Il 9 novembre del 1989 cadeva il muro di Berlino: 5 libri raccontano la fine di un'epoca

Il 9 novembre del 1989 cadeva il muro di Berlino: 5 libri raccontano la fine di un'epoca

Il 9 novembre del 1989 cadeva il muro di Berlino: 5 libri raccontano la fine di un'epoca

Professione lettore Di Davide Dotto. 9/11/1989, Berlino: la caduta del muro, «una notte storica per i berlinesi e per il mondo intero». Cinque libri per raccontare la fine di un'epoca.

La bidella ritornava dalla scuola un po' più presto per aiutarmi
"Ti vedo stanca
Hai le borse sotto gli occhi
Come ti trovi a Berlino Est?"
Alexander Platz di F. Battiato (1982)
«Duecento anni fa Nicolas François Blanchard sorvolò la città in aerostato.»
«L'hanno fatto di recente anche i fuggiaschi.»
Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders (1987)

Il 9 novembre 1989 cadeva il muro di Berlino.

Capire cosa stesse succedendo significa fare i conti con i precedenti quarant’anni, l’inizio e la fine della Guerra Fredda, la glasnost e la perestrojka di Gorbacev.
La fine di un'epoca fu in apparenza senz’avviso; nemmeno un mese prima si festeggiava il quarantennale della DDR, ma già allora, a voler osservare, i segnali c’erano tutti.
Non è facile raccontare gli eventi nel momento stesso in cui si presentano, si oscilla tra testimonianza, romanzo, cronaca destinata a divenire storia. L’inchiesta giornalistica – nei limiti del possibile – assicura la distanza e l’oggettività che serve. A distanza di tempo (di anni, di decenni) si approfondiscono le questioni e lo sguardo, tuttavia si rischia, come osserva Giulietto Chiesa, di confrontarsi – in questo caso a decadi di distanza, con dati e informazioni difficili da reperire, o andati irrimediabilmente perduti.
Chi ha costruito il muro di Berlino? di Giulietto Chiesa

Chi ha costruito il muro di Berlino?

di Giulietto Chiesa
Uno Editori
Saggio storico
ISBN 978-8833800516
cartaceo 11,81€

La vita era dura anche per coloro che «credevano nella Germania dell’Est come alternativa all’Occidente», e partecipavano della comune diffidenza verso una società di tipo capitalistico.

Quei giorni a Berlino di Lilli Gruber e Paolo Borella (1990), per esempio, narra gli eventi nel momento in cui si compiono. Il muro è ancora in piedi, «un serpentone alto tre metri, oggi pressoché ricoperto di murales, scritte multicolori… un mostro lungo 167 chilometri» con più di trecento torri di sorveglianza.
Nel 2003 Anna Funder, C’era una volta la DDR, raccoglie le storie di gente comune, facendo emergere nella Deutsche Demokratische Republik il fenomeno degli inoffizielle Mitarbeiter (collaboratori non ufficiali del regime cui fece parte sporadicamente la scrittrice Christa Wolf). Senza appartenere alla Stasi (apparato del Ministerium für Staatssicherheit), riferivano di chiunque, amici, vicini, parenti.
Gli stessi insegnanti – racconta Ezio Mauro – spingevano i bambini a disegnare in classe i loghi dei canali televisivi seguiti dai genitori per punire chi guardava programmi occidentali.
Vi era una tale capillarità nella delazione che non vi era cittadino della DDR privo di un fascicolo che lo riguardasse e scavasse a fondo nella sua vita privata.
Per averne solo un’idea, basta ricordare il film Le vite degli altri (2006) della regia di Florian Henckel von Donnersmarck.
La vita era dura anche per coloro che «credevano nella Germania dell’Est come alternativa all’Occidente», e partecipavano della comune diffidenza verso una società di tipo capitalistico.
Anime prigioniere Cronache dal muro di Berlino di Ezio Mauro

Anime prigioniere
Cronache dal muro di Berlino

di Ezio Mauro
Feltrinelli
Saggio storico
ISBN 978-8807070501
cartaceo 9,35€
ebook 9,99€

«Una notte storica per i berlinesi e per il mondo intero». Cosa accadde la notte del 9 novembre 1989?

Nell’autunno del 1989 si sgretolano le strutture della Germania dell’Est, insieme alla sua polizia segreta.
Giocano a sfavore tutta una serie di fattori, tra i quali un deficit enorme, l’assenza endemica di manodopera qualificata, ma soprattutto la neutralità del blocco sovietico.
Non fu assaltato nessun Palazzo d’Inverno, a Berlino almeno, però divampò in quella parte d'Europa un fuoco fuori da ogni controllo.
È l’inizio di un processo articolato, drammatico e controverso che parte da lontano. I singoli episodi, tutt'altro che indolori, sono strettamente connessi. La rivoluzione romena, l’indipendenza di Cecenia, Lituania, Estonia, Armenia, Ucraina, Moldavia, il colpo di stato nell'Unione Sovietica (il putsch di agosto), e in seguito la guerra nella ex Jugoslavia, raccontano eventi all'interno della medesima cornice. Utili a riguardo i saggi raccolti nel volume 1989, il crollo del muro di Berlino e la nascita della nuova Europa, a cura di Antonio Carioti e Paolo Rastelli.
1989 Il crollo del muro di Berlino e la nascita della nuova Europa A cura di Antonio Carioti e Paolo Rastelli

1989
Il crollo del muro di Berlino e la nascita della nuova Europa

A cura di Antonio Carioti e Paolo Rastelli
Corriere della Sera
Saggio storico
ASIN B06XP46RVY
Fuori catalogo, disponibile usato 22,00€

Non mancavano avvisaglie. 

Le manifestazioni popolari, ancorché pacifiche, erano l’epilogo di «una ribellione individuale, sorda e silenziosa, maturata in segreto, nata dall'oppressione, organizzata nell'ossessione, decisa nell'angoscia» (Ezio Mauro). Essa si manifestava in fughe al limite, fortunose, ingegnose e disperate. «Gorbaciov, salvaci!» si gridava ad Alexander Platz:
Nella DDR non c'era mai stata dissidenza organizzata, ma solo testimonianze individuali, anche per il controllo soffocante della Stasi.
Ezio Mauro, Anime prigioniere. Cronache dal muro di Berlino
I regimi dell'Est si stavano trasformando in qualcosa di diverso e non godevano di buona salute. Per evitare si sbriciolasse il meccanismo che teneva sotto controllo autentiche polveriere, tentarono di cambiare volto. L'obiettivo era quello di continuare a esistere, non dissolversi. La DDR, trovandosi tra l'incudine e il martello, era meno disposta a seguire la via della distensione e ad aprirsi alle riforme. Anzi, resisteva isolata censurando le aperture provenienti da Mosca.
L’esperimento socialista applicato alla Germania dell’Est non era all'altezza di aspettative e promesse, non si credeva alla vittoria (anacronistica) sul sistema capitalistico, né che si sarebbe superato in benessere il rivale occidentale. Vi era un costante esodo di cittadini tedeschi dell’Est (veri e propri profughi interni all’Europa) che, in cerca di condizioni di vita migliori, raggiungevano l’Ovest espatriando attraverso le frontiere aperte di Cecoslovacchia e Ungheria.

Smorzatosi il conflitto ideologico, l'alternativa non era seguire un modello comunista o capitalistico, ma vivere o non vivere in uno Stato di diritto.

Nelle piazze si domandavano cose che daremmo per scontato: la libertà di stampa, elezioni democratiche. L'apertura della porta di Brandeburgo e l’abbattimento del muro erano la summa di queste istanze, non ultima quella di uscire dalla fragilità di chi non aveva possibilità di esprimere liberamente le proprie opinioni, né averne o maturarle.
I tedeschi dell’Est desideravano condividere la ricchezza dei cugini dell’Ovest, andare in vacanza, godere di beni di consumo fuori dalla propria portata, colmare la distanza creatasi, in poche generazioni, tra chi era nato e vissuto al di qua o al di là della cortina di ferro, con o senza il muro.
Ci sono voluti solo quarant’anni per creare due tipi di tedeschi completamente diversi, e ci vorrà un bel pezzo prima che la differenza scompaia.
Anna Funder, C’era una volta la DDR
C’era una volta la DDR Stasiland di Anne Funder

C’era una volta la DDR
Stasiland

di Anna Funder
Feltrinelli
Saggio storico
ISBN 978-8807884993
cartaceo 8,50€
ebook 2,99€

Il muro, un anacronismo ingombrante nel cuore dell'Europa, «un confine tra Germania e Germania»cadde la notte del 9 novembre 1989 per una parola di troppo di Günter Schabowski - portavoce del governo - durante una conferenza stampa. 

Gli sfuggì che da quel momento cadevano frontiere e restrizioni per l'espatrio, dando la definitiva picconata al sistema. I disordini conseguenti rischiarono di essere ingestibili: dal Cremlino non sarebbero accorsi rinforzi e nessuno si prese la responsabilità (se non in maniera assai blanda) di intervenire contro cose ormai fatte.
I passi successivi erano un percorso in salita per niente scontato:
  1. la riunificazione (tecnicamente un'annessione) sotto il cancellierato di Helmut Kohl; 
  2. il trattato di Maastricht che avrebbe proiettato l'Europa verso la moneta unica.

All’inizio si riteneva che la DDR avrebbe comunque – non si sapeva in che modo – continuato a esistere. La sua fine, nell’immediato, colse di sorpresa mezzo mondo. 

Veniva meno una realtà contestata alla quale ci si era abituati. Lasciò costernati e disorientati i dissidenti, la Comunità Europea, gli Stati Uniti per gli inediti scenari.
Vi erano le perplessità di un George Bush senior, le resistenze di una Margareth Thatcher, le ansie di un Mitterrand. Giulio Andreotti, parafrasando Mauriac, pare abbia detto: «Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due».
Considerando le dinamiche della Storia, e ciò che vi era in gioco, non è facile distribuire torti e ragioni, o fare un bilancio della lezione appresa. Se l’esperienza comunista si era incamminata in un percorso senza ritorno, il sistema capitalistico soffre una gravissima crisi per una sorta di pensiero unico, solo declinato in modo diverso, molto simile agli scenari del Mondo nuovo di Aldous Huxley (libro pubblicato nel 1932).

Da tempo «il materialismo puro e brutale del consumismo» mostra più di una crepa.

Si è convertito a una feroce competizione, alla legge del più forte erigendo nuovi muri (questi ultimi illustrati da Piero S. Graglia, Il muro).
Il muro Berlino 1989-2019 di Piero S. Graglia

Il muro
Berlino 1989-2019

di Piero S. Graglia
People
Saggio storico
ISBN 978-8832089257
cartaceo 11,90€
ebook 5,99€
Giulietto Chiesa (Chi ha costruito il muro?) va oltre e chiude il cerchio: sottolinea come sia stata l'America stessa l'artefice dell'edificazione del muro di Berlino avendo messo alle strette l'Unione Sovietica di Stalin e di Kruscev. Ha investito nella Repubblica Federale Tedesca creando un dislivello delle rispettive economie alimentando un meccanismo perverso: se un marco dell' ovest valeva quattro, cinque volte quello dell'Est, era naturale convenisse lavorare dove si guadagnava di più e acquistare viveri e beni dove costavano meno. Esaminando ciò che stava e sta dietro il muro, l'autore offre una particolare visione del presente, e come consolidate categorie siano fuorvianti se eventi (noti o non più noti) e reciproche responsabilità non siano ricollocati e riconsiderati a ragion veduta.




Credits: © ente-del-turismo | CC BY-NC 4.0

Davide Dotto
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Roberto Vecchioni: un grande sogno lungo ottant'anni

Roberto Vecchioni: un grande sogno lungo ottant'anni

Roberto Vecchioni: un grande sogno lungo ottant'anni

Musica Di Davide Dotto. Ha compiuto ieri 80 anni, Roberto Vecchioni, eterno esploratore dell'Anima: le sue canzoni sono il regno dell’immaginazione, di metafore, parole per consegnare storie e significati, di ricerca di un senso e del suo stravolgimento.

Un grande sogno lungo ottant'anni, non male per Roberto Vecchioni, instancabile esploratore delle profondità dell'animo umano. Preziose e diverse sono, di sicuro, le esperienze condivise da chi l'ha incontrato, conosciuto, ha assistito ai suoi concerti o l'ha avuto come insegnante.
Non è certo da meno averlo frequentato e trovato nelle liriche e nei testi delle canzoni, o tra le pagine dei libri che ha scritto.
Da bambino (anno 1977) fui affascinato da Samarcanda (con il Prologo di Naimy Hackett e Leona Laviscount), tanto che del disco non si ascoltava che questa. E Vaudeville, con un sottotitolo inquietante (Ultimo mondo cannibale), ispirata alle contestazioni subite da Francesco De Gregori al Palalido di Milano, nel 1976. Ma all'epoca lo ignoravo, e non sapevo nemmeno quale significato si celasse dietro il tormentone «Oh oh, cavallo».

Per anni ho ignorato le altre canzoni (Per un vecchio bambino, Ultimo Spettacolo). Le ho scoperte molto più tardi.

Un po' mi aspettavo che richiamassero le atmosfere di Samarcanda, e parlassero ancora di fuggiaschi e inseguitori. Quando si è bambini, o molto giovani, le idee astratte non catturano l'attenzione, ma scivolano via come l'acqua. Più tardi sono arrivati la lettura, la letteratura, il desiderio di esplorare e scoprire il senso dietro le parole, le immagini, le impressioni ricevute da un testo, un racconto, un romanzo. E le canzoni che scoprivo erano come dovevano essere i romanzi, i racconti, le cose letterarie.

L’incontro vero e proprio è avvenuto nella primavera del 1991 con l'album Per Amore Mio, che doveva intitolarsi Le Donne, i Cavalier, l’Arme, gli Amori.

Che poi è il titolo di un libro di Paolo Jachia del 2001 che fa un po’ il punto di poetica, discografia, liriche, aneddoti, varie ed eventuali.
Da qui è iniziato un viaggio ordinato e sistematico, a caccia di temi e sottotemi, di miti e opere letterarie che prendevano forma di infiniti ritorni, sfumature e incontri ravvicinati con il proprio sé interiore. Da un lato c'era la superficie, l'immagine riflessa, ma anche un significato più profondo, che apparteneva a chi lo trovava.
Si partiva quindi dal disco dedicato a Sancio Panza (Per Amore Mio) per il quale «Niente ha più realtà del sogno», e lo stesso Don Chisciotte, alla fine, si rivelava della stessa consistenza dei Giganti sotto le mentite spoglie di Mulini a Vento. Ma in fondo uno scrittore, un poeta, e il cantautore più di altri, si manifestano sempre sotto le mentite spoglie di qualcun altro.

È stato davvero un viaggio a ritroso, per capire cosa ci fosse stato prima, e cosa sarebbe venuto dopo. Ecco allora la cassetta di Parabola (1971) con Luci a San Siro.

Ecco Saldi di Fine Stagione (1972) con Aiace e La Leggenda di Olaf. Poi è arrivato Il Re Non Si Diverte (1974). Quindi Ipertensione, del 1975, con almeno due canzoni che ancora si sentivano in radio: Irene e Canzone per Laura. E via tutti gli altri, poco alla volta: Elisir del 1976, Calabuig – Stranamore e Altri Incidenti (1978). Montecristo, del 1980, introvabile, è stato ripubblicato in occasione del quarantesimo anniversario nel 2020.

Di album in album, di canzone in canzone, a farla da padrona è il regno dell’immaginazione che rincorre aspirazioni, ma anche metafore, parole per consegnare storie e significati, la ricerca di un senso e del suo stravolgimento.

Tra i numerosi temi ricorrenti, quello del "doppio" ritorna molto spesso, tanto da rivelarsi una costante. Talvolta è evidente, per esempio nel palindromo di Cazonenoznac. In altri casi lo si capisce tra le righe. Ci sono poi Dentro gli Occhi (da Il Grande Sogno, 1984), o Ninni ( da Calabuig - Stranamore 1978), che riprendono le suggestioni di un racconto di Borges contenuto nel Il libro di sabbia. In alcuni brani il riferimento sembra appena un cenno, veloce quanto basta per lasciar spazio ad altro:
E quello che credevi dov'è?
forza inventa qualche scusa
i figli, l'amore, la strada che va
tra i fiori verso casa, non so
eppure io so perché t'ho invitato
a questa cena,
Siamo di fronte adesso io e te
Siamo la stessa persona... Roberto Vecchioni, Ragazzo che parti, ragazzo che vai, Saldi di Fine Stagione (1972)
In Canzonenoznac, invece, si parla di un leader della parte chiara e di un leader della parte scura, quello con la cicatrice e quello con la barba, che si riconoscono e si affrontano allo specchio (come una parola posta davanti a se stessa). Sotto un certo punto di vista, la Alice attraverso lo specchio di Carroll si dimostra più coraggiosa nell'affrontare l'altro lato della realtà (e di sé).

In Pesci nelle orecchie, Vecchioni si rivolge invece al proprio alter ego femminile.

Ragazza mia che invecchi
Lentamente, come Dorian Gray
Ti ho disegnato barba e baffi
Per potermi dire che
Le luci di San Siro sono state solo fatti miei
Dicevo: "Nelle mani quanti sogni ho
Li vuoi contar con me?
Da solo io non so" Roberto Vecchioni, Pesci nelle orecchie, Ipertensione (1975)

Il ricorso a un doppelgänger non è una novità: si va dal Sosia di Dostoevskij, al «Madame Bovary c'est moi» di Gustave Flaubert, segno che un autore è sempre i suoi personaggi, spinto dalla necessità di cambiare pelle, di separarsi e consolidare la propria identità. Tanto che alla fine le varianti non si contano più: l'alter ego diventa La mia ragazza (il mio mestiere), o Milady (la musica, il palcoscenico con le sue luci). Diventa persino Leopardi quando, per la prima volta, «non muore il dì di festa» (L'infinito, 2018).

Nella lunga e prolifica carriera di Roberto Vecchioni, spicca un elemento di particolare rilievo: il suo costante impegno al dialogo, alla condivisione e identificazione profonda.

Non si concentra troppo – se non all’inizio – su solitudini, angosce, le ansie dell'uomo moderno.
Non è un artista che si piange addosso; al massimo esprime un dolore che non prova sul serio (e lo confessa apertamente), finge di avercela con se stesso, o con qualcun altro. Ciò che conta davvero è sempre la ricerca di una qualche forma di simmetria e di reciprocità nelle relazioni umane, soprattutto tra dimensione maschile e femminile. In mancanza di questa corrispondenza, ciascuno si dissocia dall'altro (o dall'altra), rinchiudendosi in una solitudine senza soluzione, o in spazi più angusti, non propri, spesso presi a prestito da altri.
Tante le canzoni che parlano anche di questo, come la già citata Irene, o la dibattuta Voglio una donna (Camper, 1992). Per entrambe il messaggio rivolto alle donne diventa: non cadere nella trappola di uscire da un guscio per rintanarsi in un altro; liberarsi dagli stereotipi di genere che esse stesse utilizzano per giudicare le altre donne. Nulla di diverso, in proposito, emerge dalla lettura di molti romanzi di Dacia Maraini (La lunga vita di Marianna Ucria, La vacanza, L'età del malessere), e sul cui impegno letterario e civile è stato dedicato un apposito studio.




Davide Dotto
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Rileggendo Grandi speranze, di Charles Dickens

Rileggendo Grandi speranze, di Charles Dickens

Rileggendo Grandi speranze, di Charles Dickens

Professione lettore Di Davide Dotto. Grandi speranze di Charles Dickens. Un romanzo in parte autobiografico, uscito a puntate tra il 1860 e il 1861 su All The Year Round, ambientato nella Londra a inizio del XIX secolo.

Può fare un certo effetto leggere oggi Grandi speranze. Uscito a puntate tra il 1860 e il 1861 nella rivista All The Year Round (diretta da Charles Dickens stesso), è ambientato nella Londra a inizio XIX secolo, quella delle prime fabbriche. Vi è molto di autobiografico, a partire dal momento in cui si dipanano gli eventi. Il 1812, quando incontriamo Philip Pirrip detto Pip, è infatti l’anno di nascita dello scrittore inglese.

Dickens proietta tra le pagine ansie, preoccupazioni, non mancano tracce del proprio vissuto e di episodi famigliari drammatici.

Che vivesse un periodo non sereno, lo capiamo dal resoconto che ne fa Peter Ackroyd nella biografia uscita qualche anno fa per Neri Pozza. È proprio a fine estate del 1860 che Dickens «cominciò a pensare a un nuovo libro, come se l’unica cura per la depressione fosse un ritorno al suo mondo immaginario».
Grandi speranze

Grandi speranze

di Charles Dickens
Einaudi
Classici
ISBN 978-8806222109
cartaceo 10,40€
Ebook 2,99

Grandi speranze è un romanzo realista, con un occhio attento alla condizione del proletariato e alla società borghese del tempo.

Si aggiunge una spiccata vocazione narrativa che lo rende un caso unico, di genere e di stile: cosa mai lega la misteriosa Miss Havisham («La più strana signora che abbia mai visto, e che si possa mai vedere») e il benefattore altrettanto misterioso di Pip? Una volta introdottosi nell'ambiente londinese, e pronto a realizzare aspirazioni che vanno oltre ogni dire, che rapporto mantiene Pip con il suo passato?
Di sicuro percepiamo in lui lo shock e le forti emozioni nel conoscere l'identità di chi l'ha riempito di sogni e di denari: Magwitch, il galeotto in catene che ha incontrato al cimitero quando aveva sui sette anni, e che ha sfamato trafugando cibarie dalla povera dispensa di casa. Rivelazione, questa, che non gli consente di rompere il legame con le proprie umili origini: i quattrini che spende e spande da gran signore nella opulenta società londinese derivano dal durissimo lavoro di un forzato in esilio. Difficile (far) digerire una cosa simile.

Per il fatto di occupare un certo posto nel mondo, vigono regole inflessibili: nessuno può seguire le "proprie inclinazioni", prevalgono altri codici, linguaggi, maniere e necessità.

Si lascia alle spalle la “lotta per la sopravvivenza” che si dava per scontato, e alla quale – bambino – ha risposto con l’atto di generosità che ha prodotto la riconoscenza imperitura di un forzato, non compresa fino in fondo.
Non è facile ridurre la distanza creata, o il disagio nei confronti di chi indietro è rimasto davvero, e che può influire sulle “grandi speranze” da concretizzare in una lotta del tutto diversa: quella che fa fruttare occasioni, opportunità e capitale (nuovi capi saldi).
Poi viene il momento che ti si presenta l’occasione favorevole. E tu l’afferri, le piombi addosso, ti fai il tuo capitale, ed eccoti arrivato! Una volta che ti sei fatto il capitale, non devi far altro che investirlo Charles Dickens, Grandi speranze (cap. XXII)
“Sopravvivere” a quel mondo richiede “distanza”, “distacco”, la pressante cura dei propri affari e un cuore di pietra; a queste condizioni diventa impensabile per Pip tornare sui suoi passi e riabbracciare una debolezza, una fragilità e soprattutto una sensibilità mai venute meno del tutto.

Cosa sono le “grandi speranze”? Quando nascono, in chi, e soprattutto in quale contesto? Questa la domanda giusta da porsi.

Pip da bambino dà per scontata la propria condizione, e altrettanto fa la sorella più grande, che l'ha cresciuto a suon di sganassoni, e aggiunge al resto la più rabbiosa delle rassegnazioni.
Oltre a ciò Pip, ricevuta tra le mani una notevole fortuna, la prima delle sue "speranze" è quella di poter essere finalmente "degno" di Estella. Impara a proprie spese però, che non bastano le buone occasioni, se ne possono avere di realistiche o fin troppo fantastiche, e possono andare deluse. Oppure, prima o poi si dovrà saldare un conto assai salato. In ogni caso ciascuno reagisce in modo diverso, secondo la maturità, lo spirito, gli intenti.
Sia Pip che Estella sono quello che qualcun altro ha voluto che fossero: «Io sono quella che mi avete fatto» dirà infatti la ragazza alla madre adottiva. Magwitch invece:
«E questo», disse, muovendomele su e giù mentre tirava boccate di fumo dalla pipa, «e questo è il signore che ho fatto io! Un vero e proprio signore! Mi fa un gran bene guardarti, Pip. Non chiedo altro che stare a guardarti, ragazzo mio!» Charles Dickens, Grandi speranze (cap. XL)

Pip ed Estella sono quasi dei manichini in mano altrui, non sembrano i veri protagonisti della storia. Non appartengono loro le "great expectations".

Da qualunque parte la si guardi, gioca una qualche fatalità, o una serie di cause fuori dalla portata dei protagonisti. Contro di esse si può poco, ma si rivelano fondamentali per giungere a un certo grado di consapevolezza, di sé, degli altri, e del proprio tempo. Per esempio si scopre la vanità di aspirazioni che a lungo andare diventano pretese, quando ci si fa strada a forza sacrificando il resto, fino a far concorrenza al narratore nel giocare con le altrui esistenze (nel bene e nel male), confezionando destini a tavolino.



In fondo Pip ed Estella sono il "prodotto" dell'esperimento sociale dei rispettivi "benefattori" che, nel sottrarli all'indigenza, muovono i principali meccanismi narrativi con alla regia Charles Dickens.

In forza di tale “ipotetico esperimento”, Estella e Pip bevono fino alla fine il calice di “grandi e false speranze”, spegnendo ogni illusione e rendendosi conto della realtà delle cose. Illusioni che sembrano divorare lo spirito, e persino l’amore che Pip manifesta per Estella. In fondo loro dovrebbero essere copie dei loro rispettivi benefattori (un angelo consolatore e un angelo vendicatore di torti).
Con queste premesse, lo spirito viene riposto in un cassetto, e anche la parte romantica è sacrificata a qualcos’altro, e i toni sono cupi, come gli ambienti e i contesti. A parte lo sfondo sociale, realistico, ben tratteggiato, il racconto assume un’alternanza di toni e tinte che tendono a trasbordare, come i colpi di scena che accentuano il carattere grottesco di una storia che – di puntata in puntata e di fascicolo in fascicolo – doveva tenere sulle spine il pubblico dei lettori.


Davide Dotto
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Rileggendo Orgoglio e pregiudizio, di Jane Austen

Rileggendo Orgoglio e pregiudizio, di Jane Austen

Rileggendo Orgoglio e pregiudizio, di Jane Austen

Professione lettore Di Davide Dotto. Rileggendo Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, pubblicato la prima volta nel 1813: «Più conosco il mondo, più ne sono disgustata; e ogni giorno conferma la mia convinzione dell’incoerenza del carattere umano, e della poca fiducia che possiamo riporre in tutto ciò che può apparire merito e intelligenza».

Gran parte della nostra vita, delle cose che si fanno o si apprezzano, si basa su convenzioni, codici comportamentali più o meno consolidati. Essi di epoca in epoca hanno il loro peso, creano certezze e senso di appartenenza. Hanno, insomma, il loro perché.
Come tutto ciò che li riguarda subiscono mutamenti, evoluzioni (e involuzioni); devono mostrare di essere all’altezza (dei tempi), prima ancora di chi vi sottostà: se eccedono nella misura, se se ne affievolisce il senso, si fanno soverchianti.
Ben venga, quindi, chi li passi di volta in volta al setaccio, ne colga il ridicolo e le sfumature. Soprattutto se qualcos'altro li alimenta: per esempio l’orgoglio, la vanità, il pregiudizio, e mille altri sentimenti che costruiscono barriere insormontabili tra persona e persona; oppure la rigidità dello spirito che fa a gara con la intransigenza delle forme.
Orgoglio e pregiudizio

Orgoglio e pregiudizio

di Jane Austen
Newton Compton
Classici
ISBN 978-8881832910
cartaceo 4,66€
Ebook 1,99€
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I codici comportamentali, o “le buone maniere” (non a caso novel of manners è il genere a cui appartiene Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen) fanno da schermo contro insidie di varia natura, e contribuiscono a tenderne di nuove e di altrettanto velenose.

Non se ne può comunque fare a meno quando si occupano di cose troppo importanti: patrimoni, matrimoni, status sociali da preservare o acquisire.
Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen è un romanzo molto complesso, e non solo per la trama articolata, difficile da riassumere e da portare sulla scena.
Vi sono personaggi indimenticabili e controversi: di Mrs. Bennet si dice subito che fosse «una donna di intelligenza mediocre, di poca cultura e di carattere volubile. Quando era scontenta, si immaginava di essere nervosa. Il grande scopo della sua vita era di dar marito alle figlie; le sue uniche distrazioni le visite e i pettegolezzi». Tuttavia è una persona che fa bene i suoi calcoli, o almeno ci prova. Sa che non sono molte le occasioni di incontrarsi (il ballo in proposito è il “social media” dell’epoca) e sposare un buon partito.



Per i Bennet, infatti, è fonte di preoccupazione avere solo figlie femmine: significa che esse non potranno ereditare, né mantenere la proprietà che andrà a un lontano cugino.

Mr. Collins è un ecclesiastico che ha appreso alla perfezione l’arte di guardare dall’alto in basso chicchessia, cifra distintiva e irrinunciabile che si fa tutt’uno con l’indole: «uno sciocco pieno di sé, tronfio e di idee ristrette», cui si aggiunge un’ottusità che non gli consente di cogliere antifone, o di leggere tra le righe.
E anche se Elizabeth, la seconda delle figlie, avrà il suo bel dire per rifiutarne con garbo e determinazione la proposta di matrimonio, assistiamo a un dialogo che è un estenuante loop.
Ciò a dimostrazione che a “buone maniere”, “codici comportamentali”, ritualità del vivere civile, va affiancato dell'altro. Non ci si può accontentare delle “forme”, e Mr. Collins e altri vi indulgono fin troppo.
Non sono molti i personaggi che – in sordina o in primo piano – alimentano un proprio retto sentire, una sensibilità particolare che nel dominio delle forme fatica a farsi valere.

Orgoglio e pregiudizio è il romanzo di chi non si accontenta di complimenti e sorrisi, ma tenta di andare in profondità avvalendosi, però, degli stessi codici comportamentali, delle medesime convenzioni, cioè del linguaggio e della sintassi a disposizione.

Non mancano gli strumenti affinché questo sia possibile: in casa, i libri diventano occasioni e temi di conversazione tutt’altro che banali.
«Che ne direste se parlassimo di libri?»
«Libri? Oh no. Sono sicura che non leggiamo gli stessi, o perlomeno, non con gli stessi sentimenti» Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio – cap. 18
La biblioteca paterna è l'unico modo per consentire alle figlie – o a chi di loro ne abbia l’attitudine e la voglia – di istruirsi.
Non solo. Lo spirito e il senso di dispetto di Mr. Bennet nei confronti dei "nervi" della consorte ce lo rendono simpatico. Non è privo di limiti: tende all’indolenza, salvo qualcosa – un’emergenza – non lo smuova, e non sembra far molto affidamento sulle figlie: «Nessuna di loro vale molto, sono tutte sciocchine e ignoranti; ma Lizzy è un po’ più sveglia delle sue sorelle».

Chi spicca in particolar modo è proprio Elizabeth con la sua indipendenza e argutezza di giudizio.

Orgogliosa non meno di Mr. Darcy, il suo è il punto di vista privilegiato del racconto. È un’attenta “studiosa dei caratteri” e più di qualcuno se ne accorge.
«Posso chiedervi a cosa tendono tutte queste domande?»
«Soltanto a rendermi conto del vostro carattere… Sto cercando di studiarlo»
«E a che punto siete arrivata?» Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio – cap. 18
Elizabeth sceglie con cura le parole da pronunciare, ben consapevole delle regole del gioco, diffidente dello stile fiorito di Mr. Collins, e consapevole delle trappole in cui lei stessa può cadere o è caduta.
Più conosco il mondo, più ne sono disgustata; e ogni giorno conferma la mia convinzione dell’incoerenza del carattere umano, e della poca fiducia che possiamo riporre in tutto ciò che può apparire merito e intelligenza.Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio – cap. 24

E altrettanto fa lo scontroso Darcy, la cui indole è tale da urtare sempre qualcuno, non meno l’orgoglio di Elizabeth.

In un mondo esterno fin troppo pieno di insidie per non cercare di difendersene a spada tratta, a poco a poco si fa strada tra loro un’accesa schermaglia: le anime candide rischiano di corrompersi anche per eccessiva virtù, o – dietro i reciproci pregiudizi – di non comprendersi affatto.
Le convenzioni giocano un ruolo più o meno marcato secondo i momenti. Non è la stessa cosa vivere nelle campagne inglesi di fine Settecento o inizio Ottocento. L’età vittoriana sarà molto più rigida e severa, mentre ora prevale una forma di “ipocrisia gentile” intesa a proteggere, creare sicurezza e opportunità, mantenere uno status o acquisire una posizione.

Scritto cinquant’anni dopo, in epoca vittoriana Orgoglio e pregiudizio sarebbe diventato molto probabilmente qualcosa di simile a Il mulino sulla Floss di George Eliot (pseudonimo della scrittrice Mary Anne Evans) votandosi a un epilogo tragico.

Ma per il momento, nel 1813 – anno di pubblicazione del romanzo di Jane Austen – vi è un altro contesto. L'Europa, dopo Rivoluzione Francese e imprese napoleoniche, sta per entrare nella Restaurazione. L'Inghilterra la sua rivoluzione (la seconda per essere precisi) l'ha avuta almeno un secolo prima (1688): ora i nuovi ricchi si stanno facendo strada, ma non c'è alcun ordine da sovvertire. L'industrializzazione è agli inizi, non ha ancora raggiunto le campagne e le industrial novel di Dickens sono di là da venire.


Davide Dotto
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Rileggendo I demòni di Fëdor Dostoevskij

Rileggendo I demòni di Fëdor Dostoevskij

Rileggendo I demòni di Fëdor Dostoevskij

Professione lettore Di Davide Dotto. Rileggendo I demòni di Fëdor Dostoevskij, pubblicato per la prima volta nel 1873. Un vortice di emozioni e parole, un'estenuante voglia di discutere, di parlare, di far valere ragioni che durano quanto l’illuminazione improvvisa da cui scaturiscono.

È uscito da poco, per Donzelli editore, Il demone di Dostoevskij di Julia Kristeva. Ampio è lo sguardo dedicato allo scrittore russo per eccellenza, una disamina approfondita e immaginifica di tutta la sua opera, e da tenere a mente nel corso della lettura di un romanzo complesso, rappresentativo del suo tempo e della sua scrittura: I demòni.
Nell'esame di Julia Kristeva, Dostoevskij appare subito come un sopravvissuto, e non solo per la condanna a morte commutata, all’ultimo momento, ai lavori forzati per «aver tentato di diffondere tramite una tipografia privata opere antigovernative».
In ciò vi è più di qualche affinità con Ivan Pavlovič Šatov, un personaggio dei Demoni la cui vicenda è tratta da una notizia di cronaca, e ha ispirato poi l'intero romanzo.

Non è estranea al racconto un’ansia di sopravvivenza e di distruzione che coinvolge un po' tutti.

Ogni momento esige una estenuante lotta per la propria salvezza o giustificazione: quella sociale, materiale (il denaro è da sempre un’ossessione), spirituale, persino a costo del proprio annientamento, sempre che non intervenga una circostanza eccezionale, una coincidenza, un miracolo a riportare tutto, ancora per un po', in carreggiata.
Moltissimi i nervi scoperti, ma anche i punti fermi di cui disperatamente si va in cerca, precari assoluti, superficiali e scandalosi. Nel senso che forse tutto è permesso, ma se tutto è permesso, tutto è necessario; se tutto è necessario, anche il male lo è.
Da ciò discende il culto della sofferenza e del mostruoso e, come suggerisce il libro di Julia Kristeva, un tutt'uno con il culto della propria personale tragedia.
La terribile contraddizione sfiora tanto il sublime quanto il più atroce dei delitti, e il sondarne il terreno significa passare da un’idea tremenda a un’altra, ancora più tremenda e obbrobriosa.
È uno scavare dentro gli abissi del proprio animo (ma anche e soprattutto nella società del proprio tempo). Il fine ultimo è pervenire a una consapevolezza nuova, ma il risultato non è assicurato.
I demoni

I demoni

di Fëdor Dostoevskij
Einaudi
Narrativa
ISBN 978-8806219413
Cartaceo 14,25€
Ebook 2,99€

Ne I Demoni in particolare vi è un crescendo nella ricerca ossessiva di idee, via via personificate, abbracciate da un ego che cerca in esse la propria identità, il proprio trionfo, anche sullo spirito.

È il caso di Pëtr Stepanovič Verchovenskij, Nicolàj Stavrogin, vere eminenze grigie del romanzo, o come in Kirillov.
In ogni caso, ciò che si proclama sono la distruzione, idee che legano gli uni e gli altri nel delitto con l'intento di mettere ogni cosa a soqquadro: «Faremo una sommossa tale che tutto crollerà dalle fondamenta».
Il lettore è travolto da un vortice di emozioni e parole. Estenuante è la voglia di discutere, di parlare, di far valere ragioni che durano quanto l’illuminazione improvvisa da cui scaturiscono.

È l’ansia di raccontare ma anche di nutrire i propri demòni, affinché si manifestino una volta per tutte.

A loro appartiene (e a loro soltanto) la verità terribile e mostruosa intuita (che tutto è permesso, tutto è necessario e che anche il male lo è). Probabilmente è questo il dèmone che ha consentito a Dostoevskij di riconoscere i demòni (o gli indemoniati, altro titolo con il quale il romanzo è conosciuto) che attanagliano la sua e la nostra epoca.
Questa voglia di narrare e di parlare è tale da fare uscire allo scoperto il narratore che con pesanti ingerenze diviene personaggio e parte in causa (amico e ombra di Stepan Trofimovic): non vince la tentazione di prendere posizione attiva e di “duettare” con i suoi personaggi.

Non è che vi siano molte alternative nel voler abbracciare la totalità dello spirito e le sue sintesi più indigeste. Perché le storie di Dostoevskij dicono molto, persino troppo.

Tuttavia è di sicuro fascino la polifonia di anime, quella del narratore è una coscienza talmente espansa da travolgere con nonchalance i nostri ormai consolidati canoni narratologici, fino a proiettarsi su tutti i personaggi (o traendoli da se stesso). In parte, è persino Kirillov nello strappare alla morte qualcosa, forse una teologia negativa in grado di volgersi nel suo contrario.
Affinché ciò sia possibile, un po’ come Dante, non può che inoltrarsi negli abissi più profondi, setacciare il sottosuolo. Prima di elevarsi il percorso da intraprendere è questo, e contempla di correre ogni rischio possibile. Assomiglia molto a una condanna a morte in procinto di essere eseguita, e commutata all’ultimo momento. Non vi sono altre vie per giungere a qualche forma di liberazione, o al proprio annientamento definitivo.
Nulla, in questi termini, è scontato, nemmeno il discrimine tra salute e malattia, specie dello spirito, quando sono le idee a far da padrone: (ecco i demòni che orientano desideri, azioni, soluzioni a problemi via via più pressanti, e il dèmone in grado di riconoscerli e denunciarli).

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Il problema è che l’uomo dostoevskijano non ha bisogno di perdersi nella selva oscura, o di discenderne. Vi si trova già, conosce la propria condizione e vi si aggrappa con tutto se stesso.

Se Dante immagina di raggiungere il Purgatorio e quindi il Paradiso, si ha l’impressione che Dostoevskij mandi altri in avanscoperta, lui non intraprende alcun viaggio, nonostante l’ansia di sopravvivere, o la pretesa di salvare e di essere salvati.
Se inizia una nuova vita, è solo perché arreda in modo diverso la propria prigione, la riempie di ragioni nuove, o scava un’altra strada tra le ombre del suo sottosuolo.
Chi non intraprende questo percorso manca di qualche cosa, è un idiota, uno spiantato privo di esperienza. Persino le illuminazioni, le intuizioni più feconde devono essere sperimentate sul campo, e non basta il gran parlare, il gran riflettere, non è sufficiente il verbo, né basta essere testimone (e spettegolare su) delle cadute altrui. Ma anche queste (“illuminazioni”), quando vi sono e permettono di veder chiaro, durano pochi secondi, oltre i quali “l’anima non lo sopporterebbe, e dovrebbe sparire” (così si esprime Kirillov stesso).

Tutto questo produce una scrittura che non può essere replicata impunemente da chiunque.

Sul piatto non vi è un generico scontro tra bene e male. Si entra dentro le anime più nere, i crimini più vergognosi e obbrobriosi che contaminano per il solo fatto di essere concepiti. Ma anche dentro se stessi, quando Dostoevskij si scava dentro come e più degli altri, e abbraccia le proprie colpe (non le scusa) e con esse la propria disperazione. Impara, con Dmitrij Karamazov, che non vi è un miglior antidoto che questo.
Da un certo punto di vista prendiamo cognizione del “male assoluto”, il principio di massimo disordine oltre il quale non c’è nulla.
Nel “crescendo” del romanzo si va a poco a poco oltre ogni ordinaria e fisiologica contraddizione. Ci si dimentica presto delle mancanze più o meno serie ma di poco conto di uno Stepan Trofimovic, degli alterchi tra lui e Varvara Petrovna, di chi non vuol sentire ragioni ed evita di compromettersi, o si rinchiude nel proprio spavento.

A colpire a fondo sono la follia vera, l’impulso più sfrenato di una cellula impazzita (così appare Nicolaj Stavroghin), la mancanza di una plausibile spiegazione.

Ditemi cos’è che vi spinge a gesti così strani, a gesti che esulano da tutte le convenienze e da tutti i limiti comunemente accettati? Che vogliono dire simili sgarbi, che sembrano commessi nel delirio? Fëdor Dostoevskij, I demoni – I parte cap. 2 par. 3
Se non si è un Mefistofele, nemmeno un patentato nichilista può reggere senza contemplare il proprio annientamento.
Arriva pur sempre la resa dei conti, quando non si può più mutare avviso, né direzione, dato che si è giunti al punto di massimo disordine. L’individuo allora, che non può più nulla, ha una sola e unica illuminazione, quella di essersi fatto abbindolare e di aver abitato senza soluzione di continuità null’altro che il sottosuolo, a un passo dalla propria distruzione, nelle profondità più recondite e inesplorate di se stesso.

Davide Dotto
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