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Le recensioni di Davide Dotto
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Recensione: Chiudo la porta e urlo, di Paolo Nori

Recensione: Chiudo la porta e urlo, di Paolo Nori

Recensione: Chiudo la porta e urlo, di Paolo Nori

Libri Recensione di Davide Dotto. Chiudo la porta e urlo di Paolo Nori (Mondadori). Dalla parola scritta alla parola recitata: il monologo come strumento di narrazione. Attraverso la biografia e la critica letteraria, l'autore intreccia la propria esperienza personale con le vite e le opere degli autori di cui scrive, offrendo una prospettiva particolare.

I libri di Paolo Nori sono monologhi per il teatro, vanno letti così, recitati. È la stessa punteggiatura a dirlo, costruita per segnare le pause del parlato più che l’organizzazione sintattica e del periodo. Un esempio evidente di questo stile è il libro "Sanguina ancora", dedicato a Delitto e Castigo di Dostoeskij e pubblicato nel 2021. Chiunque abbia letto questo libro avrà notato come la punteggiatura guidi il ritmo della lettura.

Leggi anche Davide Dotto | Recensione: Sanguina ancora, di Paolo Nori

Tra oralità e scrittura prevale il racconto di un aedo o di un trovatore.

Il ritmo è cadenzato, simile a una recita che aiuta la memoria e richiama immagini, grazie all'uso di figure retoriche. Potrebbe avere un significato rituale, alla fine, il ricorso all’anafora, all’epifora. E a quel particolare effetto di accumulare, di trattenere cose, pensieri, dissonanze e consonanze prima che sfuggano.

Il suo modo di scrivere, così diverso dalle consuetudini letterarie, rappresenta già una piccola rivoluzione.

Un modo per sottrarsi alle regole linguistiche più rigide, dando l’illusione di un’improvvisazione spontanea. Poi arriva il tema, di colpo, “senza preavviso”, e il tutto funziona molto bene sulla pagina scritta che, a riguardo, è un ottimo registratore.
Per comprendere appieno questo stile, è utile leggere più opere di Nori, poiché esse sono interconnesse attraverso richiami reciproci e rimandi tematici. Esprime l’arte sui generis di conquistare una dimensione – non solo narrativa – totalmente altra, fatta di rimandi, coincidenze preavvertite.

La scrittura stessa è un dialogo multiforme tra dimensioni.

Fa a meno di un canone consolidato, viste forse come velleità di cui fare a meno, e che richiedono un apposito talento. Non è facile quello che riesce a Paolo Nori: trasportare da una sfera all’altra qualcosa che è connaturato in un altrove, per esempio “far diventare la mia passione, la letteratura, il mio mestiere». E qui emergono tracce di profondi legami, a partire da Dostoevskij e dalla sua disperazione, a sondare i segreti di un’anima che non è poi così lontana dalla propria. Simili affinità le ha trovate entrando e uscendo dalla vita di Anna Achmatova.


Il racconto autobiografico di Paolo Nori si inserisce in quello dei suoi autori come un insieme di note a margine.

Note che contribuiscono a creare un discorso più ampio e a rivelare una certa unità. Un procedimento simile, seppur con un diverso respiro stilistico, lo ritroviamo in Emanuele Trevi, che nei suoi libri stabilisce un ponte tra il proprio vissuto e quello di figure letterarie: in Qualcosa di scritto con Pier Paolo Pasolini e Laura Betti, in Due vite con Pia Pera e Rocco Carbone, o in La casa del mago con il padre Mario Trevi, noto psicanalista.
La letteratura qui diventa un campo di risonanze e rimandi, dove il confine tra autobiografia e critica si dissolve, e l’atto dello scrivere si trasforma in un’esperienza di immersione nella vita degli altri.

Attraverso la biografia e la critica letteraria, Paolo Nori intreccia la propria esperienza personale con le vite e le opere degli autori di cui scrive, offrendo una prospettiva particolare.

Ma in questa immersione si va oltre la letteratura: non si parla più soltanto di parole e pagine scritte, ma di anime, di direzioni da prendere, di come stare al mondo.
Ci sono famiglie, luoghi, storie, connessioni con il presente e con il passato, ed è un continuo interrogarsi su come si possa abitare l’esistenza. Non c’è la pretesa di trovare un senso, né di rivelare una verità ultima, ma solo il bisogno di cercare, di ascoltare, di entrare dentro le cose. L’incontro di questo libro è con il poeta Raffaello Baldini. Il suo ritratto è costruito a pennellate decise e impressionistiche.

L’immagine che ne ricaviamo è quasi una fotografia.

È un poeta che scrive nel “bel dialetto di Sant’Arcangelo di Romagna” e “traduce a piè pagina in bell’italiano i suoi versi” e introduce inoltre la questione della lingua, molto più comune di quanto si creda. Ci sono senz’altro confini comunali, provinciali, regionali, insieme ad arrivi, partenze, ritorni. Ci sono le Langhe di Pavese che assurgono a più di un suggerimento, e che potrebbero essere la Catania di Giovanni Verga come la Malo di Luigi Meneghelli, le borgate romane di Pasolini. E per Paolo Nori c'è Parma.
L'elenco diventa lunghissimo e inesauribile. È una sorta di freno, un invito a fermarsi per raccogliere qualcosa di sé, una radice, una provenienza che si apre all'universo. Ecco che Parma incontra la Russia, Catania unisce il proprio destino a Firenze e Milano (Verga), le Langhe si collegano agli Stati Uniti (Pavese, la letteratura americana, le sue traduzioni). 
Ho cominciato a leggere i miei racconti ad alta voce, e è successo che naturalmente, io, sapendo che poi li avrei dovuti leggere ad alta voce, avevo cominciato a scriverli un po’ come se fossero parlati, in un certo senso, e all’improvviso quel triangolo di cui parlavo prima, io, computer, e cielo della letteratura, cioè io, computer e crusca e cruscanti, era diventato un triangolo con un vertice infinito , cioè era diventato un triangolo io computer mondo, e improvvisamente le cose da scrivere mi venivano su da tutte le parti… Paolo Nori, Chiudo la porta e urlo

Il contrasto che si evidenzia fa sì che mentre Raffaello Baldini scrive in dialetto romagnolo e fornisce traduzioni in italiano, Paolo Nori adotta un approccio del tutto diverso ma coerente: crea una sua voce distintiva infrangendo le strutture letterarie convenzionali.

Questo rimanda a una questione più ampia nella letteratura italiana su come gli scrittori possano catturare un'espressione autentica. C'è scoperta ma non imitazione, c'è condivisione ma nessuna angoscia dell'influenza. Giovanni Verga fa in fondo la medesima cosa a sua volta, pur in una modalità speculare e contraria: invece di parlare direttamente in siciliano, cercava di creare un italiano standardizzato.
Il suo obiettivo era trasmettere l'essenza della vita e dei modelli di pensiero siciliani. E a sua volta Manzoni con il suo sciacquare i panni in Arno perseguiva un obiettivo simile. E di sicuro "il buon italiano" di Baldini doveva molto a questo insieme di esperimenti e predecessori.

Alla fine, Chiudo la porta e urlo si fa scuola di scrittura oltre che di lettura, perché – nella questione della lingua – ci vuole qualcosa che vada oltre la lingua stessa.

È un tipo di scrittura che non si limita a raccontare, ma crea connessioni, stabilisce legami tra storie e vissuto personale. Un'operazione che, con una diversa sensibilità – come si è visto – troviamo anche nei libri di Emanuele Trevi, che costruisce il proprio discorso letterario intrecciando la sua biografia con le vite di scrittori e artisti: da Pasolini a Pia Pera, fino alla figura del padre Mario Trevi in La casa del mago. In entrambi i casi, il libro non è solo narrazione, ma diventa un luogo di incontro, un atto di ascolto.
E questo è detto nero su bianco: «Ci son dei libri che son scritti così bene, in italiano italiano, damaschi ebani fiori tappeti e bronzi, che è come se non si vedesse niente».
Quando succede "il contrario" è un evento. Ecco la lezione: è una dimensione che non cerca definizioni o verità assolute, ma connessioni tra storie, tra vite, tra direzioni possibili. Scrivere, per Nori e per chi si riconosce in questa tensione, non è solo narrare, ma provare a orientarsi nel caos dell’esistenza, con il linguaggio come bussola e non come punto di arrivo.



Chiudo la porta e urlo

di Paolo Nori
Mondadori
Narrativa biografica | Critica letteraria
ISBN: 978-8804783299
Cartaceo 18,05€
Ebook 9,99€
Ascolta l'audiolibro

Quarta

Raffaello Baldini è un poeta grandissimo eppure pochi sanno chi è, e di quei pochi pochissimi ne hanno riconosciuto la voce. Perché scrive nel bel dialetto di Sant'Arcangelo di Romagna? Ma no. Paolo Nori ci rammenta che è poeta enorme anche nel bell'italiano con cui il poeta ha sempre tradotto a pie' di pagina i suoi versi. E quante storie si trascinano appresso quei versi, quante immagini suscitano, quanti personaggi, quanto universo c'è in quel mondo apparentemente piccolo. Come sua consuetudine, Paolo Nori attraversa l'avventura poetica di Baldini quasi come non ci fosse altro intorno, di sé facendo il filtro di una bellezza che viene su come da un fontanile e fa paura, perché ci lascia straniti. Ecco che - non diversamente da quanto è accaduto con Dostoevskji e Achmatova - l'immaginazione di Baldini si scioglie dentro quella di Nori, fatta com'è di caratteri e di accadimenti apparentemente minimi: i morti che "non dicono niente e sanno tutto", gli uomini che invece di calarsi gli anni se li crescono, lo stare lì di una donna davanti alla circonvallazione per guardare "che passa il mondo". Fra spinte e controspinte, fra il "cominciamo pure" e il "continuiamo pure" che ricorrono a battere il ritmo, impariamo che, sempre più, la scrittura di Nori è la messa a fuoco progressiva di un carattere, il suo: il suo essere "coglione", il suo essere "bastiancontrario", il suo essere "matto come un russo", il suo essere innamorato di un poeta come Raffaello Baldini, il suo magone davanti alla casa dei Nori come fosse una scatola di bottoni, il suo stare a vedere la vita come va avanti a ogni svolto imprevisto dello stare al mondo.


Davide Dotto
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Recensione: La vita contro, di Rita Ragonese

Recensione: La vita contro, di Rita Ragonese

Recensione: La vita contro, di Rita Ragonese

Libri Recensione di Davide Dotto. La vita contro di Rita Ragonese (Fazi Editore). Due anime ferite scivolano tra le crepe della realtà, dove ogni porta si apre solo per richiudersi con un tonfo alle spalle.

La vita contro, di Rita Ragonese, racconta la storia di due anime ferite che il destino fa incrociare nella periferia di Mestre. Sullo sfondo, il CEP – un controverso esperimento di edilizia popolare affacciato sulla laguna veneziana – fa da scenario a questo incontro improbabile, con le sue case popolari che racchiudono storie di precarietà e tentativi di riscatto.
Umberto è un macellaio vicino alla pensione, tormentato dal peso di una tragedia e lasciato solo a combattere i propri demoni. Angela è una ragazza appena uscita dal carcere e si trova davanti a un muro: consultori, aule di tribunale, la separazione dal figlio Martin. Nel cercare di rimettere insieme i pezzi della sua vita, si dibatte tra l'urgenza di restare fedele a sé stessa e la necessità di scendere a patti con un ambiente poco incline a concedere seconde possibilità.

Nel loro avvicinarsi cauto e quasi casuale, Umberto e Angela cercano soprattutto di spostarsi da un punto morto, di uscire da un loop esasperante.

Non sono grandi gesti o nobili intenti a muoverli, ma tecniche disperate di sopravvivenza, rituali quotidiani per restare a galla. I loro dialoghi, inizialmente schematici e ridotti all'essenziale, rivelano un'umanità che si manifesta nei gesti minimi, nell'approccio dannatamente pratico di chi sa che la comprensione non basta, che servono soluzioni concrete.


La storia che ne scaturisce non ha nulla di scontato, è un lancio di dadi da cui può accadere qualsiasi cosa, anche niente.

La prosa cruda e asciutta riflette questo vuoto di certezze, restituendo lo sguardo disincantato di chi non vede altro che un presente indeclinabile, in cui tutti i giochi sono fatti e ogni porta si è aperta solo per richiudersi con un tonfo alle spalle.
È una palestra esistenziale non cercata, dove la consapevolezza coincide paradossalmente con un profondo senso di estraneità. Come suggerisce Angela al padre, rigido nelle sue certezze morali.
Sembrava facile, vero Pater? Come una partita a dama: sposta, scavalca, occupa. Vinci. Ma poi la realtà ha giocato una tattica inimmaginabile. Rita Ragonese, La vita contro

Forse solo gli angeli caduti si accorgono delle proprie ali, tutto dipende da che parte si guarda: dall'alto oppure dal basso.

Il quadro che viene dipinto mette a nudo pregiudizi, convenzioni sociali, aspettative tradite. Non è scontato e non è da tutti trovare una via di guarigione, di certo non prima di aver scavato a fondo ed essersi addentrati nei sentieri più tortuosi e dolorosi.


La vita contro

di Rita Ragonese
Fazi Editore
Narrativa
ISBN: 979-1259676030
Cartaceo 17,10€
Ebook 9,99€

Quarta

Umberto e Angela si incontrano. Lui alla soglia della pensione, alcolista, cresciuto al CEP – esperimento di aggregato popolare affacciato sulla laguna di Venezia – e lei poco più che ventenne, appena uscita dal carcere della Giudecca, proveniente da una rispettata famiglia ottusamente cattolica, la cui infanzia è stata scandita dalle ossessioni di un padre bigotto...Quando si incontrano per la prima volta, Umberto è il serio, scorbutico e apprezzato macellaio di un supermercato di Mestre che porta sulle spalle il peso di una terribile tragedia accaduta vent’anni prima. Abbandonato dalla moglie e dal figlio, trascina la sua esistenza in solitudine. Angela, ospite di una comunità, arriva al reparto macelleria come stagista, grazie al progetto di recupero proposto dai servizi sociali, al solo fine di ottenere l’affido di Martin, il figlio avuto da Florian, che durante la sua detenzione era stato affidato ai nonni. L’errore di Angela è stato quello di aver ingenuamente creduto alla lealtà del giovanissimo padre del bambino, finendo invischiata, invece, in una serie di attività criminali. Umberto e Angela, dopo un primo momento di collisione, iniziano ad avvicinarsi. Senza volerlo, senza sapere di esserne capaci, finiranno per proteggersi a vicenda, accompagnati dalla lenta scoperta della bellezza, sino all’inaspettato finale. Con una voce calibrata, emozionante, autentica, l'autrice ci racconta una storia di dolore e riscatto con due protagonisti diversissimi che saranno capaci, tuttavia, di dare vita a un'amicizia virtuosa imperniata sulla solidarietà e il sostegno reciproco.


Davide Dotto
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Recensione: L'invenzione del bene e del male, di Hanno Sauer

Recensione: L'invenzione del bene e del male, di Hanno Sauer

Recensione: L'invenzione del bene e del male, di Hanno Sauer

Libri Recensione di Davide Dotto. L'invenzione del bene e del male di Hanno Sauer (Laterza). La morale non è qualcosa di innato quanto piuttosto il prodotto dell'evoluzione umana: il bene e il male attengono alla capacità e alle probabilità del singolo di sopravvivere: le quali aumentano se si appartiene a un gruppo.

L'invenzione del bene e del male di Hanno Sauer offre notevoli spunti di riflessione su un problema filosofico e storico di enorme importanza. Il titolo  richiama alla memoria la Genealogia della morale, ma mentre Nietzsche si concentra su una critica dei valori morali attraverso un'analisi storica e psicologica, Sauer espande il discorso in una trattazione antropologica di largo respiro, proponendo una chiave di lettura del nostro presente.

L'idea di fondo è che la morale non sia qualcosa di innato quanto piuttosto il prodotto dell'evoluzione umana.

L'argomentazione è rilevante in un contesto di dibattiti accesi e polarizzazioni estreme, dato che ci consente di ripensare le fondamenta dei nostri valori etico-sociali.
L'approccio adottato è interdisciplinare: attinge da filosofia, psicologia e neuroscienze, offrendo una visione sfaccettata e a tratti non convenzionale.
L'autore ci porta in un viaggio che va molto indietro nel tempo, non solo di secoli, ma di decine, se non centinaia di millenni, decisamente prima di qualunque testimonianza scritta.

L'invenzione del bene e del male di Hanno Sauer illustra come si sia fatta strada la cooperazione primitiva fino alle più complesse esperienze e istituzioni sociali.

Questa prospettiva ricostruisce le premesse remote dell’epoca moderna, che copre gli ultimi cinquecento anni. Un simile arco temporale ci impedisce di vedere la morale solo come un prodotto del pensiero umano, anche se dialettico. È qualcosa che affonda le sue radici prima dell'invenzione del linguaggio e delle prime comunità politiche. Il bene e il male attengono alla capacità e alle probabilità del singolo di sopravvivere: le quali aumentano se si appartiene a un gruppo. Inoltre, si aggiungono le prime tensioni tra individuo e comunità, l'autentico motore che ha guidato la maturazione dei nostri codici etici.



La sopravvivenza è l'autentico punto cruciale della distinzione tra bene e male.

Ogni riflessione morale si è evoluta come strategia per consentire al singolo di sopravvivere, se non da solo, grazie (e a volte nonostante) al gruppo. Il fenomeno da cui è originata la nostra civiltà (e la nostra cultura) è una sorta di autodomesticazione che ha reso il genere umano geneticamente predisposto alla cooperazione.
La dinamica che ne è scaturita comprende:
  • La sopravvivenza del singolo attraverso la comunità.
  • La sopravvivenza della comunità che a certe condizioni può non escludere il sacrificio del singolo.
Nulla di diverso da una antica tragedia che ci racconta da venticinque secoli di come la società umana cerchi costantemente di bilanciare le esigenze del singolo con quelle della collettività: quella di Antigone.

Si può parlare di invenzione del bene e del male nella misura in cui l'idea della morale si presenta come una nicchia ecologica, di fatto una tecnologia – al pari del linguaggio – al servizio della nostra evoluzione cui si aggiunge il resto.

Non possiamo fare a meno di un apporto tecnologico sempre più invadente e consistente, poiché siamo diventati fisicamente più fragili, ma più forti grazie a un sapere condiviso trasmesso non geneticamente, ma socialmente, attraverso biblioteche, archivi, e altre forme di conservazione della conoscenza.

L'invenzione del bene e del male di Hanno Sauer si spinge fino alle sfide etiche del nostro presente, incluso l'emergere dell'Intelligenza Artificiale.

Non si può nascondere che delegare a strumenti automatizzati la raccolta e l'elaborazione di informazioni la cui mole è divenuta spropositata e complessa sollevi nuove questioni.
Ci viene anche il sospetto che il nostro destino non si sia giocato negli ultimi due-trecento anni (dalla Rivoluzione industriale in poi), e che non ci stiamo affatto avvicinando al baratro. Semplicemente ci siamo sempre mossi intorno a esso senza mai cadervi. E continueremo a non caderci fintanto che faremo fronte alle tensioni costanti, portandoci al passo successivo, in un processo che prevede il continuo adattamento (anche in termini di rinegoziazione) delle nostre basi morali.


L'invenzione del bene e del male

di Hanno Sauer Laterza Saggio
ISBN: 978-8858152003
Cartaceo € 22,80
Ebook € 14,99

Quarta

La morale esiste da molto prima che si parlasse di Dio, di religione o filosofia. La sua storia è, anzitutto, il frutto di un processo di selezione naturale. Questo libro risale allora fino agli albori dell'umanità: nelle foreste dell'Africa orientale che, 5 milioni di anni fa, diradano per effetto dei cambiamenti climatici. Tra gli ominidi che scendono dagli alberi ci sono anche i nostri antenati, che si adattano agli spazi aperti organizzandosi in gruppi estesi. È sotto la pressione di fattori ambientali che la moralità emerge come fondamento di una cooperazione tanto precaria quanto essenziale alla sopravvivenza della specie. Hanno Sauer offre al lettore una 'genealogia' della morale che si muove tra paleontologia e genetica, psicologia e scienze cognitive, filosofia ed evoluzionismo. Le tappe di questo percorso marcano le principali trasformazioni morali nella storia dell'umanità, arrivando fino ai giorni nostri. La crisi morale del presente, ci insegna Sauer, è il risultato di secoli, millenni, milioni di anni di stratificazioni. Ripercorrerne lo sviluppo è l'unico modo per costruire un futuro insieme.


Davide Dotto

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Recensione: La crisi della narrazione, di Byung-Chul Han

Recensione: La crisi della narrazione, di Byung-Chul Han

Recensione: La crisi della narrazione, di Byung-Chul Han

Libri Recensione di Davide Dotto. La crisi della narrazione di Byung-Chul Han (Einaudi). Il crepuscolo delle grandi narrazioni: come l'era digitale sta cambiando le nostre storie.

Il filosofo coreano Byung-Chul Han affronta il tema della crisi della narrazione, un fenomeno che pervade la società contemporanea e affonda le sue radici nel passato. I tentativi di svelare le regole sottostanti alle storie hanno contribuito a svuotare progressivamente la narrazione stessa. Dennis Yi Tenen, nel suo saggio Teoria letteraria per robot (Bollati Boringhieri), illustra bene questo processo.


In altre parole, l'attenzione si è spostata dalla sostanza alla forma, concentrandosi più sulle "regole di composizione".

Esiste il rischio concreto che l'opera narrativa venga ridotta a un mero prodotto di mercato, privo di quel "senso di verità" che è sempre stato il cuore dei grandi romanzi europei o delle tragedie greche. La velocità, la connettività costante e la frammentazione che caratterizzano l'era digitale, insieme al "cliccare e scorrere" che «non sono gesti narrativi», hanno sostituito lo sfogliare delle pagine, rendendo difficile l'immersione nelle storie, che vengono così rapidamente dimenticate.
I nuovi media, tra pagine web e touch screen, hanno accentuato un fenomeno non del tutto nuovo: il passaggio dal "racconto" all'"informazione", dall'esperienza narrativa al puro dato e alla spiegazione superficiale. Questo processo porta a un certo distacco dal passato e dal futuro, con un presente accartocciato su sé stesso che perde «il proprio ancoraggio temporale». Le pagine web richiedono una soglia di attenzione ridotta e sono strutturate come una piramide rovesciata, dove le informazioni più importanti sono inserite all'inizio, eliminando la necessità di leggere il testo dall'inizio alla fine. Non c'è tempo di cercare l'informazione principale, che deve giungere a colpo d'occhio, tra le prime righe, riassunto del riassunto, tra titoletti, grassetti e corsivi. Si perde così il contatto con la verità intrinseca della narrazione, sostituita da storie costruite per intrattenere un pubblico distratto e solitario.

Il problema è aggravato dalla crescente dipendenza dalle tecnologie digitali, che favoriscono una fruizione inadeguata dei contenuti, compromettendo la capacità di concentrazione e di riflessione.

Nel momento in cui tutto ciò che è stato vissuto è presente e non vi è alcun intervallo di separazione con il presente, il che significa: nel momento in cui ogni esperienza vissuta è immediatamente accessibile, il ricordo svanisce. Byung-Chul Han, La crisi della narrazione.
Senza narrazioni che diano senso alla propria esistenza, si rischia di smarrirne il filo, consegnandosi a una memoria a portata di mano ma inconsistente.
Il sovraccarico informativo è ben rappresentato da Ireneo Funes, protagonista di un famoso racconto di Borges. Funes ricorda ogni dettaglio della sua vita, i sogni, senza dimenticare nulla. Sembra un dono, ma non lo è: l'incapacità di dimenticare gli impedisce di dare coerenza alla sua esperienza, poiché la sua mente è sommersa da un'infinità di dettagli che frammentano il suo mondo. La sua vita diventa impossibile da raccontare, non essendo in grado di selezionare ciò che ha davvero significato. Anzi, l'atto stesso di raccontare e di ricordare si accumula insieme al resto, in un pozzo senza fondo.

Nonostante la crisi della narrazione di cui parla Byung-Chul Han, si osservano fenomeni che sembrano contraddirla, come l'aumento della produzione di romanzi e l'emergere dell'autofiction.

Essi possono essere interpretati come una risposta a un bisogno profondo, quasi inespresso, di narrazione, un tentativo di "aprire una porta chiusa", senza la pretesa di dover per forza arrivare al pubblico. Il desiderio di raccontare e raccontarsi è intrinseco all'essere umano e, sebbene in certi casi si manifesti in forme che alimentano l'ego più che rispondere a una reale necessità esistenziale, esso rimane vitale. È come se, di fronte alla frammentazione e alla superficialità imposte dalla cultura digitale, l'individuo sentisse comunque l'urgenza di recuperare una connessione con se stesso e con il proprio passato.
Sul punto, è utile considerare le riflessioni di Duccio Demetrio nel volume Perché amiamo scrivere, in cui esplora la scrittura terapeutica: non solo un modo per esprimersi, ma un mezzo per dare forma e significato alle proprie esperienze.

Anche se talvolta ci si può accontentare di "surrogati" narrativi, l'intima necessità di raccontare e di essere ascoltati persistono, riaffermando l'importanza della narrazione nella costruzione di un'identità personale e collettiva.

Possiamo perciò riflettere su ciò che diventa una risorsa vitale in un'epoca dove la narrazione e il senso profondo delle esperienze sembrano smarrirsi. Si tratta insomma della capacità non solo di ricordare, ma di dare significato agli eventi vissuti, un processo che è intrinsecamente legato alla narrazione personale. La memoria individuale, in quanto viva e soggettiva, diventa il mezzo attraverso cui ritrovare quella profondità esistenziale che spesso viene sacrificata.


La crisi della narrazione

di Byung-Chul Han
Einaudi
Saggio
ISBN: 978-8806260897
Cartaceo 12,35€
Ebook 7,99€

Quarta

Sono il tessuto connettivo delle nostre comunità e donano senso al mondo. Ma nella società contemporanea, le narrazioni risultano effimere e inefficaci. La loro onnipresenza non è che un sintomo, e un segnale d'allarme. Le narrazioni sono in crisi da tempo. Da bussole capaci di dare senso all'esistenza collettiva sono ormai diventate una merce come tutte le altre. Ridotte ad ancelle del capitalismo, si trasformano in storytelling e lo storytelling, ormai ubiquo, scade nella pubblicità, nel consumo di informazioni. L'accumulo di notizie ha preso, insomma, il posto delle storie. Dati e informazioni, però, frammentano il tempo, ci isolano e ci bloccano in un eterno presente, vuoto e privo di punti di riferimento. A diventare impossibile è la felicità stessa. Perché la vita, con tutti i suoi imprevisti, inciampi, tentativi ed errori, incontra la pienezza solo quando può essere condivisa e tramandata all'interno di una narrazione collettiva. «Vivere è narrare. L'essere umano, in quanto animal narrans, si distingue dagli altri animali per il fatto che narrando realizza nuove forme di vita. La narrazione ha la forza del nuovo inizio. Lo storytelling, di contro, conosce solo una forma di vita, quella consumistica» (Byung-Chul Han).


Davide Dotto

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Recensione: Il testo scritto tra coerenza e coesione, di Angela Ferrari

Recensione: Il testo scritto tra coerenza e coesione, di Angela Ferrari

Recensione: Il testo scritto tra coerenza e coesione, di Angela Ferrari

Libri Recensione di Davide Dotto. Il testo scritto tra coerenza e coesione di Angela Ferrari (Franco Cesati editore). Un saggio che ci accompagna dentro la logica di precise esigenze di un testo che svolga appieno la sua funzione.

Quando si valuta, si studia o semplicemente si legge un saggio, un racconto o un romanzo, non è importante solo la correttezza formale, anche se essa salta subito all’occhio: a nessuno piacciono errori grammaticali, ortografici, refusi. Un testo deve essere anche ben costruito e avere una struttura, una solida “architettura semantica” che lo renda coerente e coeso oltre che comprensibile.

Il testo scritto tra coerenza e coesione di Angela Ferrari, docente di Linguistica Italiana all’Università di Basilea, analizza e si addentra in questo terreno esplorandolo in maniera rigorosa e approfondita. 

Non è una trattazione semplice, ma ci accompagna dentro la logica di precise esigenze di uno scritto che svolga appieno la sua funzione.
La coerenza riguarda la logica interna del discorso: ogni elemento è legato all’altro senza salti o contraddizioni e segue un percorso ordinato e naturale affinché il flusso delle informazioni giunga chiaro e integro al destinatario. Il quale non è così costretto a fermarsi e a tornare indietro per recuperare ciò che è sfuggito nell'immediato.
La coesione si riferisce ai meccanismi linguistici che collegano le parti del testo, rendendolo chiaro, logico, fruibile ed efficace. Essa si manifesta attraverso l'uso di connettivi, pronomi, e altri strumenti linguistici che creano continuità tra le frasi. Non c'è bisogno di dire che anche le virgole, nella costruzione gerarchica del discorso, giocano il loro ruolo.

Un testo è coeso e coerente quando rispetta una certa struttura e in quanto tale si rivela unitario, continuo nel suo andamento, progressivo nella trattazione.

Coerenza e coesione assumono la loro importanza nella raccolta e nell’organizzazione di informazioni. Ciò ha a che fare con le premesse, lo sviluppo, e le conclusioni di un discorso, e lo si può ben vedere nell'articolazione gerarchica interna della quaestio medievale che rappresenta un'ordinata catena di passaggi, di fatto l’approfondimento progressivo di un argomento.
Un'opera narrativa ha chiaramente un modo diverso di essere coesa e coerente. In essa entrano in gioco continuità della trama, personaggi, ambientazione. La sua unità e continuità si manifestano, per esempio (ma non necessariamente), attraverso un ordine cronologico. Si veda per esempio il giallo che per sua natura interrompe questo tipo di progressione, pur mantenendo una solida architettura.

Coerenza e coesione non vanno date per scontate, in quanto esse richiedono un lavoro artigianale, una certa attenzione e cura nel creare un testo.

Spesso, la fretta di completare un lavoro o di rispettare una scadenza porta a una scrittura affrettata, in cui la cura per la coesione e la coerenza viene sacrificata. Senza una revisione accurata, è facile trascurare errori che compromettono continuità e chiarezza.
La rilettura e la revisione accurate sono essenziali per identificare e correggere problemi di struttura e chiarezza. A volte, anche gli autori esperti possono perdere di vista la struttura complessiva mentre si concentrano su dettagli specifici, portando a un testo disorganizzato.


Il testo scritto tra coerenza e coesione

Il testo scritto tra coerenza e coesione

di Angela Ferrari
Franco Cesati editore
Saggio
ISBN: 978-8876679353
Cartaceo € 11,40€

Quarta 

Se l'italiano non sta bene – come ci dicono da tempo le valutazioni nazionali e internazionali – non è per gli anglismi, né per la presunta morte del congiuntivo, né per gli errori di ortografia. Il problema è un altro, ed è più profondo. Sta, soprattutto, nella difficoltà degli scriventi a controllare la logica dei loro testi e i dispositivi che la segnalano: pronomi, connettivi, ordine delle parole ecc. Il volume si occupa proprio di "testo", di mostrare e spiegare quei fenomeni semantici, lessicali, sintattici e interpuntivi che, insieme, fanno di una sequenza di frasi un testo coerente e coeso. Un testo ben scritto ha una vera e propria architettura, la quale è in sintonia con i suoi obiettivi comunicativi, con la tipologia a cui appartiene, con altri testi con cui dialoga, con il contesto in cui si manifesta, con le conoscenze e le aspettative del lettore. Saperla riconoscere e descrivere è importante per molte ragioni, teoriche e applicate: per esempio perché permette di guardare alla grammatica della frase in modo diverso, non strutturale ma funzionale; o ancora perché aiuta a controllare e a migliorare la propria scrittura. E questo non solo per quanto riguarda l'italiano, ma anche per ciò che concerne le altre lingue.


Davide Dotto

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Recensione: La vita s'impara, di Corrado Augias

Recensione: La vita s'impara, di Corrado Augias

Recensione: La vita s'impara, di Corrado Augias

Libri Recensione di Davide Dotto. La vita s'impara di Corrado Augias (Einaudi). Navigare tra il tempo e la memoria, tra autobiografia e storia.

La vita s'impara di Corrado Augias, pubblicato da Einaudi, è più di un'autobiografia. Infatti tira le fila di un passato che ci riguarda da vicino. Le generazioni che si sono avvicendate lo percepiscono in modo differente, perché lo riscoprono nella propria memoria, o lo incontrano in un museo, reale o immaginario; in ogni caso, esso condiziona il nostro presente. Quando viene evocato, il passato è meditato, conosciuto e assimilato.
La vita s'impara di Corrado Augias offre un inventario delle emozioni vissute, con uno sguardo attento tra bello e brutto, buono e cattivo, gioia e tristezza, fiducia e disincanto. Si tratta di una narrazione collettiva oltre che individuale, in cui le due dimensioni dialogano fino a confondersi, creando un ponte che abbraccia gli ultimi novant'anni e condividendo una comune eredità.

Non è la stessa cosa vivere in prima persona fatti di cui le generazioni successive hanno appena sentito parlare, o forse nemmeno.

Ciò vale per chi è nato negli anni Venti-Trenta e ha vissuto direttamente le guerre mondiali e le loro immediate conseguenze, compresi i traumi e i sacrifici del periodo post-bellico. Ma riguarda senz’altro anche la società moderna, che si è eretta sulle conquiste ottenute.
Le generazioni nate negli anni Cinquanta e Sessanta, cresciute nel dopoguerra e nel periodo di ricostruzione, hanno ereditato valori e lezioni dai propri genitori, unitamente a una prospettiva di speranza, progresso e fiducia nel futuro. Quelle degli anni Settanta e Ottanta, cresciute in un mondo relativamente stabile, sono consapevoli a modo loro di questo passato impegnativo.

Le cose si complicano un po’ con i nati tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, dato che la loro connessione con questi eventi è più remota e distante, e ciò che ne ricavano deriva da romanzi, saggi, film e documentari (se hanno la pazienza, la voglia e la curiosità di approfondire).

Le testimonianze dirette diventano sempre più rare e preziose, gli interlocutori scarseggiano e i filtri si moltiplicano; gli eventi del passato – soprattutto se non assimilati e interiorizzati – sfumano e si fanno astratti.
Molte cose vengono comprese solo molto tempo dopo, grazie al lavoro degli storici.
Spesso, chi ha vissuto e documentato certi eventi ha aspettato decenni prima di parlarne, poiché la distanza temporale permette una maggiore oggettività. Questo è il caso di Il confine di Sebastiano Vassalli, ma anche del racconto della caduta del muro di Berlino.


In sostanza, non è facile raccontare gli eventi nel momento stesso in cui accadono.

Si oscilla tra testimonianza, romanzo e cronaca destinata a diventare storia. L’inchiesta giornalistica – nei limiti del possibile – assicura la distanza e l’oggettività necessarie. Con il passare del tempo (anni o decenni), le questioni vengono approfondite e lo sguardo si amplia. Tuttavia, ci si può confrontare con dati e informazioni difficili da reperire o irrimediabilmente perduti.
La differenza tra realtà e rappresentazione s’è fatta sottile nel mondo in gran parte virtuale nel quale viviamo oggi. Corrado Augias La vita s'impara

Più di qualcuno ormai, come Byung-Chul Han, parla di Crisi della narrazione, e non può essere altrimenti in un contesto di sovrabbondanza delle informazioni.

La rapidità con cui esse vengono diffuse attraverso fonti non sempre attendibili – la cui selezione richiede una riflessione approfondita – rende complicato fare ciò che Corrado Augias riesce a compiere in queste pagine: leggere tra le righe senza fermarsi su ciò che appare in superficie.


La vita s'impara

di Corrado Augias
Einaudi
Autobiografia
ISBN 978-8806259594
Cartaceo 19,00€
Ebook 10,99€

Quarta

Arrivato alla soglia dei novant’anni, dopo aver affascinato i suoi lettori con i segreti della Storia, della musica e della religione, Corrado Augias racconta l’avventura di una vita, la sua. E con grande talento di narratore, evoca l’infanzia in Libia, il ritorno a Roma, l’incubo dell’occupazione tedesca, il collegio cattolico, i primi passi nel giornalismo, e poi «Telefono giallo» e «la Repubblica». È un racconto che ha il calore e l’empatia della conversazione tra amici: la vita s’impara, ci dice Augias – soprattutto se non si perdono mai la curiosità intellettuale e la passione civile. A quasi novant’anni, Corrado Augias è un prezioso testimone del cambiamento. L’Italia di oggi – esclusi gli eterni vizi nazionali – assomiglia poco a quella di ieri. Augias ci racconta l’infanzia passata in Libia al seguito del padre ufficiale della Regia Aeronautica; la guerra e i bombardamenti; l’incubo di una feroce e lugubre occupazione; gli anni in un collegio cattolico, per lui che oggi si confessa ateo. E poi la vita professionale, il giornalismo, i libri, le fortunate circostanze che lo hanno reso partecipe di tre eventi importanti nella vita culturale del paese: la nascita della Direzione centrale programmi culturali della Rai; la fondazione del giornale «la Repubblica» nel 1976, il rilancio di RaiTre nel 1987. L’invenzione di alcuni fortunati programmi televisivi da «Telefono giallo» a «Babele», da «Città segrete» alla più recente creatura «La gioia della musica», ultimo programma ideato per la Rai prima del passaggio a La7 ancora una volta con un fortunato programma di cultura: «La Torre di Babele». Accadimenti che sono però solo la parte pubblica di un percorso che ha una componente intima ancora più interessante: il lungo apprendistato a una matura dimensione d’intellettuale. Agli eventi che hanno scandito la sua vita, Augias affianca le letture di cui s’è nutrito e dalle quali ha «imparato a vivere». Da Tito Lucrezio Caro a Renan, da Feuerbach a Freud e poi Spinoza, Manzoni, Beethoven, Nietzsche, Leopardi, i suoi maestri sono pensatori, poeti, narratori, musicisti: una costellazione ampia che non esita a chiamare il suo pantheon, figure che hanno arricchito il suo percorso professionale e, insieme, la sua consapevolezza di cittadino.


Davide Dotto

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Recensione: Chi dice e chi tace, di Chiara Valerio

Recensione: Chi dice e chi tace, di Chiara Valerio

Recensione: Chi dice e chi tace, di Chiara Valerio

Libri Recensione di Davide Dotto. Chi dice e chi tace di Chiara Valerio (Sellerio). Un giallo atipico: un riepilogo di esistenze che si dilatano e occupano tutto lo spazio possibile fino a immergersi in quelle degli altri, una lente di ingrandimento che serve non al caso narrato ma a guardarsi dentro.

Il romanzo Chi dice e chi tace di Chiara Valerio si muove tra chiaroscuri, esplorando ciò che è evidente e ciò che rimane sospeso. Il titolo stesso solleva una questione cruciale: cosa trasforma una storia in un giallo e cosa, invece, in un’indagine più profonda dell’animo umano?

L’avvocato Lea Russo, protagonista e voce narrante, non è il classico detective, anche se a suo modo si rivela un’osservatrice attenta e meticolosa.

Ogni enunciato insegue il perché di un dettaglio, mantenendo la visione d’insieme e senza lasciare fili in sospeso.
Il racconto acquisisce così la coerenza e la coesione che ci si aspetta. È qui che racconto e giallo si intrecciano, tanto più che Chi dice e chi tace può e deve essere letto due volte: la prima per apprezzarne il valore narrativo e scoprire il più classico dei romanzi alla maniera di Georges Simenon; la seconda per coglierne gli elementi che lo avvicinano a un puzzle poliziesco, dove manca una pura e fredda logica deduttiva e si fa più flessibile. Esplora infatti una certa varietà di scenari e tematiche, fino a un diretto coinvolgimento emotivo nei fatti e nelle vicende narrate.
È, in questo caso, qualcosa di ancora diverso dall’empatia di un commissario Maigret che si immerge totalmente nella psicologia e nel vissuto dei colpevoli o dei sospettati dando all’indagine – e quindi al testo narrativo – una particolare e quasi inaudita profondità. Ci sono momenti, tra l’altro, in cui i nodi da sciogliere appartengono in modo viscerale più all’avvocato Lea Russo che ad altri.

Non è necessario, pertanto, seguire con scrupolo le regole piuttosto rigide del giallo: possono essere trasgredite con intelligenza, ma non impunemente.

L’indagine sulla morte di Vittoria, avvenuta in circostanze sospette, diventa una lente attraverso la quale si può curiosare ovunque, senza dover di necessità seguire le linee guida di un’inchiesta tradizionale che forse nemmeno c’è e che, se ci fosse, sarebbe di troppo. Questo altro che permea ogni pagina del libro è qualcosa che prende tutto, che si può scavare all’infinito. Giungere a una soluzione equivale a spegnere una candela che si è miracolosamente accesa.

Se Chi dice e chi tace non è un’inchiesta, lo diventa in fondo ogni narrazione per il modo in cui è concepita e portata avanti.

Una volta risolta, al caos iniziale non subentra un nuovo ordine. L’universo descritto e narrato – quello di una cittadina di provincia, la città di Scauri – è lo stesso. Si è fatta solo un po’ di luce intorno e soprattutto si tirano le fila di un discorso più ampio. Si tratta di un “microcosmo” connesso senz’altro a un universo più grande.
Qualcuno in effetti ha detto che i libri devono suscitare domande, non dare risposte: la protagonista, l’avvocato Lea Russo, inizia a porsi domande che non è detto ricevano o debbano ricevere risposta. Esse sono frecce lanciate in diverse direzioni che colpiscono, alla fine, bersagli inaspettati. Da lì se ne porranno altre e nuove, alle quali non si è pensato. Dipende dall’urgenza del momento, e nel loro porsi, rispondono comunque a qualcosa, a un’esigenza dello spirito.

La lente di ingrandimento cui ricorre Chiara Valerio non ha nulla a che fare con quella di Sherlock Holmes, perché serve, alla fine, a guardarsi dentro.

Ed è sufficientemente “deformante”, questa lente, per essere in grado di mostrare le cose non solo per quel che sono, ma come dovrebbero essere. Che poi è la sfida di un testo narrativo, individuare un punto di fuga per guadagnare una qualche verità: della storia, dei personaggi, una verità sostanziale, processuale, o semplicemente quella di una vox populi qualsiasi.
È un riepilogo di esistenze che devono dilatarsi e occupare tutto lo spazio possibile fino a immergersi in quelle degli altri. Per farlo, però, occorre raccogliere elementi e dettagli che vengono riposti e custoditi perché non se ne perda il senso.


Chi dice e chi tace

di Chiara Valerio
Sellerio
Giallo
ISBN: 978-88389462573
Cartaceo 14,25€
Ebook 9,99€

Quarta

Un golfo dalla linea morbida, una lunga spiaggia di sabbia che corre parallela alla via Appia tra due colline, il Monte d’Oro e il Monte d’Argento. Un lungomare pieno di oleandri scandito da stabilimenti colorati e a volte sbiaditi, ognuno diverso dall’altro: la Tintarella, il Lido Delfini, il Lido del Pino, il Lido Maria, e molti altri. E poi la pizzeria Lu Rusticone, il bar Luccioletta, due chiese, una sola vera piazza. Poco più a sud scorre il fiume Garigliano e inizia la Campania. Subito a nord ci sono Formia, Gaeta, Sperlonga; in meno di due ore si arriva a Napoli e a Roma. Scauri, nel Lazio, sul Tirreno, seimila residenti nei mesi invernali e centomila nei mesi estivi. Un paese né bello né brutto, ma con una sua grazia scomposta. Qui ha scelto di vivere Vittoria, che è morta nella sua vasca da bagno. È stato uno stupido incidente. L’avvocato Lea Russo, un marito e due figlie, è sempre stata affascinata da Vittoria. Una donna distante ma curiosa, accogliente ed evasiva; nel parlare ha un fatalismo che lascia sgomenti. Era arrivata a Scauri con la sua risata che cominciava bassa e finiva acuta, aveva comprato una casa nella quale tutti potevano entrare e uscire, non aveva mai litigato con nessuno, non aveva mai cambiato taglio di capelli. Viveva con Mara, forse l’aveva adottata, forse l’aveva rapita, si dicevano tante cose. Ora Vittoria è morta per uno stupido incidente in una vasca da bagno, e Lea Russo non ne è convinta. Lea non vuole più accontentarsi di ciò che ha avuto sempre davanti agli occhi. Vuole capire come è morta Vittoria, e chi era davvero. Il primo romanzo per Sellerio di Chiara Valerio segna una traiettoria narrativa inedita. Storia nera di personaggi, indagine su una provincia insolita, ritratto di donne in costante mutazione. Niente è fermo, in Chi dice e chi tace, le emozioni, gli amori, le verità e gli enigmi, i silenzi del presente e il frastuono della memoria: tutto si muove, tutto si trasforma, tutto può sempre cambiare.

   

Davide Dotto

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Recensione: Le Désespoir des singes et autres bagatelles, di Françoise Hardy

Recensione: Le Désespoir des singes et autres bagatelles, di Françoise Hardy

Recensione: Le Désespoir des singes et autres bagatelles, di Françoise Hardy

Libri Recensione di Davide Dotto. Le Désespoir des singes et autres bagatelles di Françoise Hardy (Robert Laffont, edizione francese). Una testimonianza preziosa e a tutto tondo della vita d'artista.

"Le Désespoir des singes" indica una pianta conifera del Cile (la Araucaria du Chili) con foglie pungenti a forma di squame che scoraggiano chiunque dal tentare di arrampicarsi, persino le scimmie (les singes). Tante sono le sfide da affrontare, ma nel tempo si può diventare qualcosa di simile a un albero dotato di una forza e di una resistenza tali da diventare “la disperazione” di chi aspira a una facile scalata.
"Les autres bagatelles” invece richiamano senz’altro le passeggiate al Parc de Bagatelle di Parigi.

Come immagine è potente, se si riferisce a una autobiografia che, senza filtri, confida sfide personali, vita («Je suis née pendant une alerte, le 17 janvier 1944») e carriera di Françoise Hardy.

Françoise Hardy, cantante e cantautrice francese, scomparsa di recente, è conosciuta in Europa e in Italia per brani come Tous les garçons et les filles (Quelli della mia età, interpretata anche da Catherine Spaak).
Il suo è un discorso molto intimo che non indugia in alcun modo all'autocelebrazione. La lettura di Le désespoir des singes et autres bagatelles, pubblicato nel 2008, rivela una forte predilezione per la scrittura e la lingua francese, un tutt'uno con l’aspirazione di cercare testi, musiche e arrangiamenti adeguati al proprio mondo di emozioni e sensibilità.

Proveniente da una famiglia piccolo borghese, Françoise Hardy ha sofferto di essere il bersaglio preferito del sarcasmo di sua nonna, sviluppando un’insicurezza di fondo e complessi di inferiorità ingiustificati, dai quali non si è mai completamente liberata.

Questo ha portato a un costante sentimento di precarietà, in bilico tra diverse direzioni. Nella sua professione artistica infatti non ha premeditato nulla, e un po' tutto è stato  un tuffo in acqua prima di imparare a nuotare.
Tuttavia, ha trovato spazio per muoversi in una "zona grigia" dove ha potuto diventare, essere e fare qualsiasi cosa desiderasse. Françoise Hardy si avvicinava agli altri con cautela e con segrete attese spesso deluse. La tardiva consapevolezza che non tutto si può o si riesce a comunicare la portò a realizzare che «mieux valait n’ouvrir son cœur qu’aux véritables âmes sœurs…»
Malgré leur banalité, mes chagrins d’enfant furent si profonds que chaque séparation que j’ai été amenée à vivre à l’adolescence puis à l’âge adulte m’a dévastée de la même façon. Françoise Hardy, Le Désespoir des singes et autres bagatelles

Inconsapevolmente, ha prodotto una serie di antidoti contro ciò che poteva anche solo ricattarla emotivamente, accentuando un intuito affine a un prezioso sesto senso.

Qualità che avrebbe condiviso con la sua anima gemella (âme sœur) per antonomasia: Jacques Dutronc.
Grazie alla radio, matura una passione per le canzoni in cui può esprimere il suo mondo, i suoi stati d’animo.
Arrivano le contestazioni del 1968, e l’aspirazione a ottenere ulteriori conferme in campo musicale. È in un'occasione che, invitata dal suo editore, Françoise Hardy è alla ricerca di qualche brano da interpretare, ma nessuno attira la sua attenzione, finché non esamina, con la dovuta calma, la copia strumentale meno triste di quelle a disposizione: It hurts to say good bye. Questo brano è diventato la sua interpretazione più popolare nella versione dal titolo Comment te dire adieu.

La sua è un’esistenza all’insegna di una fragilità preziosa che le consente di tenere i piedi per terra e la testa tra le nuvole quanto basta. 

Dotata di una natura sedentaria, le circostanze l’hanno spinta comunque a viaggiare senza sosta e a lasciare Parigi: è stata quindi anche in Italia, molti i brani cantati in italiano.
Sono altri tempi, ci sono scuole ma non social né reality, gli artisti non hanno confidenza con la propria immagine o con la propria voce. In tutto questo l’inesperta Françoise Hardy intuisce – percependone dispetto – «la médiocrité des orchestrations et des musiciens», correndo ai ripari quando è in grado di farlo. Nel 1962  si rivela al pubblico con Tous les garçons et les filles, sopraffatta dal successo tanto inaspettato quanto simultaneo in Europa.

La ricerca è spirituale oltre che estetica, ed è questa la direzione in cui si muovono, fin dall’origine, la sua lucidità, il suo intuito, la marcata introspezione, che la portano a voler rincorrere piccoli frammenti di verità.

Comincia col seguire corsi di psicologia di cui non rimane soddisfatta, venendo attratta dalla astrologia, senza avere all'inizio idea di cosa si tratti, diffidente verso chi vede in essa nient'altro che un'arte predittiva e non una complessa scienza umana, utile per scavare dentro di sé. Tutto sta, a un certo punto, nel porsi le domande giuste al momento giusto, senza la pretesa di risolvere tutti i problemi («il faut savoir que tous les problèmes ne sont pas à résoudre»), che siano i propri, o altrui.

A causa di questi "frammenti di verità" non apprezza melodie troppo prevedibili (tipiche), mentre adora canzoni di ben altro livello, se non più sofisticate, più affini.

Ciò potrebbe spiegare perché, ascoltato Il ragazzo della via Gluck, pezzo con il quale Adriano Celentano si  presenta a Sanremo nel 1966, venendo eliminato dopo la prima serata, fa di tutto per registrarne una versione francese: La maison où j'ai grandi.
Sempre nel 1966, ha interpretato la canzone di Mina, Se telefonando, nella versione Je changerais d'avis.


La carriera di Françoise Hardy non si ferma al periodo d’oro della musica anni Sessanta, ma si ritaglia uno spazio considerevole nel panorama non solo canoro, ma culturale.

Non sono molti, infatti, gli artisti che nel corso dei decenni si impegnano in un percorso di costante evoluzione, sperimentando diverse strade, ma sempre con particolare attenzione alla qualità dei testi, delle melodie, degli arrangiamenti, scegliendo con cura autori, parolieri e collaboratori, senza abbandonare testi introspettivi e malinconici.



Le Désespoir des singes et autres bagatelles

di Françoise Hardy
Robert Laffont
Autobiografia
ISBN: 978-2221111635
Cartaceo 22,50€
Ebook 9,99€

Quarta

Voix sans pesanteur, beauté intemporelle, silhouette élancée? Françoise Hardy était surtout une auteur-compositeur-interprète exigeante, appréciée dans le monde entier, qui a inspiré plusieurs générations depuis son premier succès,Tous les garçons et les filles, en 1962.
Pour la première fois, elle livre les clefs de sa vie. Elle raconte son enfance en vase clos qui ne la préparait en rien à une célébrité totalement inattendue, évoque ses amours avec Jean-Marie Périer, puis avec Jacques Dutronc, son mari, et naturellement parle de leur fils, Thomas.
Françoise Hardy revient aussi sur ses chansons, ses collaborations et ses rencontres. Au gré des années, on croise Dali, Stockhausen, Ionesco, Bob Dylan, Mick Jagger, Elvis Presley, Pauline Réage, Hélène Grimaud ou Michel Houellebecq, ainsi que tous ceux qui ont le plus compté pour elle : Mireille et Emmanuel Berl, Patrick Modiano, Michel Berger, Serge Gainsbourg, Gabriel Yared, Etienne Daho...
Écrit avec sincérité, lucidité et tendresse, son récit permet de revivre des épisodes connus, d'en découvrir d'autres, et surtout de rire, de rêver et de s'interroger avec elle sur ce qui fait le sens de nos existences, joies et souffrances mêlées. Mieux qu'un livre de souvenirs, une grande traversée des apparences, où l'on découvre, depuis l'enfance à nos jours, l'itinéraire intérieur, artistique et amoureux d'une artiste profondément singulière.


Davide Dotto

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Recensione: Coltello, di Salman Rushdie

Recensione: Coltello, di Salman Rushdie

Recensione: Coltello, di Salman Rushdie

Libri Recensione di Davide Dotto. Coltello. Meditazioni dopo un tentato assassinio, di Salman Rushdie (Mondadori). Meditazioni dopo un tentato assassinio. Il Potere della Parola: la risposta di Rushdie all'aggressione attraverso la Scrittura.

Il 12 agosto 2022, poco prima dell’inizio di una conferenza pubblica nell’anfiteatro di Chautauqua – nello Stato di New York – sulla “Importanza di proteggere gli scrittori dai soprusi”, Salman Rushdie è stato bersaglio della «volontà cieca e determinata» di un attentatore.

Le premonizioni inquietanti sono state numerose e concordanti.

Incubi, presagi letterari (foreshadowing), e non solo un "senno del poi" fin troppo saggio. Questo "senno del poi" è stato alimentato da riferimenti letterari, incubi ricorrenti, dalle stesse pagine dei romanzi di Rushdie, dalla navicella che colpisce l'occhio destro della luna (riferimento a Le voyage dans la Lune, film muto del 1902 di Georges Méliès) fino alle vicende di Pampa Kampana nell'ultimo romanzo. Alla fine, tutto questo esplode. Il rumore di sottofondo che ha prodotto è diventato così insistente da non essere ascoltato, un monito percepito solo a cose fatte, quando forse si attendeva che accadessero per liberarsene.

Alla radice di tutto la fatwā emessa contro lo scrittore e i suoi editori dall’Ayatollah Khomeini nel febbraio del 1989, a seguito della pubblicazione del romanzo I versi satanici.

Nonostante i limiti alla libertà di movimento, necessitando una costante e scrupolosa protezione, la produzione letteraria non si è arrestata. I suoi ultimi romanzi sono Quichotte (2020) e La città della vittoria (2023).

Leggi anche Davide Dotto | Recensione: Quichotte, di Salman Rushdie

Coltello. Meditazioni dopo un tentato assassinio, la più autobiografica tra le sue opere, non è un memoir in senso stretto.

Non contiene semplicemente rievocazioni e riflessioni sulla propria vita: esse diventano un tutt’uno con l'opera letteraria, al di là dell’esperienza vissuta e interiorizzata.
Il rasoio di Occam è un coltello concettuale, un coltello della teoria, che toglie di mezzo un bel po’ di fuffa e ci ricorda di preferire sempre, tra le spiegazioni della realtà disponibili, quelle più semplici a quelle più complicate. In altre parole, un coltello è uno strumento, e assume il suo significato sulla base dell’uso che ne facciamo. Un coltello è moralmente neutro. A essere immorale è l’uso sbagliato che se ne fa. Salman Rushdie, Coltello


C’è un punto di svolta, un evento non del tutto inaspettato che però crea attesa e sospensione.

Accentua fuori misura il senso della profonda precarietà dell’esistenza, quella che rende impossibile qualsiasi progetto a lungo termine. È un sogno angoscioso che si realizza e suggerisce il moto di rassegnazione di chi non si aspetta un dopo. Ma Coltello è, a tutti gli effetti, il racconto di questo dopo. Si tratta, a ben vedere, di un tema ricorrente nell’opera di Rushdie, che spesso esplora le sfide e le trasformazioni che seguono momenti di grande cambiamento o crisi.
Mi limiterò a dire questo: non saremmo le persone che siamo oggi senza le calamità dei nostri ieri. Salman Rushdie, Coltello

Sono almeno due le storie, una intrappolata dentro l'altra, quella dello scrittore che a poco a poco supera i postumi della violenta aggressione, e dell'attentatore che assume – anch'egli a poco a poco – le fattezze di un personaggio di Salman Rushdie.

Un po' tutti, alla fine, si è un po' come libri già scritti, e non tanto per il futuro ma per il passato al quale si ritorna con occhi nuovi, e da cui ci si sente trascinati
Opera nell'autore, nella rievocazione come durante i drammatici momenti dell'aggressione, una forma particolare di dissociazione perché vediamo in Salman Rushdie lo scrittore che detta legge su eventi, personaggi e interpretazioni («Comunque, dovrò rassegnarmi a essere tanto "Salman" quanto "Rushdie"»).

Lo vediamo come un personaggio che non smette però di tessere la sua storia.

Qualcuno che cerca di riappropriarsi di significati ed eventi guardandoli dall'esterno, cosa che stavolta non gli capita di fare; indossa secondo l'occasione la maschera, le vesti di un ruolo e lo fa come si deve, anche se per un momento gli è stato sottratto. Finché non giunge il messaggio, o la comprensione più profonda nonostante il lungo e intenso cercare, l’identica storia non fa altro che ripetersi nell’eco di infinite varianti, come se capitasse non ad altri, ma a sé stessi.


Questo, in fondo, intende fare Coltello di Salman Rushdie: scavare dentro e riflettere su eventi come se non li avesse vissuti in prima persona.

Tanto da raccoglierne l'eco da diverse fonti e diversi punti di vista, dato che il suo al momento è obnubilato, come si conviene a un personaggio. Inoltre, come nei romanzi, tenta di aprire un varco tra una dimensione e l'altra facendole colloquiare e non solo costruendo ponti, ma autentiche vie di fuga per godere la vita o semplicemente sopportarla nel riuscire a vederla così com'è. E strappare al caso e alla precarietà, quando si può, qualche brandello di normalità.



Coltello
Meditazioni dopo un tentato assassinio

di Salman Rushdie
Mondadori
ISBN: 978-8804780366
Cartaceo 19,95€
Ebook 9,99€

Quarta

Da Salman Rushdie ci arriva un resoconto personale e potente su com'è riuscito a resistere - e a sopravvivere - a un attentato alla sua vita trent'anni dopo la fatwa che era stata scagliata contro di lui. Nell'ormai lontanissimo febbraio del 1989 l'ayatollah Khomeini emise una fatwa, una sentenza di morte, contro Rushdie per aver scritto I versi satanici, romanzo nel quale, a detta del leader iraniano, venivano offesi la religione islamica e il suo profeta. A quasi trent'anni da quell'evento, la mattina del 12 agosto 2022, mentre si trovava sul palco del Chautauqua Institution – nello stato di New York – per tenere una conferenza, un uomo in abiti e maschera neri si precipitò lungo il corridoio verso di lui brandendo un coltello. Il primo pensiero di Rushdie fu: "Sei tu, dunque. Eccoti qui". Quello che seguì fu un atto di violenza che scosse il mondo letterario e non solo. In queste pagine potentissime, Rushdie ci fa rivivere per la prima volta, e con dettagli indimenticabili, gli eventi traumatici di quel giorno, nonché quello che venne dopo: il suo complicato percorso verso il recupero fisico e la guarigione resi possibili dall'amore e dal sostegno di sua moglie, Eliza, della sua famiglia, del suo esercito di medici e fisioterapisti e della sua comunità di lettori in tutto il mondo. Coltello è l'opera di un Maestro delle Lettere all'apice delle sue capacità, che scrive con passione, con dignità, con onestà incondizionata. È anche un ricordo profondamente commovente del potere della letteratura di dare un senso all'impensabile, una meditazione intima e rassicurante sulla vita, sulla perdita, sull'amore, sull'arte e sul trovare la forza di rialzarsi.


Davide Dotto

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Recensione: Grammamanti, di Vera Gheno

Recensione: Grammamanti, di Vera Gheno



Libri Recensione di Davide Dotto. Grammamanti: immaginare futuri con le parole di Vera Gheno (Einaudi): «Le parole sono centrali nelle nostre vite e dischiudono infinite opportunità. Per questo dovremmo instaurare con loro una vera e propria relazione amorosa».

Da qualche tempo circola il termine “grammarnazi”, che evoca un approccio rigido verso le regole grammaticali e sintattiche, considerate immutabili, e vede con sospetto e un errore da correggere ogni scostamento, deviazione. È un approccio iper-razionalista del tipo “out – out”: non ammette compromessi e trascura la natura dinamica e viva della lingua.

Grammamanti: immaginare futuri con le parole di Vera Gheno, concepito come un monologo, celebra invece una prospettiva più in sintonia con la capacità della lingua di adattarsi e riflettere la complessità di un mondo in trasformazione.

La lingua, influenzata dalla dimensione spazio-temporale, è in costante cambiamento. L’evoluzione può prendere percorsi inaspettati, soprattutto se intervengono la creatività e l’arte di scrittori che – con il loro stile, le loro opere – segnano una via, e in questi casi non c’è grammatica o regola che tenga: queste arrivano dopo, a cose fatte, facendo il punto. Anzi, persino quelle che appaiono come “sgrammaticature” possono consolidarsi nell’uso e resistere, mentre altre forme “cadono in disgrazia”.

Questo vale anche per le frasi idiomatiche e i modi di dire che non riconosciamo più come tali.

Solo per fare un esempio, Vittorio Sermonti si domandava cosa fosse andato perduto, dopo oltre settecento anni di interpretazioni e riletture, «dei molti significati minuziosamente orditi sotto la trama» della Commedia, di fronte al «sedimento di significati secondi, terzi e quarti» aggiunti nel frattempo, e che magari «Dante stesso ignorava e non avrebbe capito nemmeno».
È fondamentale costruire un legame personale, una relazione quasi amorosa (da cui grammamare) con la lingua e con le parole che scegliamo di utilizzare. Non c'è altra maniera per esprimere una visione del mondo, ciò che risiede nel proprio animo, e per mantenere una connessione con il pensiero, il proprio modo di chiamare le cose e di interagire con la realtà e la comunità di cui facciamo parte.

Grammamanti è, insieme ad altre pubblicazioni di Vera Gheno, un libro di divulgazione e soprattutto un discorso sul metodo.

Le regole sono importanti, ma occorre capire da dove vengono e come nascono per avere una maggiore consapevolezza nell’uso delle parole e per una comunicazione meditata, in modo che non siano “buttate a caso” e non ci si imprigioni nella ossessiva e inconcludente ricerca di regole stabilite per sempre.
Non si inizia dalla grammatica per poi cominciare a parlare, la cosa è molto più misteriosa e intrigante: potrebbe essere vero per lo studio di una lingua straniera, ma non per la lingua madre. Nulla di diverso dall’esplorare il mondo esterno, poiché anche qui le leggi di come esso funzioni non sono mai definitivamente conosciute (lo impone la logica della scoperta scientifica).

Il nostro è un caso particolare. L’Italiano, quale lingua parlata, ha poco più di sessant’anni, quindi è relativamente giovane.

La lingua letteraria, a beneficio di una élite, è il prodotto di opere più sperimentali di quanto si possa pensare, nonché di un profondo studio. E non si parla solo del De vulgari eloquentia di Dante, o della Commedia, ma di Manzoni che nell’approntare la seconda edizione dei Promessi Sposi sciacquò «i panni in Arno», giocando molto sulle possibilità linguistiche offerte dal “fiorentino”: vale la pena sul punto tenere a mente la ricostruzione attenta e scrupolosa del romanzo La correttrice di Emanuela Fontana. Le parole emergono a poco a poco, nel senso che nascono per rappresentare la realtà circostante, e per spiegarla.

Cosa viene prima, il pensiero o la parola?

Se la parola è successiva, ci sono un pensiero, un’intuizione e un’idea che aspirano a essere espresse. Ciò avviene man mano che sviluppiamo una consapevolezza, una necessità, il bisogno di "vocalizzare", di attribuire un significato. La parola è in questo senso «sempre postuma», viene in un secondo momento. E può essere inadeguata, richiedendo di essere inventata per descrivere qualcosa di nuovo. Da qui nasce “una relazione” particolare e di reciproco scambio: la parola struttura il pensiero stesso, lo articola e lo trasmette. Questa “relazione” viene meno quando si predilige un approccio autoreferenziale e rigido, perdendo di vista il contesto (sia di chi parla che del destinatario). Oppure, sui social, quando si manifestano comportamenti che impediscono alla radice la funzione della comunicazione e che spesso derivano da narcisismo, impulsività, ansia di dover sempre e immediatamente dire la propria: fenomeni e tentazioni che richiedono autodisciplina e appositi antidoti.

Come dobbiamo rapportarci, quindi, con le parole?

Dobbiamo dotarci dei giusti strumenti, in assenza dei quali non ci si può intendere perché:
  1. Mancano le parole;
  2. se mancano le parole, non siamo in grado di articolare argomentazioni;
  3. se non siamo in grado di articolare argomentazioni, non possiamo persuadere né farci capire;
  4. se non ci facciamo capire non si comunica, ma si va di prepotenza e si alza la voce;
  5. se si va di prepotenza e si alza la voce, la relazione (qualunque essa sia) non funziona.

La parola precede il pensiero – forse – in un ambito diverso, quello della Intelligenza Artificiale che per funzionare richiede una quantità spropositata di dati organizzati secondo un modello, o un algoritmo.

E il pensiero (o qualcosa che gli assomiglia) nasce dopo, quale prodotto di una computazione complessa che imita la capacità dell'essere umano (non delegabile) di generare conoscenza intelligibile.
La parola, la lingua, come tecnologia di comunicazione così intesa, richiedono di riformulare la domanda iniziale. Non "cosa viene prima", ma "chi", e quale sia l’origine del “logos” di cui siamo dotati (non solo parola, non solo pensiero ma entrambi).






Grammamanti
Immaginare futuri con le parole

di Vera Gheno
Einaudi
ISBN 978-8806260224
Cartaceo € 14,25€
Ebook 8,99€

Quarta

Le parole sono centrali nelle nostre vite e dischiudono infinite opportunità. Per questo dovremmo instaurare con loro una vera e propria relazione amorosa, sana, libera, matura. Perché le parole ci permettono di vivere meglio e ci danno la possibilità di cambiare il mondo. Chi può definirsi grammamante? Chi ama la lingua in modo non violento, la studia e così comprende di doverla lasciare libera di mutare a seconda delle evoluzioni della società, cioè degli usi che le persone ne fanno ogni giorno parlando. Essere grammarnazi significa difendere la lingua chiudendosi dentro a una fortezza di certezze tanto monolitiche quanto quasi sempre esili; chi decide di abbracciare la filosofia grammamante, invece, non ha paura di abbandonare il linguapiattismo, ossia la convinzione che le parole che usiamo siano sacre, immobili e immutabili. Perché per fortuna, malgrado la volontà violenta di chi le vorrebbe sempre uguali a loro stesse, le parole cambiano: alcune si modificano, altre muoiono, ma altre ancora, nel contempo, nascono. E tutto questo dipende da noi parlanti: non c’è nessuna Accademia che possa davvero prescrivere gli usi che possiamo farne; siamo noi a deciderlo e permettere il cambiamento. È tempo di smettere di essere grammarnazi e tornare ad amare la nostra lingua, apprezzandola per quello che davvero è: uno strumento potentissimo per conoscere sé stessi e costruire la società migliore che vorremmo.

   

Davide Dotto

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Recensione: Shakespeare's Sisters, di Ramie Targoff

Recensione: Shakespeare's Sisters, di Ramie Targoff

Recensione: Shakespeare's Sisters, di Ramie Targoff

Libri Recensione di Davide Dotto. Shakespeare's Sisters. Four Women Who Wrote the Renaissance, di Ramie Targoff (riverrun | Quercus Publishing Plc). Storia di quattro donne che sfidarono il Patriarcato con la penna.

La scrittura non richiede solo talento e ispirazione, occorrono almeno altre due cose: risorse e una stanza tutta per sé, che è il titolo di una raccolta di conferenze tenute da Virginia Woolf e pubblicata nel 1929. La scrittrice inglese, in una di esse, si interrogava sul motivo per cui le donne avessero scritto così poco rispetto agli uomini, contribuendo in misura minore alla letteratura.
La ragione è dovuta alle numerose sfide incontrate lungo il cammino, a tutta una serie di difficoltà che bussano alla porta, di lacci e aspettative che rubano tempo alla scrittura e ogni opportunità per farlo: l’accesso limitato alla cultura, ai libri, le estenuanti lotte per conquistare una propria indipendenza intellettuale.

Eppure, nonostante gli ostacoli, il periodo storico vissuto, le sanguinosissime guerre di religione, lo spauracchio dell'Armada Invencible, i processi per stregoneria, ci sono almeno quattro scrittrici che hanno lasciato il segno nell'Inghilterra del XVI e del XVII secolo.

Le loro vite e disavventure sono raccontate con dovizia e cura da Ramie Targoff nel suo recente Shakespeare’s Sisters, Four Women Who Wrote the Renaissance.
Anne Clifford (1590-1676) i cui Diari, pubblicati nel 1923, raccontano la storia di chi – potendo contare su qualche privilegio di nascita e di ricchezza – ha lottato una vita intera per far valere i propri diritti ereditari alla morte del padre.
Aemilia Lanyer (1569 – 1645), riconosciuta come la prima donna inglese a pubblicare un libro di poesie, Salve Deus Rex Judaeorum, proveniva dalla piccola nobiltà. Grazie alla letteratura ha tentato di migliorare la propria condizione e la propria posizione sociale.
Mary Sidney Herbert, in seguito Contessa di Pembroke (1561 – 1621), curatrice ed editrix delle opere del fratello Philip, portò a termine la traduzione dei Salmi, noti come The Sidney Psalm. Proveniva dall'alta aristocrazia inglese ed era ben introdotta a corte.
Elizabeth Cary (1585 – 1639), autrice dell’opera teatrale The Tragedy of Mariam, faceva parte della ricca borghesia, in accesa competizione con la nobiltà.

C’è un quinto personaggio che non va assolutamente ignorato, e con il quale un po’ tutte, per ovvie ragioni, ebbero a che fare, e con le quali fa gruppo.

Elisabetta I (1533-1603), anch'essa scrittrice, traduttrice,  autrice di poesie.
No one would ever have imagined she would rule for as long as she did. Ramie Targoff, Shakespeare's Sisters.
Le donne inglesi condividevano molto poco con la regina, apparendo la sua figura fuori dalla  loro portata. Ma proprio per questo, se non incarnò un esempio da seguire, fu un faro, un punto di riferimento («Non rimproveratemi più di non avere figli, perché ognuno di voi, e tutti quelli che sono inglesi, sono miei figli»).
"Reproach me so no more that I have no children”, she declared, “for every one of you, and as many as are English, are my children”. Ramie Targoff, Shakespeare's Sisters.

Le loro storie sono tanto diverse quanto rappresentative di un'epoca.

Ciascuna, a suo modo, è un'antesignana che ha portato avanti iniziative e idee insolite per quei tempi, o senza precedenti («pioneer in women's writing»). Recano una testimonianza preziosa delle rispettive esistenze, trasformandole in testo e portando avanti battaglie e ragioni dinastiche contro i parenti uomini (come le vicende legali di Anne Clifford immortalate nei suoi diari), con l'obiettivo di avere un ruolo definito da recitare nel palcoscenico del mondo.
Si trattava nell'insieme di opere non destinate a un pubblico generalizzato (non esisteva), ma a circolare privatamente, non oltre una cerchia ristretta. Ciò significa che poco è stato conservato, molto è andato perduto.
Cosa contengono mai, queste opere?

Un tentativo non solo di far sentire la loro voce, ma di dire la propria sulla cultura e le rigide convenzioni sociali del tempo, strappando momenti di reciprocità.

Denunciando l’insostenibilità di dover anteporre al proprio l’interesse di un marito, mettere al di sopra la propria coscienza. Esprimono la sfida radicale a uno status quo e il tentativo di capire fino a che punto ci si potesse spingere verso un punto di vista alternativo. Un po' tutte sono  il moderno riflesso, l’eco di Antigone e del suo buon senso.





Shakespeare's Sisters
Four Women Who Wrote the Renaissance

di Ramie Targoff
riverrun | Quercus Publishing Plc
ISBN: 978-1529404890
Cartaceo 20,18€
Ebook 14,99€

Quarta

In an innovative and engaging narrative of everyday life in Shakespeare's England, Ramie Targoff carries us from the sumptuous coronation of Queen Elizabeth in the mid-16th century into the private lives of four women writers working at a time when women were legally the property of men. Some readers may have heard of Mary Sidney, accomplished poet and sister of the famous Sir Philip Sidney, but few will have heard of Aemilia Lanyer, the first woman in the 17th century to publish a book of original poetry, which offered a feminist take on the crucifixion, or Elizabeth Cary, who published the first original play by a woman, about the plight of the Jewish princess Mariam. Then there was Anne Clifford, a lifelong diarist, who fought for decades against a patriarchy that tried to rob her of her land in one of England's most infamous inheritance battles.
These women had husbands and children to care for and little support for their art, yet against all odds they defined themselves as writers, finding rooms of their own where doors had been shut for centuries.

   

Davide Dotto
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Recensione: Literary Theory for Robots, di Dennis Yi Tenen

Recensione: Literary Theory for Robots, di Dennis Yi Tenen

Recensione: Literary Theory for Robots, di Dennis Yi Tenen

Libri Recensione di Davide Dotto. Literary Theory for Robots: How Computers Learned to Write di Dennis Yi Tenen (W W Norton & Co Inc.). Le radici profonde dell'Intelligenza Artificiale nella storia e nella cultura umana attraverso i secoli.

Literary Theory for Robots, pubblicato da W W Norton & Co Inc., è una storia accurata e lineare dell’Intelligenza Artificiale. Scritto da Dennis Yi Tenen, professore associato di inglese presso la Columbia University ed ex ingegnere software di Microsoft, il volume tratta un argomento impegnativo e complesso per le sue implicazioni tecniche, morali e sociali.

Non sono poche le pubblicazioni che approfondiscono lo scenario in cui è nata quella che chiamiamo Intelligenza Artificiale, la quale non si è affermata all’improvviso.

L’approccio delle varie opere è diverso e possono prevalere, pertanto, istanze etiche, sociologiche, talvolta fantascientifiche se non distopiche (quando e se si parla di un avvenire trans-umano o post-umano), oltre che questioni di carattere tecnico-scientifico. I libri che vale la pena di ricordare sono almeno due.
Il primo, Il confine del futuro. Possiamo fidarci dell’intelligenza artificiale? di Francesca Rossi (Feltrinelli) è scritto da una delle maggiori esperte in materia. Il secondo, 12 Bytes. Come siamo arrivati fin qui, dove potremmo finire in futuro, della scrittrice americana Jeannette Winterson (Mondadori) esplora gli aspetti più affascinanti che possono interessare chi voglia farsi un’idea di un argomento che riguarda un domani non facile da immaginare.

Sono innumerevoli le attività coinvolte, come interi processi e professioni soggetti all'automazione.

E non si parla solo di compiti ripetitivi, ma di operazioni complesse che richiedono l’analisi di grandi quantità di dati, di quella che viene chiamata e-learning, le tecniche di apprendimento automatico che consentono alla IA di migliorare le proprie prestazioni fino ad assumere decisioni rilevanti.
Il punto a cui siamo giunti oggi è il frutto di secoli, se non millenni, di progresso culturale e intellettuale. Il tutto ha contribuito a formare un corpus di conoscenze adeguatamente trasmesso alle generazioni che via via si sono succedute.


Nella vita di tutti i giorni possiamo fare a meno di compiere con penna e calamaio conti complicati, o di tenere a mente una gran mole di informazioni: per questo ci sono fogli di calcolo, libri, enciclopedie e biblioteche.

A questi si aggiungono appositi software o gestionali, («smart device») per organizzare ed elaborare dati.
Il tempo risparmiato ci consente o ci dovrebbe consentire di dedicarci ad altro. Ma anche questo altro alla fine e a poco a poco è entrato nell’alveo di dispositivi, in un percorso che il libro di Dennis Yi Tenen ricostruisce con meticolosità. È importante infatti comprendere il motivo di un certo stato di cose, senza darlo per scontato. È la risposta articolata a una domanda che in parte è il sottotitolo del libro di Jeannette Winterson («Come siamo arrivati fin qui»).

L'evoluzione della IA si radica a pieno titolo – presupponendola – in tutta la storia umana, nei suoi progressi, i suoi fallimenti, in tutte le discipline umanistiche.

Il modo di rapportarci oggi con le informazioni, i dati, così come la loro “estrazione”, “(ri)elaborazione”, solleva un problema di “selezione”, o persino di “decimazione” per la loro sovrabbondanza indiscriminata (Umberto Eco - L'abbondanza dell'informazione).
La questione di chi legga, selezioni, estragga dal "mare magnum" delle informazioni ciò che di volta in volta ci serve, è centrale: è lo studioso, il lettore o anche questa attività viene automatizzata e affidata al "chatbot"? Da tempo si è riflettuto sul modo di "estrarre" o di "selezionare" ciò di cui abbiamo bisogno in modo "automatico". Si è iniziato con le mappe mentali, escogitando stratagemmi in grado di passare senza sforzo da una proposizione all'altra, agevolando il ragionamento, la scoperta, lo studio.

Dennis Yi Tenen ci ricorda la figura di Raimondo Lullo e la conoscenza racchiusa e sintetizzata in tabelle e ruote.

Si tratta di un metodo non dissimile al lato pratico – con le dovute proporzioni – dalla consultazione di un “oracolo”. Non per niente Lullo era scrittore, filosofo, astrologo, alchimista e mistico, noto per la sua “arte” o “fantasia” combinatoria, colui che con la sua immaginazione aveva preconizzato qualcosa come un "Excel" prima di "Excel".
The table captures a disembodied intellect. There, from each cell (camera) of a column, it derives (abstrahitur) a calculation (una ratio) – or perhaps, the English ratio, in the sense of a “quantitative relation between amounts”. Dennis Yi Tenen, Literary Theory for Robots

Non arrivano all’improvviso, quindi, nemmeno le intuizioni di Ada Lovelace.

Figlia di Lord Byron, matematica di notevole talento, la prima programmatrice in senso moderno («imagined an engine that could manipulate any symbolic information whatsoever, not just numbers»), vissuta nel contesto della Rivoluzione Industriale, quando si realizzavano le prime macchine e si sognavano automi meccanici costituiti da ingranaggi e rotelle.
È nota in particolar modo per il suo contributo all’idea della macchina analitica di Charles Babbage, di fatto il primo computer della storia che, per la tecnologia del tempo, non poté essere realizzato, ma vi sono già le premesse per gli sviluppi futuri dell'informatica. Il primo computer – piuttosto ingombrante – in fondo vide la luce soltanto nel 1944 (Colossus), un secolo dopo.

Vi è come una corsa alla scoperta dei segreti e delle connessioni che permettano di organizzare le varie branche del sapere.

E in fondo già il tentativo sistematico di Aristotele ne è la comprova. Le sue categorie possono essere considerate i mattoni di un sapere universale, alla base dei rudimentali tentativi di chatbot. Per non parlare della quaestio medievale e del suo più insigne rappresentante, Tommaso d'Aquino, il quale tentò di armonizzare la filosofia aristotelica con la teologia cristiana. Attraverso il metodo della “quaestio” (una rigorosa investigazione basata sulla ragione, sulla logica e la riflessione) si interrogò – con un approccio enciclopedico – su tutti i temi cruciali dell’epoca, compiendo un’importante opera di “sistemazione” e “organizzazione” del sapere: la natura dell’essere umano, il suo rapporto con Dio, il ruolo della ragione nella comprensione della verità dietro la quale vi è un ordine, un principio universale di conoscenza, un’intelligenza che sovrasta e guida tutte le cose.

Fin dagli inizi della storia del pensiero si discute dell'unità del molteplice, di una "intelligenza" che sovrintende il tutto.

Una causa sui che in quanto tale non presupponga una coscienza essendo eterna, ma sia un principio supremo e trascendentale (così già nel pensiero di Plotino).
Verrebbe da domandarsi se l'Universo che abitiamo non funzioni proprio in questo modo, sulla base di un imponente modello, che via via andiamo scoprendo. Un algoritmo universale che si è andato – e si va – alimentando e costituendo particella dopo particella, contemplando un'intelligenza creatrice che è sì origine di tutto, ma che va oltre l'idea stessa di coscienza, ma talmente precisa e perfetta da replicarsi, una sorta di matrice essa stessa.

Nelle riflessioni contenute nel libro Literary Theory for Robots, Dennis Yi Tenen scopre una Intelligenza Artificiale che, lungi dal rivaleggiare con l’essere umano o con la sua coscienza, è una “intelligenza collettiva”.

Nata dal lavoro congiunto (sinergia) di filosofi antichi e moderni, matematici, letterati, ingegneri, linguisti e dagli aggiornamenti che aggiungono costantemente mattoni, tasselli, correggendo e perfezionando un che di prodigioso. Dall’altro lato però, grazie all'avanzamento della tecnologia informatica, si assiste a una crescita esponenziale della capacità computazionale e della velocità di elaborazione, che consentono il machine learning.
A questo punto la IA può apparire “trascendentale”, quasi un “oracolo” via via che la verifica e il controllo dei risultati e dei processi cessano di essere alla portata dei comuni mortali o, meglio, dei singoli individui. Questo probabilmente è l’aspetto nuovo e inedito che spaventa di più.


Literary Theory for Robots
How Computers Learned to Write

di Dennis Yi Tenen
W W Norton & Co Inc
ISBN: 978-0393882186
Cartaceo 20,00€
Ebook 14,56€

Quarta 

Literary Theory for RobotsIntelligence expressed through technology should not be mistaken for a magical genie, capable of self-directed thought or action. Rather, in highly original and effervescent prose with a generous dose of wit, Yi Tenen asks us to read past the artifice—to better perceive the mechanics of collaborative work. Something as simple as a spell-checker or a grammar-correction tool, embedded in every word-processor, represents the culmination of a shared human effort, spanning centuries.Smart tools, like dictionaries and grammar books, have always accompanied the act of writing, thinking, and communicating. That these paper machines are now automated does not bring them to life. Nor can we cede agency over the creative process. With its masterful blend of history, technology, and philosophy, Yi Tenen’s work ultimately urges us to view AI as a matter of labor history, celebrating the long-standing cooperation between authors and engineers.



Davide Dotto
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